Il kentuki è una delle metafore più precise di quello che siamo, del nostro tempo affetto da un’interconnessione zoppa, impari. Nella quale c’è sempre qualcuno che spia e qualcun altro che recita per lui. Elena Stancanelli - Tuttolibri – La Stampa
I kentuki sono l’oggetto più desiderato nell’universo creato dall’argentina Samanta Schweblin. Laura Pezzino - Vanity Fair
Buenos Aires, interno giorno. Ma anche Zagabria, Pechino, Tel Aviv, Oaxaca: il fenomeno si diffonde in fretta, in ogni angolo del pianeta, giorno e notte. Si chiamano kentuki: tutti ne parlano, tutti desiderano avere o essere un kentuki. Topo, corvo, drago, coniglio: all’apparenza innocui e adorabili peluche che vagano per il salotto di casa, in realtà robottini con telecamere al posto degli occhi e rotelle ai piedi, collegati casualmente a un utente anonimo che potrebbe essere dovunque. Di innocuo, in effetti, hanno ben poco: scrutano, sbirciano, si muovono dentro la vita di un’altra persona.
Così, una pensionata di Lima può seguire le giornate di un’adolescente tedesca, e gioire o preoccuparsi per lei; un ragazzino di Antigua può lanciarsi in un’avventura per le lande norvegesi, e vedere per la prima volta la neve; o ancora un padre fresco di divorzio può colmare il vuoto lasciato dall’ex moglie. Le possibilità sono infinite, e non sempre limpide: oltre a curiosità e tenerezza, il nuovo dispositivo scatena infatti forme inedite di voyeurismo e ossessione.
Come i kentuki aprono una finestra sulla nostra quotidianità più intima, così Samanta Schweblin apre uno squarcio nella narrazione del reale: con un immaginario paragonato a quelli di Shirley Jackson e David Lynch, l’autrice trasporta il lettore in un’atmosfera ipnotica, regalandoci una storia sorprendente e dal ritmo vertiginoso.
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Emilia posò il coniglio sul tavolo. Si chiese chi mai avesse voluto liberarsi di una simile dolcezza. Era morbido e carino. Vide che aveva le palpebre abbassate e si chiese da quanto tempo non vedeva qualcuno con gli occhi chiusi. Anni, forse?
Samanta Schweblin