Pubblichiamo oggi un saggio di Eduardo Becerra, critico letterario e docente della Universidad Autónoma de Madrid, sull’opera di Juan Carlos Onetti.
di Eduardo Becerra
traduzione di Lavinia Gendusa
– Sì – gli rispose guardandogli le mani –. Può essere che abbia ragione; può essere che lei non esca da se stesso neanche un minuto al giorno o minuti che non contano. Un uomo così avrà sempre ragione.
– Per ora mi basta la mia di solitudine […]. Non me ne serve altra da fuori. Tutto il resto viene a me dall’altra parte. Che ne so da dove viene!
Ramón Chao, Un posible Onetti
I pregi della scrittura di Juan Carlos Onetti sono molti, ma senza dubbio uno dei suoi lasciti più importanti consiste nella capacità di mostrare contemporaneamente i processi della finzione e i suoi risultati; capacità che ha creato un immaginario che, oltre a costruire un mondo di grande densità esistenziale, si è anche posto continuamente un interrogativo sulle cause che portano a inventare storie. La cosa fondamentale, quello che ha trasformato questo presupposto in letteratura indimenticabile, è stato il modo in cui, in ogni momento, ha evitato la tentazione di uno sperimentalismo d’inclinazione barocca, limitato al gioco autoreferenziale e metadiscorsivo, per sostentarsi, invece, di elementi radicalmente vitali.
Uno dei motivi che potrebbe spiegare il fascino che hanno su di noi le storie probabilmente dipende dal fatto che la finzione, in ogni sua forma, ha costituito la possibilità trasferirci in un luogo che non è il nostro, uno spazio mentale che ci permette di giocare, o sognare, di essere qualcun altro. Una delle domande che la letteratura da sempre ci pone e a cui ci invita a rispondere è: «Cosa si prova a vivere un’altra vita?»; «Cosa ci aspetta in quel luogo dove il mio nome è un altro, dove tutto quello che mi ha formato si diluisce e mi porta in un’atmosfera tanto affascinate quanto enigmatica?». Questo desiderio di fuga o spostamento risponde a cause differenti a seconda delle epoche; gran parte della letteratura moderna dispiega questa esplorazione come risposta a una crisi di civiltà che ha popolato lo spazio sociale di esseri alienati e insoddisfatti. Juan Carlos Onetti si è espresso in più di un’occasione sul come la sua opera nasca da un contesto rioplatense molto specifico, quello degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ha dato luogo, secondo le sue stesse parole, a un tipo che lui stesso ha chiamato «indifferente morale», prodotto delle atmosfere, quasi sempre oppressive, delle città di entrambe le sponde del Río de la Plata: Montevideo e Buenos Aires. In questa scia, i protagonisti dei suoi romanzi e racconti si sono sempre mossi in solitudine, vivendo in spazi chiusi, vittime delle diverse forme dell’incomunicabilità.
L’immaginario, costruito attraverso sogni, desideri, simulazioni o finzioni, presuppone così nella sua letteratura la possibilità di rompere questa situazione di chiusura e di sondare diverse forme di salvezza. I suoi personaggi ci si presentano nel tentativo di evadere il limitato spazio delle proprie vite, atto che spesso costituisce il conflitto centrale della narrazione. Se, come si è accettato comunemente, il mondo immaginario di Onetti fa un salto di qualità definitivo, per quel che riguarda spessore e complessità, con La vita breve, non bisogna dimenticare che questo spazio nasce – dal centro della trama stessa – da una situazione che riproduce con precisione questo crocevia prototipico: Brausen, rinchiuso nell’ambiente asfissiante del suo appartamento, rimuginando sulla fine imminente della sua storia con Gertrudis, sente la voce di Queca dall’«altra parte» della parete di casa sua. Da questo momento in poi si sforzerà di conquistare questo luogo estraneo, e per farlo non avrà altro modo se non quello di costruirsi una finzione che gli permetta di essere un altro, Arce per l’esattezza. Ma c’è di più. Invitato a scrivere un soggetto cinematografico, Brausen inizia a disegnare nella sua immaginazione e su carta i profili di una città, Santa María, che da lì in poi si trasformerà nello scenario della maggior parte delle storie che compongono l’opera di Onetti. Il senso di entrambi gli sviluppi è chiaro: «Ma avevo davanti, per salvarmi, tutta questa notte di sabato; mi sarei salvato se avessi cominciato a scrivere il soggetto per Stein, se avessi finito due pagine, o anche solo una, se fossi riuscito a far entrare la donna nell’ambulatorio di Díaz Grey e farla nascondere dietro al paravento; se avessi scritto un’unica frase, forse». O meglio: «Di nuovo capii, per mezzo secondo, il senso della scena appena conclusa, del corpo e del passato della Queca, della decisione che mi aveva portato a farle visita e mentirle; credetti di decifrare tutti gli enigmi passati della mia vita, di poter mettere insieme le minuscole sensazioni quotidiane e da quelle ottenere la risposta, una sola, per ciascuno dei dubbi importanti; una risposta gaudiosa, tanto utile e convincente per me stesso quanto per tutti gli altri ciechi, inferociti o disperati che in quel momento vagavano come me sulla terra. Poi rimasi lì a sorridere, abbandonato, con il cappello in mano, come un mendicante su un portone, a sorridere mentre sentivo che la cosa più importante era salva se io mi chiamavo ancora Arce».
La vita breve si sostiene in modo indiscutibilmente geniale in una serie di vasi comunicanti articolati negli sdoppiamenti e nelle proiezioni immaginarie di Brausen, personaggio convinto che solo in questo spostamento verso altri ambiti sia possibile un qualche tipo di redenzione. Così, il nucleo centrale della letteratura di Juan Carlos Onetti – le sue opere ambientate a Santa María – nasce da questo sguardo verso un’altra parte che non si limita alla mera contemplazione di questo luogo all’inizio estraneo, ma che suppone un cieco tentativo di abitarlo. Si è insistito, al momento di segnalare il percorso che culmina nella fondazione si Santa María, che nella sua prima nouvelle, Il pozzo, brandiva già le chiavi fondamentali di una poetica consolidatasi definitivamente con La vita breve, nel delineare una tematica e una trama di evidenti corrispondenze: la storia di un solitario che nei sogni, nei ricordi e nelle invenzioni trova una sorta di riparazione alla sua stanchezza. E tuttavia, uno sguardo attento permette di distinguere la presenza di questa tematica dall’inizio della sua traiettoria, fino a diventare l’asse che attraversa il corridoio centrale della sua opera.
Oltre che nel Pozzo questa particolarità si trova già nel suo primo racconto: «Avenida de Mayo-Diagonal-Avenida de Mayo» [tutti i racconti citati sono tratti dal volume Triste come lei, ndr], dove il narratore, che si trova all’angolo di una strada nella città aspettando l’arrivo della donna con cui ha un appuntamento, immagina se stesso, a partire dagli stimoli dell’urbe – cartelloni del cinema, annunci pubblicitari e soprattutto un’insegna luminosa che trasmette le ultime notizie dal mondo –, come protagonista di avventure in luoghi lontani e contemporaneamente esprimendo il suo disprezzo per la moltitudine che lo circonda. Già in questo racconto si vede come la finzione, o il sogno, nascano come attività compensatoria della solitudine e del fallimento, cosa che si acutizza in un altro dei suoi primi racconti, «Il possibile Baldi», che racconta il tentativo dell’uomo del titolo, un avvocato dalla vita grigia, di far credere a una donna di essere un avventuriero, e il suo desiderio disperato di far parte della farsa che lui stesso ha costruito. Questo crocevia si delinea in maniera ancora più chiara in «Un sogno realizzato», nella donna che cerca di recuperare un ricordo lontano – in cui, semplicemente, è stata felice – attraverso una rappresentazione teatrale; e una nuova variante la troviamo in «Benvenuto Bob», suggestivo racconto di una vendetta in cui il paradiso perduto è impossibile da riscattare. Quest’altra parte irrecuperabile, onnipresente nella letteratura di Onetti, non è altro che la giovinezza già scomparsa, passaggio per una vita definitivamente rovinata. In «Esbjerg, sulla costa» sarà il paese natale quell’altra parte inaccessibile: il fatto che l’uomo accompagni sua moglie nella nostalgia per la sua terra non impedisce l’evidenza che, come ci viene ricordato alla fine del racconto, entrambi si trovino «senza saperlo, nella disperazione e con la sensazione che ognuno è solo, cosa che risulta sempre stupefacente quando ci pensiamo». L’«altra parte» si mostra in questi racconti come una dimensione desiderata che promette una compensazione della solitudine, e presuppone anche una perdita irrimediabile, ma che, nonostante ciò, mette in moto i meccanismi dell’immaginazione nella speranza inutile di ottenere questo riscatto. Come si è già detto, La vita breve aggiunge una dimensione più grande a questo crocevia vitale e aggiunge nuovi accenti che si ripetono in altre storie ambientate a Santa María dove la finzione è concepita come unica roccaforte abitabile: in «L’album», per esempio, quando Jorge Malabia, scoprendo che le storie che la donna gli ha raccontato sono vere, sente che questo statuto di realtà le rende sporche e infami.
Nei casi precedenti, il conflitto tra l’ambito del reale e i luoghi dell’immaginazione acquisisce una condizione argomentale. C’è tuttavia un altro aspetto di rilievo, relativo a questo tema, molto presente nei romanzi e racconti di Onetti e che va al di là di queste «tematizzazioni». A volte è questo sguardo a ciò che è altro si trasforma in motore narrativo, in punto di partenza e filo conduttore della finzione. In molti suoi testi, in alcuni dei migliori, la trama si tesse nella caccia, da parte di qualcuno che guarda e racconta, di fatti che si negano a svelare i propri veri significati. Penso che un’opera, d’altra parte antologica, come Gli addii si adatti perfettamente a questa caratterizzazione, visto che la storia si nutre fondamentalmente delle ipotesi che il narratore snocciola poco a poco sulle relazioni tra il giocatore di pallacanestro e le due donne. Troviamo qualcosa di simile in «L’inferno tanto temuto», dove il narratore, Lanza, espone, senza risolverli del tutto, gli elementi equivoci che si nascondono nella storia d’amore di Risso e Gracia César. In entrambi i casi, il centro focale della narrazione si proietta verso una zona piena di silenzi e vuoti, e da queste falle nasce la necessità di raccontare: si racconta perché c’è un vuoto di significato che si può riempire solo con un racconto, che non svela ma che costituisce l’unico modo di avvicinarsi, sia pure minimamente, al suo centro schivo. L’altra parte qui non è tanto una regione immaginata, ma una vita estranea che nasconde un segreto, che è ciò che permette di raccontare.
Questo carattere narrativo definisce anche a grandi linee quelle storie ambientate a Santa María in cui uno sconosciuto arriva in città costeggiando il fiume e si lascia osservare dai suoi abitanti, mi riferisco a racconti come «Benvenuto Bob» o «Storia del cavaliere della rosa e della vergine incinta venuta da Lilliput» e anche «La sposa rapita», racconto del ritorno di Moncha Insurralde a Santa María. In questi racconti si impone una molteplicità di punti di vista e un tono congetturale che tiene vivi gli enigmi che si nascondono dietro gli avvenimenti: «… Fino alla restituzione dei cinquecento pesos, fino ad elevare la montagna insolente e irregolare che esprimeva per lui e per la morta quello che noi non potremo mai sapere con certezza», leggiamo alla fine de «Storia del cavaliere della rosa». «La basca Insurralde c’è stata ma poi ci è caduta dal cielo e ancora non sappiamo; per questo raccontiamo», si dice in un punto di «La sposa rapita».
«Prima di prendere le pillole capii che non avrei mai potuto conoscere la verità su quella storia; con un po’ di fortuna e pazienza forse sarei riuscito a capire la metà che corrisponde a noi, gli abitanti della città. Ma era necessario rassegnarsi, accettare come inarrivabile la conoscenza della parte che avevano portato con loro i due forestieri e che si sarebbero portati via in modo diverso, incognito e per sempre…», pensa il narratore di «Benvenuto Bob». Le tre citazioni esprimono in maniera nitida la situazione in cui si racconta perché non si sa del tutto, e quest’altra parte resiste a farsi svelare, persiste nel mostrare la sua faccia enigmatica; resta solo lo sguardo verso l’altra parte e la voce che racconta questo modo di guardare e le sue indagini. Si tratta di testi in cui la finzione si rivela nel momento della sua enunciazione, perché ci vengono sì narrati i fatti, ma anche, e forse soprattutto, la tensione tra le versioni che generano.
Possiamo anche pensare che i romanzi che hanno come protagonista Junta Larsen rispondano fondamentalmente a questo schema. Cacciatore di sogni impossibili, Larsen incarna lo stereotipo del personaggio onettiano che ha bisogno della finzione per esistere, nella forma del bordello perfetto o del cantiere navale in rovina. Nelle storie in cui ha un ruolo centrale, appena arriva in città si sottomette allo scrutinio degli abitanti di Santa María, che riaprirà il passo a una scrittura congetturale, che dà mostra di sé in toni dubbiosi e versioni contrastanti, di cui ci sono molti esempi sia in Raccattacadaveri sia nel Cantiere. Spesso, questa contemplazione dell’estraneo viene dallo sguardo scettico di Díaz Grey, testimone quasi onnipresente di ciò che succede a Santa María. Entrambi, il medico e l’ex prosseneta, costruiscono una coppia che riassume alla perfezione questa struttura delle opere ubicate a Santa María: chi guarda e chi è guardato, chi viene dall’altra parte e chi lo aspetta da questa. Poche citazioni riassumono questo carattere narrativo meglio di quella che raccoglie la riflessione del medico al vedere Larsen nel Cantiere:
«Ma non voleva prendere in giro nessuno, nessuno in particolare gli sembrava degno di derisione; era subito allegro, tremebondo per un sentimento disabituato e caldo, umile e felice e riconosciuto, perché la vita degli uomini continuava ad essere assurda e inutile e in un modo o nell’altro continuava anche a mandargli emissari, gratuitamente, per confermare l’assurdo che risiedeva in lei e la sua inutilità».
Gli argomenti sanmariani riproducono così la situazione di partenza di questo mondo immaginario e a volte si interrompono per ricordarci che la città vicino al fiume e tutto quello che in essa succede in ogni momento continua a essere un prodotto dell’immaginazione di Brausen, eroe fondatore da La vita breve, che in alcune occasioni prende la parola in mezzo alle trame dei romanzi perché non ci dimentichiamo di lui. Così si rivela in un passaggio di Raccattacadaveri:
«Immagino anche Santa María, dalla mia umile posizione, come una città giocattolo, un’ingenua costruzione di cubi bianchi e coni verdi, popolata da insetti lenti e instancabili».
«Così, immaginando che invento tutto quello che scrivo, le cose acquisiscono un significato, inspiegabile, certo, ma di cui potrei dubitare solo se dubitassi allo stesso tempo della mia stessa esistenza. Non c’è mai stato niente prima o, almeno, niente più che l’estensione di una spiaggia, campagne, vicino al fiume. Io ho inventato la piazza, la sua statua, ho fatto la chiesa, ho distribuito gruppi di edifici verso la costa, ho messo la passeggiata vicino al molo, ho scelto il posto dove doveva trovarsi la Colonia».
«È facile disegnare una mappa del luogo e una piantina di Santa María, oltre a darle un nome; ma bisogna dare una luce speciale ad ogni bottega, ad ogni vestibolo e ad ogni angolo. Bisogna dare una forma alle nuvole basse che arrivano fin sul campanile della chiesa e sui tetti con le loro balaustre rosa e crema; bisogna distribuire mobilio di cattivo gusto, bisogna accettare quello che si odia, bisogna trasportare persone, da non si sa dove, perché abitino, sporchino, commuovano, siano felici e sperperino. E, nel gioco, devo dar loro dei corpi, necessità di amore o denaro, ambizioni dissimili e coincidenti, una fede mai esaminata nell’immortalità e nel fatto di meritare l’immortalità; devo dar loro la capacità di dimenticare, viscere e visi inconfondibili».
La voce di Brausen irrompe per riportarci al momento inaugurale di questo mondo e in questo modo non farci dimenticare il gioco che l’ha generato. Per questa stessa ragione, probabilmente, Juan Carlos Onetti, demiurgo principale dei demiurghi subalterni, appare all’inizio e alla fine della saga, restringendo i limiti di un processo di natura esplicitamente ed essenzialmente immaginaria. Quello che succede veramente nelle mille e più pagine della saga di Santa María è l’attività onirica, produttrice di finzione, di un uomo solitario che cerca in lei, in quell’«altra parte» dell’immaginazione, la speranza nella redenzione o forse la conferma della disfatta.
Lo sguardo verso questo luogo estraneo e il tentativo di trovare un modo di occuparlo configura in Juan Carlos Onetti tutto un sistema narrativo. Non è mai chiaro cosa vi si nasconda e cosa vi sia ad aspettarci, basta fare in modo che, come leggiamo nelle ultime righe di Per una tomba senza nome in riferimento al senso della storia di Rita e la capra, la finzione sorga e si installi, senza svelarlo, in questo angolo elusivo della realtà:
«E, più o meno, questo era tutto quello che mi rimaneva dopo le vacanze. Ossia, nulla; una confusione senza speranza, un racconto senza un finale possibile, dal senso dubbioso, smentito dagli stessi elementi di cui disponevo per crearlo. Personalmente, sapevo solo dell’ultimo capitolo, della sera calda nel cimitero. Non sapevo il significato di quello che avevo visto, mi ripugnava l’idea di scoprirlo, di assicurarmi la verità».
«E quando passarono abbastanza giorni di riflessione tanto da farmi dubitare anche dell’esistenza della capra, scrissi, in poche notti, questa storia».
«L’unica cosa che conta è che, finito di scriverla, mi sentii in pace, sicuro di essere riuscito nella cosa più importante che ci si poteva aspettare da questa attività: avevo accettato una sfida, avevo trasformato in vittoria per lo meno uno dei fallimenti quotidiani».
Cosa suppone questa vittoria? Difficile, per non dire impossibile, dirlo. Si apre qui un groviglio silenzioso e inestricabile, padrone di quell’altra parte sempre interrogata nella sua opera. «La letteratura» ci ha insegnato Italo Calvino nelle sue lezioni sulla letteratura del nostro millennio «vive solo se si pone obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione.» Penso che, su questa stessa linea, forse la grande letteratura è anche quella che ci impedisce di rimanere impavidi di fronte a questi enigmi irresolubili e riesce a obbligarci a chiederci incessantemente cosa nascondano: esattamente quello in cui riesce la proposta di Juan Carlos Onetti e che la rende durevole. Per il resto, l’ha già detto lui: quello che viene dall’«altra parte», chissà da dove viene?
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