A partire dal romanzo Piccoli combattenti di Raquel Robles, di recente edito da Guanda, un approfondimento di Francesca Lazzarato sulla narrativa dei figli della dittatura argentina, il movimento H.I.J.O.S. e gli ultimi sviluppi istituzionali in seguito al cambio di governo, di cui abbiamo già parlato qui.
Il pezzo è apparso su Pagina99, che ringraziamo.
di Francesca Lazzarato
È il 5 aprile del 1976, e una bambina dorme tranquilla nella sua stanza, a Buenos Aires. Quando è andata a letto ogni cosa era al suo posto: i giocattoli, i libri, le porte chiuse, il silenzio notturno. Al risveglio, però, scoprirà che i suoi non ci sono più: è dunque successo quello che si temeva da quando i militari hanno preso il potere, e che, nelle conversazioni sussurrate degli adulti, i più piccoli hanno sentito chiamare il Peggio?
Incappucciati e portati via su una delle Ford Falcon verdi usate per i sequestri di regime, i genitori non riappariranno mai più, e a poco a poco questa assenza declinerà verso la certezza della loro morte: ma adesso la bambina vuole credere che torneranno, e si prepara a resistere. Sarà, in segreto, una combattente montonera, istruirà il fratellino perché diventi il suo compagno di lotta, e in casa degli zii (due comunisti per i quali non esistono «né Dio né Perón»), tra una nonna paterna che non smette di piangere e di guardare dalla finestra, e una materna che porta scarpe enormi e dice cose insensate, vivrà una vita fatta di segreti, finzioni, lampi di memoria, solitudine, perdite che sembrano replicare all’infinito quella dei genitori. Il suo è un percorso doloroso, ma non privo di umorismo e a suo modo eroico, in cui affiorano slogan politici pronunciati con ingenuità quasi commovente (segno di estrema e romantica fedeltà agli scomparsi), e brandelli della cultura popolare dell’epoca: il tutto abilmente narrato, attraverso un monologo interiore fresco e scorrevole, in Piccoli combattenti, terzo romanzo dell’argentina Raquel Robles pubblicato nel 2013 e appena uscito presso Guanda.
L’autrice sa bene di che cosa parla, perché i pensieri, i ricordi, le sensazioni, le esperienze della protagonista le appartengono completamente; Raquel è infatti figlia dei desaparecidos Flora Pasatir e Gastón Robles (funzionario del Ministero dell’Agricoltura durante il governo del peronista Héctor Campora), della cui sorte non si è mai saputo nulla. Eppure Piccoli combattenti non è un’autobiografia, ma un romanzo di formazione in cui le vicende e i tratti personali si fondono con altri di pura invenzione, costruito con la libertà narrativa che è alla base di un’ampia produzione culturale nata negli ultimi anni, quella dei figli dei desaparecidos. Ed è toccato a loro, scrittori, cineasti, fotografi, teatranti, musicisti che interpretano a modo proprio una memoria ineludibile, introdurre un nuovo modo di raccontare il passato, ricorrendo a differenti strategie per riempire i mille vuoti della memoria infantile e mettere in discussione i luoghi comuni ormai radicati nell’immaginario nazionale.
Quella del desaparecido, infatti, è una figura che le rappresentazioni ufficiali hanno sempre cercato di costringere entro i rigidi confini dello stereotipo, semplificandola all’estremo. Da una parte, nel tentativo di fondare una memoria condivisa da tutto il corpo sociale, la narrazione del Nunca Más – il rapporto che nel 1984 concluse l’indagine della CONADEP, la commissione di inchiesta sui crimini della Giunta militare istituita dal governo Alfonsín – ha affiancato una serie di vittime considerate innocenti ad altre ritenute corresponsabili, mettendo sullo stesso piano militanti e militari golpisti e dando credito alla teoria dei dos demonios, ossia all’esistenza di due violenze equivalenti e contrapposte; dall’altra la politica di Néstor e Cristina Kirchner (comunque la si pensi sul modo in cui hanno governato l’Argentina, è a loro che si devono la fine dell’impunità, i processi contro i responsabili e l’appoggio incondizionato alle organizzazioni per i diritti umani), ha riorganizzato la memoria e l’ha resa funzionale alla creazione e al controllo del consenso, trasformando i desaparecidos in altrettanti eroi e martiri da collocare su un irreale piedistallo. A fronte di questa immagine idealizzata e monolitica, l’arte e la letteratura dei figli propone presenze vive, complesse e contradittorie, a partire da un intenso desiderio di conoscere e riconoscere i propri padri come esseri umani, come militanti le cui scelte politiche possono o meno essere condivise, e infine come i genitori che non hanno potuto essere e che vanno perdonati per la loro assenza e per il senso di abbandono che ha generato.
Nessuno dei figli, va sottolineato, sceglie la via della pura testimonianza, ampiamente adottata dalla precedente generazione, che a volte ne ha fatto un uso fin troppo ideologico e retorico; quello di cui parlano, del resto, è un passato vissuto in modo parziale, attraverso ricordi imprecisi e vaghi, parole altrui, vecchie foto, oggetti recuperati. Un passato visto con gli occhi del presente e impossibile da testimoniare, che si può proporre solo come racconto e che in quanto tale manifesta esigenze estetiche dagli esiti spesso sorprendenti.
Accanto a romanzi d’infanzia graziosi ma tutto sommato convenzionali come La bambina della casa dei conigli di Laura Alcoba (che scrive in francese, la lingua del paese dove l’ha portata l’esilio), in cui una voce di bambina racconta clandestinità e dittatura, e alla autofiction di ¿Quién te creés que sos? di Angela Urondo, figlia di Paco, famoso intellettuale e poeta montonero, troviamo infatti testi come quelli di Félix Bruzzone – i suoi erano militanti dell’Ejercito Revolucionario del Pueblo – che, al di là dei racconti riuniti in 76 e di due romanzi bizzarri e dall’impasto linguistico audace, Las chanchas e Barrefondo, nel suo Los topos affronta il tema dei desaparecidos in modo alquanto insolito, inserendolo in una vicenda vorticosa e vagamente allegorica che include travestiti, prostituzione, maschere sovrapposte e nuove sparizioni, visto che il protagonista cancella la propria identità attraverso il cambiamento di sesso.
E altrettanto inconsueto appare Soy un bravo piloto de la Nueva China di Ernesto Semán, che alterna il realismo a elementi fantastici e gotici e intreccia la storia del protagonista – come lui figlio di un dirigente del gruppo Vanguardia Comunista – alle voci del genitore sequestrato e del suo torturatore, impegnati in un dialogo fantasmatico: un romanzo notevole, che discute dolorosamente la relazione padre-figlio, la scelta di sacrificare gli affetti alla politica, le illusioni della militanza anni Settanta, e finisce per rivendicare una riconciliazione con la figura paterna e con il suo dignitoso coraggio. Un’opzione, questa, impossibile per un altro personaggio del romanzo, ossia il figlio del torturatore, che, pur di liberarsi della sua pesante eredità, alla fine ucciderà il padre.
L’esempio più curioso della narrativa dei figli rimane però il Diario de una Princesa Montonera – 110% Verdad di Mariana Eva Pérez, collage di frammenti tratti da un blog che nel 2012 è diventato libro e che si presenta come il racconto delle avventure di una maliziosissima Alice nella «Disneyland dei Droits de l’Homme», cioè l’Argentina dei Kirchner, dove la sparizione e la morte dei militanti equivalgono alla fondazione di un vero e proprio lignaggio capace di garantire ai figli visibilità, privilegi e perfino incarichi di governo. La chiave scelta da Pérez è quella dell’umorismo nero e irriverente, un filo che corre tra personaggi caricaturali, sberleffi alle regole imposte dalla politica della memoria e continue citazioni degli altri figli e delle loro opere, quasi a comporre una rete solidale o l’emblematico ritratto di una generazione. Accanto agli scrittori, ecco poeti come Juan Aiub e Julián Axat, creatori di una collana che accosta i versi di poeti desaparecidos a quelli dei loro figli; e poi registi come Nicolás Prividera, che in M ha tentato di ricostruire gli ultimi mesi di vita di sua madre (un film bellissimo, inquietante e provocatorio), o come Albertina Carri, che con il suo suggestivo documentario autobiografico Los rubios, del 2003, è stata una dei primi hijos a venire alla ribalta; né manca la fotografia, rappresentata da Lucila Quieto, che compone una Arqueologia de la ausencia inserendo nelle vecchie foto dei genitori perduti le immagini dei figli, affiancandole o sovrapponendole, come fantasmi in bianco e nero, a un padre sequestrato e mai conosciuto, a una madre che tiene in braccio una neonata.
Politicamente scorretto quanto e più del romanzo di Bruzzone, scritto in una lingua volutamente gergale, fitta di abbreviazioni e giochi di parole, il Diario di Mariana Pérez (che è nipote della vicepresidente delle Abuelas di Plaza de Mayo, e per questo si presenta burlescamente come Principessa), tra tutti i libri dei figli è il più difficile da classificare, ma non da interpretare. Sarcastico, eccessivo, a volte irritante, sempre irrispettoso e a volte scarsamente comprensibile per chi non conosca a fondo la realtà argentina, va considerato un tentativo di scardinare il discorso ufficiale e di sottrarsi alla retorica, all’imposizione della memoria e alla sua trasformazione in abitudine o vuota celebrazione. In definitiva, un rifiuto dell’identità che, tra passato e presente, altri hanno disegnato, e allo stesso tempo la speranza di trasformare una pesante eredità in qualcosa di proprio, in un pezzo di futuro.
Segnali di allarme
«Con me finisce la truffa dei diritti umani»: questa dichiarazione fatta alla fine del 2014 da Mauricio Macri a La Nación – il quotidiano che ha appoggiato tutti i colpi di stato avvenuti in Argentina dal 1930 in poi, e che del nuovo presidente è un entusiastico sostenitore – nel corso delle ultime settimane dev’essere tornata in mente a molti, moltissimi argentini. E, in effetti, il primo mese della presidenza Macri dimostra che il vento è davvero cambiato, e che se le opposizioni hanno spesso accusato i Kirchner di servirsi della memoria a proprio vantaggio, il nuovo governo minaccia di nasconderla sotto il tappeto.
Al di là del programma ultraliberista dei macristi (ministri e sottosegretari provengono per lo più da da grandi imprese, banche e fondi di investimento, tanto che gli argentini già parlano di CEOcrazia), dell’immediato licenziamento di oltre ventiquattromila impiegati statali considerati kirchneristi militanti e delle prime sostanziose azioni repressive, come l’arresto della dirigente Tupac Amaru Milagro Salas, tra le discusse misure del nuovo governo ce ne sono alcune che hanno suscitato un notevole allarme nelle organizzazioni per i diritti umani, come Madres de Plaza de Mayo, Abuelas o H.I.J.O.S. (Figli per l’Identità e la Giustizia e contro l’Oblio e il Silenzio), solo per citare la più note, ma anche tra tutti coloro che in questi anni si sono resi conto che la ricerca della verità e il processo ai colpevoli sono tappe di un lungo cammino non ancora completato.
Già il giorno dopo la vittoria di Macri, un editoriale apparso su La Nación ha esplicitamente chiesto che «le ansie di vendetta» vengano «sepolte per sempre» (in poche parole, la fine dei processi per i delitti compiuti durante l’ultima dittatura e un indulto a favore dei condannati), tanto più ora che una legge approvata otto giorni prima del giuramento presidenziale ha istituito una commissione per far luce sulle complicità economiche e finanziarie con la dittatura militare. E se subito prima delle elezioni uno scrittore noto come Marco Aguinis – firmatario, insieme al romanziere Marcelo Birmajer e al critico letterario Juan José Sebreli, dell’appello di una cinquantina di intellettuali in favore di Macri presidente –, ha definito «spregevoli» le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, pochi giorni fa Dario Loperfido, macrista di ferro, direttore dello storico teatro Colón e Ministro della Cultura della Città Autonoma di Buenos Aires, ha affermato che in Argentina il numero dei desaparecidos è stata gonfiato a dismisura dalle organizzazioni per i diritti umani, per guadagnare potere e sovvenzioni statali. E non c’è dubbio che, assegnando per la prima volta al revisionismo il diritto di venir nominato e difeso in spazi non solo pubblici, ma ufficiali, attacchi del genere lascino presagire un cambiamento politico quanto culturale, in vista della costruzione di un nuovo discorso e di un’altra memoria (o meglio della sua progressiva cancellazione).
Non c’è da stupirsi, allora, che scrittori celebri come Mempo Giardinelli esprimano profonda preoccupazione per il futuro, o che un intellettuale brillante e ironico come Juan Sasturain (narratore, giornalista, sceneggiatore dei fumetti di Alberto Breccia), sul quotidiano Pagina/12 consigli a quanti non sono organici al nuovo governo di procedere prudentemente «con el culo en la pared». Né stupisce il fatto che Raquel Robles, cofondatrice di H.I.J.O.S. e ancora oggi «piccola combattente», insieme ad altre organizzazioni abbia promosso in dicembre una mobilitazione il cui slogan è Ni uno suelto (Neppure uno libero, ndt), per riempire le aule dei tribunali e vegliare da vicino sul regolare e rapido svolgimento dei processi a militari e civili implicati nella guerra sucia, cominciati dopo che Nestor Kirchner impose sia l’abolizione delle leggi cosiddette «del Perdono» promulgate dal presidente Alfonsín, che quella degli indulti concessi dal governo Menem. Insieme a lei Angela Urondo e molti altri intellettuali e artisti, o semplicemente figli, madri, padri, sopravvissuti, pronti ad alzarsi in piedi all’ingresso degli imputati e a mostrare per l’ennesima volta i ritratti della persone che hanno perduto.
© Francesca Lazzarato, 2016. Tutti i diritti riservati.
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