Fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento un gruppo di giovani sfidò le convenzioni sociali dando vita a quello che è passato alla storia come il Boom. In questo articolo, pubblicato originariamente sulla Los Angeles Review of Books, Ilan Stavans ci racconta le logiche che hanno permesso a questi autori di essere diffusi e consacrati in Europa. Ringraziamo autore e rivista per la riproduzione del pezzo.
Buona lettura!
di Ilan Stavans
traduzione di Francesca Clemente
Nella cultura latinoamericana degli anni Sessanta si verificò un cambiamento radicale: grazie alla traduzione rapida e accurata di romanzi sensuali, esotici e politicamente impegnati, la tradizione letteraria del luogo, fino a quel momento oscura e circoscritta, raggiunse un improvviso successo mondiale che fu definito come il «Boom», un movimento caratterizzato dall’estetica di quello che divenne noto – e spesso contestato – come realismo magico (lo real maravilloso).
Capeggiato da autori provenienti da diversi paesi come il colombiano Gabriel García Márquez, il peruviano Mario Vargas Llosa, l’argentino Julio Cortázar, il messicano Carlos Fuentes, il brasiliano Jorge Amado e il cileno José Donoso, il movimento ebbe un impatto vasto e profondo. Creò una storia e un’identità continentale condivisa, o almeno l’illusione di essa. Portò all’attenzione temi scottanti che affliggevano le popolazioni latinoamericane, tra cui la repressione militare, la sottomissione sessuale e l’assenza di una prospettiva economica. E favorì un clima di transizione culturale che rese i film, il teatro, la musica e il folklore locali appetibili dovunque. In poche parole, il Boom rese l’America Latina vendibile in Europa, in Asia, nel Medio Oriente, in Africa e negli Stati Uniti, e mise la sua gente al passo con il resto del mondo.
Per comprendere questa drastica trasformazione è importante avere un quadro ben preciso della cultura latinoamericana prima degli anni Sessanta. A seguito delle violente guerre di indipendenza dell’Ottocento, i paesi che avevano appena raggiunto l’autonomia, come l’Argentina e il Messico, cercarono di definire la propria identità nazionale esaltando i miti indigeni. Ma il loro concetto di «indigeno» era ovviamente opinabile. In Argentina, l’identità nazionale si riconobbe nella figura del Gaucho, rappresentata in maniera evidente dalla letteratura di Hilario Ascasubi, Benito Lynch, Estanislao del Campo, Ricardo Güiraldes e in particolar modo dal poema epico di José Hernández, Martín Fierro (1872). Ancora oggi è in corso un dibattito, che risale a metà Ottocento, sulla differenza tra letteratura dei Gaucho e letteratura gauchesca. La prima è quella prodotta dai Gaucho stessi, mandriani di campagna con un linguaggio e una visione del mondo caratteristici, mentre la seconda consiste nell’appropriazione dello stile dei Gaucho da parte di scrittori cittadini. Il poema di Hernández, nonostante la fama nazionale, è gauchesco perché l’autore non era un Gaucho e la sua celebrazione della vita bucolica è un’imitazione, non una testimonianza autentica.
Analogamente, in Messico si costruì un’identità nazionale attorno alla visione idealizzata del mestizo, come mostrano le opere di José Rosas Moreno, di Ignacio Manuel Altamirano e soprattutto il romanzo di José Joaquín Fernández, Il pappagallino rognoso (1816). Mestizo significa meticcio, ossia mezzo aborigeno e mezzo europeo. La guerra di indipendenza dalla Spagna, che incoraggiò i messicani ad affrontare e provare orgoglio per le proprie origini «miste», promosse l’idea che l’essere meticci dovesse definire l’identità messicana. All’inizio del Novecento, La raza cósmica (1925) di José Vasconcelos delineò una filosofia essenzialista basata sul presupposto che il mestizaje non riguardasse solo la civiltà messicana, bensì la popolazione del mondo intero.
Tuttavia l’impegno di questi scrittori si concretizzò per lo più a livello locale. Ciò che si produceva in patria rimaneva in patria, perché l’America Latina non incoraggiava le esportazioni culturali. Infatti, fino alla prima guerra mondiale la letteratura nazionale era disponibile solo per il consumo interno. La vastità geografica e le risorse limitate per la produzione di libri rendevano molto difficile la diffusione letteraria nel continente, e le letterature nazionali spesso non aspiravano neppure a comunicare con i paesi vicini. La prima generazione di scrittori a rompere questi schemi e a essere letta oltre i confini del proprio paese fu quella dei modernisti. Tra il 1885 e il 1915, questo gruppo di intellettuali provenienti da diverse nazioni diede vita a una nuova letteratura che possedeva un proprio ethos. Il nicaraguense Rubén Darío e il cubano José Martí apparvero sui quotidiani e sulle riviste – e, in misura minore, nei libri – non solo come poeti del Nicaragua e di Cuba ma, cosa straordinaria, come latinoamericani.
Il pubblico latinoamericano si riconobbe nei modernisti, che ebbero seguito anche in Spagna, dove intellettuali come Miguel de Unamuno e Juan Ramón Jiménez apprezzarono il fatto che le ex colonie avessero finalmente trovato una propria voce. Ma anche se Martí trascorse l’esilio in Florida e a New York, la maggior parte dell’Europa e degli Stati Uniti rimase sorda a queste voci. Fu la mancanza di traduzioni a mettere in ombra questo gruppo di scrittori. I modernisti lodavano i colleghi francesi e americani contemporanei: Darío fu un grande sostenitore delle opere di Paul Verlaine e di Victor Hugo, il cubano José María Heredia tradusse William Cullen Bryant e Martí elogiava Whitman. Ma ci vollero parecchi anni prima che la stima nei loro confronti fosse ricambiata.
Negli anni Cinquanta accadde qualcosa di incredibile che permise ad autori provenienti da varie parti dell’America Latina di diventare celebrità internazionali. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, infatti, il romanzo europeo raggiunse un punto morto. Le atrocità degli anni Trenta e Quaranta logorarono il Vecchio continente. Tutt’a un tratto il romanzo tradizionale smise di far evadere il lettore e di fargli sognare nuovi universi e cominciò a soffocarlo e a farlo sentire in trappola. Fu allora che il cosiddetto Terzo Mondo si propose come valida alternativa. Dall’Africa ai Caraibi, dall’Asia all’America Latina arrivarono nuovi romanzi che offrivano visioni innovative.
Fu in questo clima burrascoso che nacque il Boom. Il movimento non riguardò solo una generazione di scrittori, poiché i suoi membri nacquero nell’arco di più di vent’anni, tra il 1914 e il 1936. In un certo senso il Boom non si può neanche definire come un fenomeno esclusivamente autoctono, perché prese forma a Barcellona, negli uffici dell’agente letterario Carmen Balcells. Fu proprio lei a riconoscere con perspicacia il talento artistico di cinque, sei scrittori e a proporre le loro opere a case editrici spagnole che si auguravano di trovare una nuova fetta di lettori dall’altra parte dell’Atlantico. Infatti il Boom – la parola è un prestito dall’inglese che ricorda il successo internazionale di aziende come la Exxon e la United Fruit, che fecero fortuna in America Latina nella prima metà del Novecento, – si riferisce tanto a un fenomeno editoriale quanto a un’esplosione di talento. La Spagna finalmente riuscì a mettere i libri dei boomistas a disposizione di una classe media desiderosa di trovare un’identità sia all’interno che oltre i confini nazionali.
Il Boom, sia per come fu definito in America Latina che all’estero, pone una domanda provocatoria: cos’è di preciso la cultura latinoamericana? È forse la manifestazione letteraria del sogno politico irrealizzabile di Simón Bolívar di un continente unito? La risposta sta nella flessibilità dei punti cardine del movimento. Inizialmente il Boom fu associato quasi solo a figure del mondo ispanofono. Jorge Amado, lo scrittore brasiliano di Dona Flor e i suoi due mariti (1966), affermò di non appartenervi. In realtà fu solo quando il Boom diventò uno strumento di marketing di successo all’estero che lui e altri brasiliani come João Guimarães Rosa, João Ubaldo Ribeiro e Nélida Piñon furono annoverati tra i boomistas. Si diceva che i loro libri avessero elementi esotici che li rendevano parte della stessa estetica. Ma questo riconoscimento arrivò in un secondo momento e fu motivato da interessi commerciali.
Gli scrittori del Boom, spesso provenienti da famiglie di ceto medio e medio-alto, a quei tempi militavano nella sinistra. Due generazioni prima, l’intellighenzia latinoamericana dovette reagire alla guerra ispanoamericana del 1898 e all’affermazione degli Stati Uniti come potenza mondiale ridefinendo la propria visione politica. Personaggi come Darío e Martí si schierarono apertamente contro le nazioni egemoni, prima contro la Spagna e poi contro gli Stati Uniti. La maggior parte degli scrittori della generazione successiva presero la loro stessa posizione. Lottarono per l’autodeterminazione e contro l’intervento estero ed espressero i loro ideali politici in molti manifesti, interviste e apparizioni mediatiche. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la maggior parte dei paesi latinoamericani si trova sotto regime dittatoriale, un modello che durò fino agli anni Ottanta. Questi regimi spesso imponevano meccanismi di censura molto rigidi. Essere censurati era ovviamente una buona pubblicità: ciò che era proibito acquisiva subito un certo fascino. Per ironia della sorte l’orientamento politico di sinistra degli scrittori contribuì al loro successo nel mercato capitalista al di fuori dell’America Latina. Negli anni Cinquanta alcuni boomistas si incontrarono a Parigi. Poi, in Spagna e durante i loro viaggi per l’America Latina, non solo si conobbero ma abbozzarono anche un’estetica comune e una missione ideologica. Il primo romanzo che divenne un fenomeno mondiale fu Rayuela di Cortázar (1963). Un’opera sperimentale ispirata alle religioni orientali che invita il lettore ad assumere un ruolo attivo nella composizione della trama e che ha come protagonista Horacio Oliveira, un esule a Parigi. Pubblicato originariamente a Buenos Aires, fu presto accolto da una generazione di giovani lettori. Malgrado il considerevole volume, vendette migliaia di copie in poche settimane. A quei tempi Cortázar era un dilettante che non aveva quasi nessun interesse per la politica, eppure il suo romanzo fu visto come un rifiuto del peronismo argentino, che spesso ridicolizzava le idee europeizzate.
Rayuela fu seguito in rapida successione dai romanzi rivoluzionari di Carlos Fuentes, Mario Vargas Llosa, Augusto Roa Bastos, Guillermo Cabrera Infante e José Donoso che ricevettero premi e riconoscimenti. Ma nulla uguagliò il successo di Cent’anni di Solitudine di Gabriel García Márquez (1967), che scelse come soggetto per il suo romanzo l’intera storia dell’America Latina, surrealmente trasfigurata nella saga di un’unica famiglia. A quei tempi García Márquez era un giornalista mezzo sconosciuto che viveva in esilio in Francia a causa di uno scontro con il regime dittatoriale colombiano. Il suo libro, che fu pubblicato anche a Buenos Aires, diventò un best seller e il volto dello scrittore apparve sulle copertine delle riviste di tutto il continente.
Il nome realismo magico deriva dal concetto di real maravilloso che Alejo Carpentier elaborò nel prologo del suo romanzo Il regno di questo mondo (1949) per descrivere la vita ad Haiti e, per estensione, in tutta l’America Latina. A quel tempo il surrealismo era la corrente in voga nei circoli letterari francesi. Secondo Carpentier, la vita ad Haiti era caratterizzata da un surrealismo più primitivo e autentico di quello europeo, che era solo ostentato. La peculiarità della geografia latinoamericana e le esperienze estreme vissute dalla sua gente resero quasi impossibile a qualsiasi osservatore distinguere la fantasia dalla realtà. Dopo il successo di Cent’anni di solitudine, secondo i critici europei e statunitensi il realismo magico diventò il fulcro dalla cultura latinoamericana.
Ovviamente il Boom ha un famoso precursore: Jorge Luis Borges. Nella prima metà degli anni Cinquanta, Borges era appannaggio di pochi devoti. In quegli anni le sue poesie, i suoi racconti e i suoi saggi incominciarono a essere tradotti, soprattutto in francese, ma lui restò comunque uno scrittore locale. Fu solo nel 1961, anno in cui ricevette il Prix International, che l’autore di Finzioni (1944) divenne un fenomeno internazionale, una voce canonica che non solo definisce la letteratura latinoamericana ma anche quella postmoderna. Molti boomistas lo conobbero nelle pagine della rivista Sur.
È quasi impossibile concepire scrittori come John Barth, Italo Calvino, Danilo Kiš e i boomistas senza Borges. Ma lui non fu l’unico precursore del Boom. Un’altra voce importante, la cui influenza si estese al di fuori dell’America Latina, fu Juan Rulfo, scrittore di La pianura in fiamme (1953). A differenza del cosmopolita Borges, Rulfo veniva da una famiglia povera dello stato messicano di Jalisco, che fu devastato durante la rivoluzione del 1910. Le sue opere parlano di privazione, dell’orgoglio di chi non ha a disposizione i beni di prima necessità. Con le sue opere narrative (Rulfo scrisse anche il romanzo Pedro Páramo [1955]), raggiunse lettori cinesi, brasiliani e africani, mostrando un aspetto della letteratura latinoamericana – la vita semplice di campagna – che suscitava empatia e un senso di sofferenza condiviso. Sia la fantasia ingegnosa di Borges, sia il realismo brutale di Rulfo prepararono il pubblico di tutto il mondo al Boom.
L’altro fattore cruciale per la nascita del Boom fu la traduzione. García Márquez spesso diceva che uno scrittore colombiano doveva prima essere letto a New York per essere acclamato a Bogotá. Infatti fu grazie alla traduzione che, come disse una volta Octavio Paz: «I latinoamericani furono invitati al banchetto della civiltà occidentale». Il primo a tradurre verso l’inglese le opere dei boomistas fu Gregory Rabassa, un americano di origine portoghese. Non appena Cent’anni di solitudine fu pubblicato a Buenos Aires, la Harper & Row assegnò il romanzo a Rabassa. Per la stesura del testo in inglese il traduttore lavorò al fianco di García Márquez e la sua versione riscosse un grande successo tra i lettori americani. L’autore stesso disse che la traduzione era migliore dell’originale. Dell’opera, che è diventata un classico della letteratura latinoamericana ma anche un caposaldo del canone letterario mondiale, sono state vendute millioni di copie. Tra gli altri capolavori del Boom, Rabassa tradusse anche Rayuela di Cortázar.
Una manciata di traduttori, scelti dalle case editrici americane che volevano lucrare sul Boom, si aggiunse presto a Rabassa. A differenza dei traduttori del Don Chisciotte di Cervantes, che fino agli anni Cinquanta erano soprattutto uomini britannici, chi lavorò alle opere dei giovani scrittori latinoamericani furono per lo più donne statunitensi: Edith Grossman, Margaret Sayers Peden, Helen Lane, Suzanne Jill Levine, Alfred Mac Adam e altri. In molti casi furono proprio i traduttori a sottoporre i romanzi all’attenzione degli editori. Grazie al successo che ebbero nel mondo anglofono questi libri raggiunsero una fama tale che furono tradotti anche in altre lingue come il francese, il tedesco, l’italiano, il portoghese, il cinese, il giapponese e l’ebraico. Per la notorietà acquisita, i boomistas furono spesso invitati a tenere conferenze nelle università e a scrivere articoli di opinione per giornali come il New York Times, e alcuni produttori hollywoodiani ed europei acquisirono i diritti cinematografici delle loro opere. Per esempio, il racconto di Cortázar Le bave del diavolo ispirò il film culto Blow Up, diretto nel 1966 da Michelangelo Antonioni.
Il successo delle traduzioni influenzò le opere degli scrittori. Quando un romanziere sa che il proprio lavoro sarà tradotto in altre lingue – e magari uscirà in traduzione prima ancora che l’originale sia stato pubblicato – il lettore a cui si rivolge non è più solo un compaesano argentino o colombiano, ma un cittadino del mondo. Grazie alla traduzione i boomistas cominciarono a considerarsi come autori meno provinciali e più ambiziosi. Analizzando le carriere di autori come García Márquez e Vargas Llosa è possibile determinare con precisione il momento in cui la loro fama divenne mondiale. Nel caso di García Márquez la transizione avvenne negli anni Ottanta, dopo la pubblicazione di Cronaca di una morta annunciata (1981) e dopo la vittoria del premio Nobel. Da quel momento in poi i suoi lavori non sembrarono più rivolti a un pubblico esclusivamente ispanofono. Nel secondo caso, la transizione ebbe luogo negli anni in cui uscì La guerra della fine del mondo (1981), romanzo in cui Vargas Llosa si avventura fuori dai confini del suo Perù per parlare di una rivolta scoppiata in Brasile nell’Ottocento, secolo che indaga su cosa vuol dire essere brasiliani. Gli stratagemmi di questi autori resero il romanzo latinoamericano un bene da esportare. Le copertine erano di colori pastello (verdi, gialle, arancioni e rosse) e mostravano corpi voluttuosi e animali esotici.
Nello stesso periodo alcune scrittrici latinoamericane si impegnarono a modernizzare l’estetica del Boom. Il loro successo in termini di copie vendute spesso superò di gran lunga quello degli uomini. Tra queste si distinsero Isabel Allende, autrice di La casa degli spiriti (1982), una saga familiare simile a quella del primo romanzo di García Márquez e Laura Esquivel, che ambientò il suo romanzo Dolce come il cioccolato (1989) in una cucina al confine tra Messico e Stati Uniti, dove mescolò gli ingredienti sensuali del sesso e della magia. Queste donne entrarono a fare parte del movimento piuttosto tardi a causa di una serie di fattori tra cui la lenta consolidazione del femminismo in metropoli come Buenos Aires, Città del Messico, Santiago e Bogotá negli anni Settanta e la tardiva crescita di interesse nel mercato globale per un ritratto più acuto e più sfaccettato delle relazioni di genere nel continente.
Negli ultimi decenni in America Latina è apparso un nuovo gruppo di autori, che sotto molti aspetti sono stati influenzati dal Boom. I membri di questa generazione – tra cui figurano Horacio Castellanos Moya, Andrés Neuman, Ignacio Padilla, Valeria Luiselli, Edmundo Paz Soldán, Juan Villoro e Jorge Volpi – hanno lottato per distinguersi da un tipo di letteratura che, secondo loro, banalizza la loro patria anziché descriverla nella sua complessità. Hanno rifiutato il realismo magico per abbracciare l’iperrealismo, che pone l’attenzione su temi come le droghe, la musica, i videogiochi e altri eccessi della vita urbana moderna. A volte hanno abbandonato completamente i temi latinoamericani, ambientando i loro romanzi, come nel caso dell’opera di Volpi In cerca di Klingsor (1999), nell’Europa della seconda guerra mondiale.
Probabilmente l’autore più interessante – e anche più polemico – del post-Boom è Roberto Bolaño, morto nel 2003 all’età di cinquant’anni. Bolaño nacque in Cile, ma visse in Messico e in Spagna e assimilò tanto la letteratura argentina che la sua opera si può definire internazionale. Il suo lavoro più conosciuto è I detective selvaggi (1998), che non solo è ambientato in Messico ma è anche scritto in spagnolo messicano. Questo uso del linguaggio è, di per sé, un affronto al sapore internazionale del Boom. Nella novella Notturno cileno (2000) Bolaño stravolge l’ortodossia del Boom affermando che l’élite di Pinochet creò un’estetica che fu accolta con entusiasmo pure dalla sinistra. Queste e altre eresie resero Bolaño una sorta di enfant terrible. Per ironia della sorte gli conferirono anche un successo immediato in Europa e negli Stati Uniti, dove i suoi libri tradotti sono diventati oggetto di discussione nei festival e materia di studio nei corsi di scrittura creativa. In tutta la sua opera Bolaño critica il Boom sia in modo esplicito che celato: accusa il movimento di avere trasformato l’America Latina in una fabbrica del kitsch con tanto di prostitute chiaroveggenti, colonnelli caduti nell’oblio ed epidemie di insonnia. Con quest’affermazione intende dire che i membri di quella generazione pur di raggiungere il successo internazionale vendettero l’anima al diavolo. Eppure lo stesso Bolaño corteggiò il «demone» del successo internazionale e ne divenne uno dei suoi. Le contraddizioni, i compromessi e la genialità del Boom continuano ancora oggi a perseguitare lo real maravilloso della letteratura latinoamericana.
© Ilan Stavans, 2016. Tutti i diritti riservati.
Ilan Stavans è un autore e traduttore messicano-americano, l’editore di Restless Books e professore di Cultura latinoamericana all’Amherst College.
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