Ali Smith, tre volte finalista al Booker Prize, è autrice, fra gli altri, dei romanzi L’una e l’altra e Hotel World. Questo è il testo di un discorso pronunciato il 18 settembre 2015 alla British Library di Londra in onore del critico, scrittore, poeta e artista John Berger, scomparso il 2 gennaio 2017; pubblicato originariamente sul New Statesman, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice.
di Ali Smith
traduzione di Laura Bortoluzzi
In un recente numero del New Statesman è stata pubblicata una lettera in cui John Berger, uno dei corrispondenti epistolari più vivaci del mondo, parla a Rosa Luxemburg, la rivoluzionaria scrittrice socialista, attivista marxista e filosofa uccisa nel lontano 1919. Non solo parla a lei, ma parla con lei, attraverso alcuni stralci delle sue lettere, spesso scritte durante i periodi di prigionia. «La libertà», dice Luxemburg a Berger, e Berger ricorda a noi, «è sempre la libertà di chi la pensa diversamente». A sua volta, Berger nell’articolo descrive per lei una forma di libertà: «Nessuna pagina e nessuna delle celle in cui ti hanno ripetutamente rinchiusa è mai riuscita a contenerti». Vuole mandarle anche un regalo, una scatola di cartone con sopra stampati degli uccelli e delle parole; una scatola, dice la scritta, di «uccelli canterini». Raccontandole la storia che c’è dietro, Berger trova il modo di farle avere la scatola. «Te la posso mandare scrivendo, in questi tempi bui, queste pagine».
Ecco il succo di un’e-mail che mi è arrivata un paio di mesi fa: Cara Ali, potresti scrivere un «omaggio» alla scrittura, alle idee e all’influenza di John, spiegando perché la sua opera è così importante, e quest’omaggio potrebbe durare fra i cinque e gli otto minuti?
E se invece durasse quarant’anni? Perché potrei dire che tutto quello che ho mai scritto o aspirato a scrivere è stato in un modo o nell’altro un omaggio all’opera di John Berger. Berger, una forza altruistica in una cultura che incoraggia il solipsismo, una persona che insiste sull’importanza di tenere gli occhi aperti, di ricalibrare e rienergizzare il pensiero, il sentire, di avere un atteggiamento di estrema compassione, di estrema coerenza in un tempo che incoraggia a girarsi dall’altra parte o a guardare solo le immagini riflesse che creano potere e producono ricchezza. Berger, secondo cui l’atto estetico, l’arte stessa, è sempre collaborativa, sempre immersa in un dialogo o in una conversazione su più fronti, un atto comunitario, che implica la messa in discussione della forma e della configurazione prestabilita delle cose e dei concetti. Berger, che è in grado di fare qualunque cosa con un testo, ma che soprattutto ne fa un dono di impegno, di comunicazione… Be’, io a John Berger non posso che dare amore, è la sola cosa che ho in abbondanza, ed è quello che, fervido, caldo, vitale, scaturisce per me da tutta la sua opera, un’energia inclusiva e procreatrice che posso solo chiamare amore.
I miei incontri con John Berger, che fino a stasera non avevo mai visto dal vivo, sono sempre stati estremamente personali, un colpo di fulmine dietro l’altro – e ogni volta che tornavo a leggerlo era di nuovo un colpo di fulmine, venivo folgorata dalla luce, dall’illuminazione. Ho il sospetto che molti suoi lettori riconosceranno questa sensazione di essere letteralmente folgorati, di ricevere in dono qualcosa che ci espande: ciò che accade quando il testo che si sta leggendo o l’opera d’arte che si sta guardando richiede il nostro coinvolgimento, esce da sé e si trasferisce nel nostro io, entrandoci in comunicazione.
Questo movimento, che tanto spesso si crea quando si legge John Berger, riguarda l’arte, l’amore e il loro peso politico, perché nella sua opera amore, arte e comprensione storica e politica formano sempre una combinazione stratificata. Ci sono molti altri scrittori e artisti che lavorano su questa relazione, ma nessuno riesce a raggiungere la potenza trasformativa della sua combinazione: è un po’ come scoprire cos’è davvero la chiarezza, qual è il significato della parola, è come guardare nell’acqua limpida e vedere le cose ingrandite spontaneamente. In Portraits, una nuova raccolta di saggi sull’arte che ripercorre l’intero arco della sua vita, Berger parla della presenza attiva della parola arte nella parola articolazione, del fatto che i due termini hanno una radice comune, «mettere insieme, unire, far combaciare […] una questione di simile flusso di connessioni».
In questo flusso le cose, semplicemente, diventano evidenti, o più evidenti. Come Berger scrive in un altro testo: «La velocità di una pellicola cinematografica è di 25 fotogrammi al secondo. Dio solo sa quanti fotogrammi al secondo sfilano nella nostra percezione quotidiana. Ma è come se negli istanti di cui parlo, all’improvviso e con un certo sconcerto, potessimo guardare tra due fotogrammi, raggiungendo una parte del visibile che non ci era destinata. Forse destinata agli uccelli notturni, alle renne, ai furetti, alle anguille, alle balene…» Attraverso ciò che scrive, Berger ci concede o crea qualcosa di extrasensoriale, e nella maniera più naturale possibile, come se la natura e l’occhio umano avessero già stabilito la loro liaison, e noi dovessimo aggiornare la nostra conoscenza, arrivare a un punto da dove poter cominciare a conoscere ciò che vediamo. È uno sguardo democratico. Il punto di vista di Berger sull’invisibilità prevede sempre l’inclusione, ha sempre riguardato coloro che la politica non vede, i diseredati, la gente costretta a sottomettersi per assicurare l’esistenza delle classi dominanti, e tramite le pagine di Berger l’orecchio interagisce con l’occhio per ascoltare voci altrimenti soffocate e inudibili – le voci degli invisibili.
L’atto di trascendere noi stessi è l’atto artistico. Scrivendo di Cézanne, Berger lo definisce «la sua storia d’amore, la sua liaison, con il visibile». E commentando la Giovane donna al bagno in un ruscello di Rembrandt dice: «ci sentiamo vicini a lei, dentro la sua veste sollevata. Né come voyeur né come i vecchioni lussuriosi che spiano Susanna. È solo che siamo trascinati dalla tenerezza del suo amore ad abitare lo spazio di quel corpo». Cita Simone Weil: «L’amore per il prossimo, essendo costituito di attenzione creatrice, è analogo al genio». Non sorprende dunque, ma è pur sempre entusiasmante constatare, che Berger sia uno degli scrittori che meglio sanno affrontare il tema dell’amore: «Riconosciamo l’amato/a non dai suoi successi ma dai verbi che lo/la possono soddisfare». E l’amore è un’arte, e l’arte è questione di amore fisico e potenza generatrice: «Nei momenti migliori, si disegna con l’intero corpo, genitali compresi», dice a proposito di Maggi Hambling in Portraits.
Una delle cose che amo di Berger è il suo insistere sull’idea dell’artista non come creatore, ma come ricettore, come figura cruciale per la sua apertura e ricettività, dal momento che l’impeto artistico è fondamentalmente collaborativo o comunitario. I narratori, suggerisce in un’intervista, devono «perdere la propria identità». È l’unico modo per essere «aperti alle vite degli altri». Questo esplicito autoannientamento è parte integrante del gesto artistico: come dice in Il settimo uomo, libro del 1975 sui lavoratori immigrati in Europa, «il mondo va smantellato e riassemblato per riuscire ad afferrare, sia pur maldestramente, l’esperienza di un altro». L’arte come strumento naturale di superamento dei confini: «Se pensiamo alle apparenze come a una frontiera, possiamo dire che i pittori sono alla ricerca dei messaggi che la attraversano». E visto che parliamo di frontiere e del loro superamento, se Cézanne disse di Monet: «Monet è solo un occhio, ma buon Dio, che occhio», io dirò di Berger che è solo un uomo, ma buon Dio, dentro di lui è racchiusa la moltitudine degli esseri umani, presenti, passati e futuri.
Quanta esattezza nelle previsioni di quest’uomo capace di guardare nel passato e nei possibili futuri, che ha pronosticato il danno che «la povertà del neocapitalismo» avrebbe arrecato alle masse da una frontiera all’altra, alla gente che oggi cerca disperatamente di attraversarle perché è l’unico modo che ha per sopravvivere. Che grande dono ha fatto nelle sue opere ai lavoratori, alle classi svantaggiate e alle persone costrette a diventare migranti, dando loro voce, riconoscendole, celebrandole e infuriandosi per le ingiustizie di cui sono vittime. Quanta chiarezza nella visione dell’«ideologia consumistica […] la più potente e invasiva del pianeta», e dell’«innata paranoia del potere politico» e delle narrazioni che questa paranoia infligge al mondo. «Osservate», dice Bergerdice Berger, «la struttura del potere del mondo che ci circonda e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre e improvvisa il proprio insieme di controlli. Ed è per questo che spesso, al principio, non li si ravvisa per quei controlli viscosi che sono». È in questa ignobile improvvisazione che sono coinvolti oggigiorno milioni di esseri umani.
Al tempo stesso, però, sottolinea Berger, che energia, che piacere e che umanità viene, contro ogni aspettativa, dai poveri e delle persone dette migranti, quando si tratta di sopravvivenza. A un potere costantemente riduttivo si oppone sempre «l’ingegnosità dei diseredati», e Berger dice: «In tutte le lingue europee tradizionali non c’è una parola che non abbia connotazioni denigratorie o paternalistiche nei confronti dei poveri delle città. Ecco che cos’è il potere». Berger è molto chiaro rispetto al Potere con la P maiuscola, o a quelle che nella sua lettera a Rosa Luxemburg chiama «cacate del potere».
«Oggi, tentare di dipingere l’esistente è un atto di resistenza che incita alla speranza». Tuttavia, «guardare in faccia la storia significa misurarsi con il tragico». La disperazione è «intrinseca alla pratica della pittura», dice Berger in un saggio su Frans Hals; la luce di Goya è impietosa per la crudeltà che rivela; i pittori del Fayyum «lavoravano dal buio verso la luce». E «il sé e l’essenziale si congiungono nell’oscurità o nella luce che acceca». Nell’arte di Berger, cioè quella di descriverci a noi stessi, di dipingerci il luogo in cui viviamo in questo preciso momento, tutto è un atto di resistenza e speranza.
Portraits è pieno di riferimenti all’oscurità e alla luce, alle proprietà unificanti della luce, all’«attrazione dell’occhio per la luce», ma l’attrazione dell’immaginazione per la luce, dice Berger, è più complessa, «perché coinvolge l’intera mente […] la visione avanza di luce in luce, come se camminasse sulle pietre di un guado». Cita Pasolini: «Non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza». Ed ecco Rosa Luxemburg, attraverso Berger, in quella recente lettera al passato: «“Restare un essere umano”, dici, “è veramente questo l’essenziale. E con questo voglio dire: essere forti, lucidi e contenti, […] poiché lamentarsi è cosa da deboli. Restare un essere umano, cioè gettare, se necessario, gioiosamente tutta la propria vita ʻsulla grande bilancia del destinoʼ ma allo stesso tempo rallegrarsi per ogni giornata di sole, per ogni bella nuvola”».
Ecco. Una ragazzina di dieci anni nelle Highlands scozzesi, nel 1972, sta andando a scuola. È un giorno come tanti altri, ma tutto è cambiato, tutto è nuovo, e questo per via di una singola frase, di un semplice atto verbale che è entrato nella sua coscienza. Ecco, pensa, guardando l’autofficina da cui passa per accorciare il tragitto, le macchine sulle piattaforme rialzate sotto le quali si vede la parte che di solito è praticamente invisibile, sempre rasente all’asfalto, guardando i meccanici sporchi di olio e grasso con la testa infilata nei corpi delle automobili, ecco, pensa mentre varca i cancelli della scuola, si mette in fila con i compagni, si siede al suo posto in chiesa e guarda alle pareti le stazioni della Via Crucis, come occupano lo spazio con la loro tridimensionalità, e lì davanti la statua della Madonna dipinta di azzurro, ecco, non si tratta solo di vedere, ci sono MODI di vedere.
Quello è stato un inizio. E «non c’è mai una conclusione», come dice Berger nella prefazione di Portraits. In un mondo capace di rovesciare i significati di «democrazia, giustizia, diritti umani, terrorismo» («Ogni parola», ha scritto, «vuol dire l’esatto contrario di quello che significava prima») abbiamo uno scrittore come lui, che apre, rivela e rovescia le relazioni di potere prestabilite, cambiando il nostro modo di vedere. Già in passato, in Questione di sguardi (1972), ci aveva messo in guardia sulla nostra spiccata tendenza ad «accettare il sistema complessivo delle immagini pubblicitarie come si accetta un elemento climatico». Berger ha riconosciuto una nuova natura ed è, si potrebbe dire, uno dei nostri più potenti e sinceri autori di nature writing, quando si tratta della natura di quella struttura politica detta mondo. Rivela e riafferma costantemente la vera natura delle cose. «I tiranni», scrive, «non sanno niente della terra che li circonda», guardandola dai loro «condomini strettamente vigilati» e dai loro cyber-territori. E poi cita Cézanne: «Il paesaggio pensa se stesso in me, e io ne sono la coscienza».
Dal saggio su Jackson Pollock, ecco la sua definizione di genio: «[…] il genio è per definizione un uomo che in un modo o nell’altro è più grande della situazione che eredita». Guardate Berger nel mondo, e il mondo dopo di lui, allora, oggi e in futuro. Non che voglia descrivere John Berger, che amo, sulla base dei suoi successi, giacché, ricordate, riconosciamo l’amato non dai suoi successi ma dai verbi che lo possono soddisfare. Per rendergli omaggio, invece, uso e userò dei verbi: io vedo. Vedo in molteplici modi. Vado verso quella luce in mezzo a tutta l’oscurità, reale, storica, contemporanea. E per questo, vedrò. Anzi, guarderò. Entrerò in connessione. Co-risponderò. Conoscerò sempre la vitalità del dialogo. Conoscerò il valore del mistero, del non sapere. Aprirò. Griderò contro i muri e le frontiere dove bisogna aprire un varco. Terrò il naso aperto per riconoscere le cacate del potere. Se dispererò, lo farò sperando. Cercherò di prestare, in ogni momento, non solo attenzione, ma un’attenzione creatrice. Amerò. E tramanderò, sia al passato che al futuro, la generosità, i doni, la visione e l’intuizione che sono stati tramandati a me, con amore.
© Ali Smith, 2016. Tutti i diritti riservati
[Laddove possibile, si è utilizzata la traduzione italiana esistente dei passi citati. I testi a cui si è fatto riferimento sono:John Berger, Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007, Fusi Orari, Roma 2007, traduzione di Maria Nadotti.
John Berger, Contro i nuovi tiranni, Neri Pozza, Milano 2013, traduzione di Maria Nadotti.
John Berger, Il taccuino di Bento, Neri Pozza, Milano 2014, traduzione di Maria Nadotti.
John Berger, Presentarsi all’appuntamento, Scheiwiller, Milano 2010, traduzione di Maria Nadotti.
John Berger, Questione di sguardi, Il Saggiatore, 2009, traduzione di Maria Nadotti.
John Berger, Sacche di resistenza, Giano, Varese 2003, traduzione di Marina Rullo.
John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, Milano 2003, traduzione di Maria Nadotti.
Jonn Berger e Jean Mohr, Il settimo uomo, Contrasto, Roma 2017, traduzione di Maria Nadotti.
Rosa Luxemburg, …So soltanto come si è umani. Lettere 1891-1918, Prospettiva, Roma 2008, traduzione di Anna Bisceglie.
Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1984, traduzione di Orsola Nemi.]
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