In bilico tra verità e finzione, l’autofiction è un fenomeno sempre più diffuso. Pubblichiamo oggi una panoramica sulle origini e le derive del genere nella letteratura cilena, a cura di Lorena Amaro. L’articolo è apparso sulla rivista Dossier, che ringraziamo.
di Lorena Amaro
traduzione di Massimiliano Bonatto
Nel 2012, Lina Meruane pubblicò il romanzo Sangue negli occhi, nel quale la protagonista, Lucina, scrittrice e dottoranda a New York, firma i suoi racconti con lo pseudonimo «Lina Meruane». L’autrice descrive con un tocco fantastico la lenta e inesorabile progressione di Lucina (luciferina) che, affetta da un grave problema alla vista, appare allo stesso tempo come vittima e carnefice. Dal proprio sguardo allo sguardo altrui, occhio per occhio, si sviluppa il racconto scopico di questa donna semicieca, in cui vedere ed essere visti, farsi vedere ed essere scoperti, sono la colonna portante di spazi e tempi passati e futuri. Gran parte della biografia del personaggio Lucina/Lina combacia con quella dell’autrice. «Ho iniziato a lavorare come giornalista ma mi hanno cacciato perché falsificavo la verità oggettiva dei fatti, così sono passata alla finzione autentica al cento per cento […] Per dimostrarlo ho messo sul tavolo il mio ultimo romanzo, e ho spiegato che cosa condensasse il mio nome. Ma allora sei o non sei Lina Meruane? A volte sì, ho risposto, quando gli occhi me lo permettono, anche se negli ultimi tempi sono sempre meno lei e sempre più Lucina. A volte la sillaba in più si metteva a sanguinare». Che la Meruane sia stata sul serio una giornalista, che abbia pubblicato davvero narrativa, che sia lo stesso anche il luogo da dove scrive (New York, dove vive l’autrice) e che abbia in comune con la protagonista persino la malattia che l’affligge, ci autorizza forse a leggere Sangue negli occhi come un’autobiografia? La risposta è no. Nonostante il nome proprio, o esattamente a causa delle sue continue apparizioni nel testo, molti passi del libro sembrano dirci: leggi la mia posa. Leggila in maniera diversa. Non è una posa autobiografica. È una posa «autofinzionale».
Quale narrazione dell’io non si mette in posa davanti al lettore, fabbricando per lui una «verità», una difesa, una scusa, oppure l’esatto contrario, una mistificazione? La varietà delle pose è ampia. Negli ultimi due secoli la letteratura autobiografica cilena ha avuto uno sviluppo lento, dai primi e strutturati memoriali storici, nati da un bisogno indipendentista e nazionale e dall’ambizione alla trasparenza dei loro autori, fino alle recenti autofiction, concetto di cui oggi molti critici abusano senza interporre alcuna spiegazione, forse perché la loro caratteristica distintiva è tendere un filo ambiguo tra finzione e verità storica.
Quasi seguendo lo sviluppo stesso della fotografia, le «istantanee» autobiografiche che passerò in rassegna si scuriscono poco a poco; grazie alle risorse e alle tecniche narrative contemporanee, la «verità» del modello si fa sempre meno chiara: nessuno ormai vuole «farsi vedere al naturale». Nel 2011, la critica spagnola Estrella de Diego pubblicò una raccolta di saggi sulle arti visive contemporanee intitolata No soy yo (Non sono io, ndt), un titolo che da solo esemplifica in che modo l’arte e la letteratura del XXI secolo abbiano sbattuto la porta in faccia al ragionamento inaugurato da autori come Montaigne o Rousseau all’inizio dell’Età moderna: nessuno cerca più di «dipingere sé stesso» o mostrare «un uomo in tutta la verità della natura».
Che si tratti dell’immagine moderna dell’io o della sua decostruzione postmoderna, la metafora della posa – che prendo in prestito da Sylvia Molloy e per la quale cerco di trovare altri significati – mi sembra adatta ad analizzare le narrazioni dell’io, che fin dalle loro origini hanno sempre avuto una certa impostazione. In Poses de fin de siglo, la Molloy fa risalire la posa e la sua esibizione all’ambito del modernismo ispanoamericano di fine Ottocento, movimento che dialoga con il decadentismo europeo. In quel contesto, per posa si intende «un istrionismo, un’enfasi e un manierismo da attribuirsi generalmente alla non mascolinità, o comunque alla mascolinità problematica».1 Rubén Darío, José Enrique Rodó, José Martí e Amado Nervo sono soltanto alcuni degli autori di cui la Molloy analizza opere e pose.
Nel periodo preso in considerazione, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la letteratura cilena di tipo autobiografico o memorialistico non ha nulla da spartire con la posa modernista, poiché aderisce a modelli di scrittura che prediligono la testimonianza di un particolare momento storico, in cui il narratore è quasi sempre il protagonista: un uomo dell’élite, appartenente alla casta politica. Tali memorialisti inserirono i loro racconti in un discorso di tipo nazionale, in cui il servizio pubblico e la rappresentazione politica, militare o ecclesiastica davano forma all’identità, soggetta a un ragionamento di stampo nazionale e repubblicano. Assumevano una posa per autogiustificare apparizioni pubbliche, eredità familiari, vincoli importanti con la narrazione nazionale, senza manierismi che potessero mettere in dubbio la loro autenticità di memorialisti, generalmente uomini politici. Se assumevano una posa, era quella di «padre della nazione». In Elogio a la memoria,2 César Díaz Cid analizza i testi di José Zapiola, Vicente Pérez Rosales e José Victorino Lastarria, narrazioni fondamentali sia perché si tratta di scritti memorialistici inaugurali, sia perché contirbuiscono alla costruzione di un ragionamento nazionale e repubblicano; inoltre, fanno parte del primo dei tre periodi in cui si snoda la letteratura memorialistica cilena elencati da Leonidas Morales, seguito da quello della belle époque, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, e da quello contemporaneo.3 Nell’esaminare i testi del secondo periodo, Morales evidenzia che i cultori del genere appartenevano a un gruppo sociale omogeneo, non solo perché venivano dall’alta borghesia, ma anche perché la loro appartenenza era rafforzata dai legami familiari: «La ripetizione dei cognomi ne è una prova sufficiente».
L’arrivo di altre pose, in cui trovano spazio la soggettività, l’immaginazione, la ricerca narrativa e l’intimità, è posteriore; si consoliderà soltanto negli anni Trenta, quando nuovi attori, come le donne e la classe media, faranno il loro ingresso nell’ambito letterario, e racconteranno storie di vita estranee alla centralità politica che contraddistingue i testi dell’Ottocento. Imaginero de la infancia, dell’attore Lautaro García (1935) e Visiones de infancia, di María Flores Yáñez (1947),4 sono due esempi di questa nuova sensibilità, che esplora gli aspetti quotidiani della costruzione di un’identità individuale e collettiva non predominante.
Da allora sono state pubblicate moltissime autobiografie. Quello che mi interessa mettere in risalto in questo articolo è ciò che sta accadendo in epoca contemporanea: negli ultimi cinque anni sembra che soltanto le stelle del cinema e i politici siano ancora interessati alla semplice autobiografia, da quando una nuova forma narrativa, legata fin dall’inizio, come vedremo, al genere autobiografico, ha fatto irruzione nel mondo letterario: l’autofiction.
Eppure, per quanto in Cile vi siano moltissimi testi che rientrano in questa classificazione (ricordo alcuni commenti rivolti all’opera di Alejandro Zambra, Daniel Villalobos e Gonzalo Eltesch), la studiosa Ana Casas, in un libro dedicato all’autofiction pubblicato in Spagna, stila un lungo elenco di autofiction ispanoamericane senza citare nessun cileno: «César Aira, Sylvia Molloy, Ricardo Piglia, Félix Bruzzone, Patricio Pron, Alan Pauls, Daniel Guebel, Laura Alcoba e Washington Cucurto in Argentina; Mario Levrero in Uruguay; Sergio Pitol, Mario Bellatin, Margo Glantz, Angelina Muñiz-Huberman, Alejandro Rossi, Julián Herbert, Guillermo Fadanelli in Messico; Fernando Vallejo, Daniel Jaramillo (Darío Jaramillo, nda) in Colombia; Patricia de Souza in Perù; Pedro Juan Gutiérrez a Cuba; Rodrigo Rey Rosa in Guatemala; Luis Barrera in Venezuela».5 In El pacto ambiguo6 dello spagnolo Manuel Alberca, la bibliografia ispanoamericana include soltanto un cileno, Roberto Ampuero, una scelta che fa passare sotto silenzio la produzione di autori come Germán Marín, Lina Meruane, Cynthia Rimsky, Nona Fernández, Rafael Gumucio, Alejandro Zambra, Leonardo Sanhueza, Luis López-Aliaga o Claudia Apablaza, i cui romanzi potrebbero essere analizzati dal punto di vista dell’«autofiction», un concetto che è possibile scorgere anche in altri momenti della storia della letteratura cilena, come si dimostrerà in seguito (tornando anche a Lina Meruane).
Poseurs: D’Halmar, Huneeus, Meruane
L’unico cileno preso in considerazione dalla Molloy nel suo libro sulle pose moderniste doveva per forza essere un poseur, che disarticolò parte delle convenzioni del genere autobiografico nel convenzionale contesto letterario locale, proponendo una lettura più contemporanea.
Tra il 1939 e il 1940 Augusto D’Halmar pubblicò una serie di vignette autobiografiche che affrontavano, in ordine cronologico, la sua infanzia a Valparaíso e le sue prime esperienze come scrittore, fino ai viaggi in America Latina ed Europa, dai quali fece ritorno in Cile dopo trent’anni di continui spostamenti. Alfonso Calderón, uno dei più importanti divulgatori della letteratura autobiografica cilena, avrebbe riunito quei testi nel 1975 nella raccolta Recuerdos olvidados.7
D’Halmar fu sotto molti aspetti un precursore, come dimostra, ad esempio, il modo in cui affronta la sessualità in Juana Lucero e l’omoerotismo in La sombra del humo en el espejo e La pasión y muerte del cura Deusto, romanzi che divisero l’opinione pubblica e che la critica proibì per molti anni. Per quanto riguarda la scrittura autobiografica, D’Halmar introdusse la riflessione metanarrativa come strategia di autorappresentazione, oltre a intorbidire uno degli elementi più trasparenti e riconoscibili dei testi memorialistici: il nome proprio.
Il nome proprio occupa un posto di primo piano nei testi autobiografici e non soltanto perché si tratta del simbolo di un’eredità familiare e sociale. Negli anni Settanta, Philippe Lejeune, uno dei primi teorici del genere, definì l’autobiografia un testo in cui era riscontrabile un «patto» di lettura, che secondo lui dava la possibilità al lettore di comprendere se si trovava o meno di fronte a testo di quel tipo: l’identità tra il nome proprio dell’autore, il narratore e il personaggio principale del testo indicava in maniera innegabile il carattere autobiografico del racconto, fatto che, sommato al «patto referenziale» (il proposito più o meno esplicito di avere come orizzonte del racconto la verosimiglianza e non la finzione), permetteva una delimitazione più precisa del genere. Lejeune non arrivò a questa definizione per caso: dopo aver preso in esame molti testi di questo tipo fu in grado di identificare o isolare questa peculiarità della narrativa autobiografica che, come vedremo, negli ultimi tempi è diventata uno degli aspetti più parodiati e complessi del genere.
Grazie alla precoce intuizione di quello che sarebbe stato il corso dell’autobiografia nel XX secolo, dalla piena affermazione di un «io», fino alla sua graduale evoluzione e decostruzione, per anni Augusto D’Halmar (all’anagrafe Augusto Geomine Thomson) si dedicò a mitizzare il proprio pseudonimo. Alfonso Calderón riporta alcune delle spiegazioni date dallo scrittore: che il nome D’Halmar appare nella sua famiglia sin dal Duecento, che era il nome di un antenato scandinavo, un certo «barone di D’Halmar». Aggiunge poi la spiegazione dello scrittore Mariano Latorre, secondo il quale il nome si ispirava al personaggio di Hjalmar Ekdal ne L’anitra selvatica di Ibsen. Sylvia Molloy propende per una spiegazione più polemica, dicendo che D’Halmar avrebbe adottato lo pseudonimo tra il 1904 e il 1905, nel periodo di massimo splendore della Colonia Tolstoyana e all’apice della sua amicizia con Fernando Santiván. Si trattava di uno pseudonimo condiviso «per una scrittura collettiva: Augusto e Fernando Halmar». Quando la Colonia si sciolse i due amici si separarono. «Thomson», continua la Molloy, «si tiene lo pseudonimo ed è ipotizzabile che, grazie alla sua squisita ironia da sopravvissuto, vi apponga la particella (già simbolo di aristocrazia e di vita coniugale) nel momento stesso in cui prende per sé il nome: D’Halmar. Lo pseudonimo che aveva segnato la vetta della collaborazione tra due uomini, “l’amicizia perfetta”, da quel momento in poi rimane un simbolo vacante, un promemoria perenne della scomparsa». La costruzione di «D’Halmar» fu quindi un processo lento e laborioso; ecco perché nella prefazione a Recuerdos olvidados espone un’interessante strategia testuale, in cui stringe un patto referenziale con il lettore negandolo al tempo stesso. Fa riferimento alla sua vita, agli attacchi subiti, alla mancanza di fede dei suoi contemporanei nelle storie che raccontano le sue esperienze di viaggiatore; prende le difese della scrittura in prima persona e, nel farlo, vi rinuncia: «[…] proprio per questo ora, brandendo un pretesto immaginario come uno stratagemma, non mi servirò della prima persona che tante volte mi è stata rinfacciata, e non per fare una concessione ai miei detrattori, bensì per rifuggire la benché minima velleità narcisista e per repulsione verso qualsiasi esibizionismo». Così presenta, ironicamente, i Recuerdos… non di D’Halmar, ma di «Jorge Cristián Delande», personaggio nato il suo stesso anno e nelle stesse circostanze. Un racconto dalla coscienza metanarrativa, ludico, scritto per lettori col senso dell’umorismo.
È proprio la sofisticata prefazione di D’Halmar che fa del libro curato da Calderón una delle nostre prime «autofiction». Che cosa si intende con questo termine? Il problema del puntiglioso contratto di Lejeune sorgeva di fronte a uno scritto che da un lato soddisfaceva il primo patto, quello autobiografico, indicato dalla presenza nel testo del nome proprio dell’autore, e dall’altro, a causa di svariati indicatori (il più semplice dei quali era presentare il libro come un «romanzo» fin dalla copertina), non soddisfaceva il patto referenziale, ma quello romanzesco. Poteva esistere un romanzo in cui il protagonista e il narratore si chiamavano come l’autore? Nel 1975 Lejeune disse di non avere in mente nessun esempio, ma la verità è che la letteratura ne è piena (basterebbe citare Dante e la Divina commedia). Serge Doubrovsky scrisse un libro che soddisfa queste caratteristiche, da lui denominato «autofiction», con il quale diede inizio alla polemica con Lejeune e introdusse il concetto negli studi di letteratura francese. Dopo di loro, molti altri autori hanno trattato quello che per alcuni è soltanto un sottogenere e per altri un mero «espediente» o strumento letterario: Philippe Gasparini, Vincent Colonna, Marie Darrieussecq e altri propongono approssimazioni e classificazioni alle quali si sommano, nel mondo ispanofono, quelle degli spagnoli come Ana Casas, Fernando Cabo e Manuel Alberca. Tutti si inoltrano in un terreno limaccioso, dal quale vale forse la pena recuperare soprattutto tre questioni: il gioco letterario intorno al nome proprio, l’inserimento di aspetti metaletterari che danno un senso parodistico al rapporto con l’elemento autobiografico, e l’appartenenza dell’autofiction al reame del romanzo più che a quello dell’autobiografia. In questo senso, non è possibile, come dice Marie Darrieussecq, prendere «sul serio» il genere: fin dalle origini salta subito agli occhi la mancanza di innocenza nell’avvicinarsi all’elemento autobiografico, una particolarità che costituisce, in realtà, il suo divertimento.
Un altro precursore di quello che avviene oggi nella nostra narrativa fu Cristián Huneeus, il quale, con la sua singolare trilogia formata da El rincón de los niños (1980), El verano del ganadero (1983) e Una escalera contra la pared (inedito fino al 2011), propone uno spazio autobiografico ludico e particolare. La sua narrativa si legò alle arti visuali e alla poesia successive al 1968 (Enrique Lihn, Juan Luis Martínez, Raúl Zurita) e con la «nuova scrittura» latinoamericana, la cui estetica sarebbe stata descritta dall’argentino Héctor Libertella. Huneeus esplorò e portò alla massima tensione la rappresentazione di quella trilogia (che possiamo raffrontare con la sua Autobiografía por encargo, del 1985), in cui intreccia una complessa trama di voci e personaggi che mette faccia a faccia Huneeus e il suo alter ego, Gaspar Ruiz, in un «mosaico» narrativo (per usare l’espressione di Adriana Valdés), che illustra una «verità storica inafferrabile». In El rincón de los niños un narratore anonimo, amico di Gaspar Ruiz, in quel momento scomparso, ha il compito di ricostruirne il passato mediante una serie di materiali di archivio che danno soprattutto informazioni sulla sua gioventù. Il personaggio di Gaspar assume maggiore continuità negli altri due romanzi. In El verano del ganadero – libricino erotico che porta la firma sia di Cristián Huneeus che di Gaspar Ruiz – «Huneeus» scrive il prologo e a cambio «Ruiz» omette la dedica rivolta all’amico. Ruiz scrive una storia che ha per protagonista Fernando, figlio di borghesi dediti all’allevamento di bestiame e al sesso in un appezzamento di terra nel Cajón del Maipo. Invece, Una escalera contra la pared racconta «in prima persona» il viaggio iniziatico di Gaspar in Perù, in compagnia del padre, nel quale una fotografia reale e una manipolata sono una delle chiavi autobiografiche della trilogia.
La complessità di Huneeus è di molto superiore a quella di alcuni tentativi di autofiction attuali, ma non è l’unico. Anche la trilogia Historia de una absolución familiar di Germán Marín, o Conjeturas sobre la memoria de mi tribu di José Donoso, potrebbero essere studiate dal punto di vista dell’autofiction, un termine che, per quanto sia innovativo nel linguaggio critico locale, esiste da tempo in un impegno narrativo che non si merita la mediocrità dei suoi critici. Da questo punto di vista la sperimentazione letteraria, l’aspetto ludico, la letteratura sulla letteratura, si sono fatti strada in un terreno impervio, spesso in maniera solitaria. Per questo è sorprendente che testi dalla posa estremamente sofisticata, come quella ordita da Lina Meruane in Sangue negli occhi, abbiano ricevuto scarsa attenzione o siano stati perfino rifiutati: «Se in un libro si vuole evitare di essere banali, la cosa più assurda da fare è inserire una possibile lettura accademica. In questo caso, l’autrice mette in bocca alla relatrice della tesi un paio di solenni teorie sulla letteratura che sembrano strizzare disperatamente l’occhio al mondo universitario», ha scritto Patricia Espinosa, un commento che è controbilanciato in un articolo accademico da Daniel Noemi, che definisce la scrittura della Meruane una «scrittura di resistenza». In effetti la trama di Sangue negli occhi possiede una densità inconsueta. L’ambiguità del nome proprio, l’inserimento di elementi fittizi e l’inclusione deliberata di riflessioni metanarrative legate al genere autobiografico – che non sono «solenni teorie sulla letteratura» bensì riflessioni mirate che indicano la prospettiva da cui è possibile leggere il romanzo – fanno di questa autofiction uno spazio di posa, di rottura con il passato, di proposta estetica, uno spazio cui ambiscono molte delle narrazioni di giovani autori cileni, specie a partire dal 2000.
Negli anni Novanta la letteratura del Cono Sud generò una grande quantità di testimonianze scritte, che provavano a raccontare nel modo più fedele possibile la violenza e la paura sotto le dittature militari. Allora come oggi queste testimonianze sono importanti e necessarie a costruire una memoria politica collettiva. Il libro di César Díaz Cid sulla letteratura autobiografica cilena si chiude proprio con un capitolo dedicato a quel periodo storico e a quelle produzioni. Mi chiedo se, in questo contesto, le autoficion, con la loro miscela di verità e finzione, di deliberata perdita dell’innocenza, non siano una reazione necessaria in questo momento storico e della memoria, che prova a concepire nuovi modi di esplorare i ricordi e un linguaggio in grado di affrontarli. Forse queste autofiction, molte delle quali sono associate alla «letteratura dei figli» e alla post-memoria, sono il canale che i nostri narratori hanno trovato per realizzarsi in termini estetici e politici, una realizzazione che, anche se non sempre con coraggio, si apre perlomeno a nuove forme di esplorazione narrativa in un ambito che è in genere poco portato al rischio; sono forme di esplorazione in cui la posa, irripetibile, estrema e moltiplicata, è un primo passo per trovare nuove risposte alle domande che ancora oggi rimangono irrisolte.
© Lorena Amaro, 2015. Tutti i diritti riservati.
Lorena Amaro è laureata in Filosofia alla Universidad Complutense, professoressa dell’Instituto de Estética UC e autrice di Vida y escritura. Teoría y práctica de la autobiografía.
1 Sylvia Molloy, Poses de fin de siglo, Eterna Cadencia, Buenos Aires, 2012, p. 47.
2 César Díaz Cid, Elogio a la memoria, Universidad Católica Silva Henríquez, Santiago, 2009.
3 Leonidas Morales, “Memoria y géneros autobiográficos”, Anales de Literatura Chilena vol. 19, 2013, pp. 13-24.
4 Lautaro García, Imaginero de la infancia, Ercilla, Santiago, 1935. María Flora Yáñez, Visiones de infancia, Zig-Zag, Santiago, 1947.
5 Ana Casas, a cura di, El yo fabulado. Nuevas aproximaciones críticas a la autoficción, Iberoamericana/Vervuert, Madrid, Francoforte, 2014.
6 Manuel Alberca, El pacto ambiguo, Biblioteca Nueva, Madrid, 2007.
7 Augusto D’Halmar, Recuerdos olvidados, Nascimento, Santiago, 1975.
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