È in libreria Il vento distante, densa raccolta di racconti di José Emilio Pacheco: pubblichiamo oggi un articolo di Raul Schenardi uscito il 27 gennaio scorso su Pagina99, in seguito all’improvvista morte dell’autore.
di Raul Schenardi
«Non siamo cittadini di questo mondo ma passeggeri in viaggio verso la terra prodigiosa e intollerabile», scriveva José Emilio Pacheco in “Prosa de la calavera”, poema in prosa contenuto nella raccolta Los trabajos del mar (1979-1983). Ora il suo viaggio è iniziato – lo scrittore è deceduto il 26 gennaio in un ospedale di Città del Messico in seguito a una crisi cardiorespiratoria, all’età di settantaquattro anni –, a brevissima distanza dal suo caro amico Juan Gelman, argentino trapiantato da vent’anni nella capitale messicana, e il continente latinoamericano piange in questi giorni due grandi poeti.
Pacheco esordisce a diciott’anni nel 1957 con un testo narrativo (El tríptico del gato), a cui farà seguito due anni dopo il volume di racconti La sangre de Medusa, mentre la sua prima raccolta poetica, Los elementos de la noche, viene pubblicata nel 1962. Se in questa fase si colgono ancora echi del simbolismo, con No me preguntes cómo pasa el tiempo, del 1968, compaiono un linguaggio più colloquiale e tematiche morali e sociali. «Il mondo ormai è stanco di profeti; l’ossido s’impadronisce delle loro visioni. La storia ha il dovere di sovvertire le profezie.» Irrompe con forza anche la denuncia politica (in Las voces de Tlatelolco, dedicato al massacro di studenti nell’omonima piazza messicana, il 2 ottobre 1968), ed emerge, già dal titolo, un interesse per il tempo – un tempo ciclico, un’infinita sequenza di creazioni-distruzioni-rinascite – che sarà una costante nella sua opera, fino all’ultima raccolta del 2009, Tarde o temprano. Tempo come istante durevole, come dimensione esistenziale di riscatto, come oggetto di meditazione nostalgica: «A vent’anni mi dissero: “Bisogna / sacrificarsi per il domani”. / E abbiamo dato la vita sull’altare / del dio che non arriva mai. / Mi piacerebbe ritrovarmi ora, alla fine, / con i vecchi maestri di allora. / Dovrebbero dirmi se davvero / tutto questo orrore di adesso era il domani».
Nella sua lunga traiettoria poetica si può dire che Pacheco abbia toccato tutti gli accenti, dall’invettiva satirica all’elegia, dal monologo drammatico all’epigramma, dal lungo poema narrativo alla fulminea illuminazione metafisica, sempre fedele a una ricerca di limpidezza e semplicità. Senza nascondere la propria natura di lettore vorace e di fine intelletuale, di cui fanno fede i numerosi versi dedicati a poeti e artisti, spesso giocati sul filo dell’ironia, come in Dante: «Quando vedeva Dante per strada / la gente lo prendeva a sassate con la certezza / che davvero era stato all’inferno».
E non gli sono mancati i riconoscimenti, dal premio Octavio Paz nel 2003, al Pablo Neruda nel 2004, al Federico García Lorca nel 2005, fino al Cervantes (il Nobel degli autori di lingua spagnola) nel 2009.
Non meno importanti, nel complesso della sua produzione letteraria – e senza soffermarsi sulla sua opera di promotore di riviste, saggista, traduttore (Eliot, Wilde, Becket) e accademico – sono i due romanzi, Morirás lejos e Las batallas en el desierto, del 1981, di cui esiste una recente edizione italiana (Le battaglie nel deserto, tr. di Pino Cacucci, La Nuova Frontiera), e le raccolte di racconti El principio del placer e Il vento distante. Le battaglie nel deserto è un piccolo capolavoro che ha avuto innumerevoli edizioni e traduzioni, ne è stato tratto un film e ha ispirato una canzone di una famosa band messicana, Café Tacuba. Mentre ci racconta la storia di Carlos, un bambino di otto anni che s’innamora della madre di un compagno di scuola – storia di un amore impossibile che segna anche l’ingresso traumatico del protagonista nel mondo ipocrita degli adulti –, Pacheco ci illustra, in meno di 90 pagine, l’avvento della modernità nel Messico del secondo dopoguerra. Con brevi e sapienti pennellate traccia un affresco sociale impietoso: «Gli adulti si lamentavano per l’inflazione, i cambiamenti, il traffico, l’immoralità, il rumore, la delinquenza, il sovraffollamento, i mendicanti, gli stranieri, la corruzione, l’arricchimento osceno di pochi e la miseria di quasi tutti», senza venir meno alla sua vena nostalgica, che traspare fin dall’epigrafe: «Il passato è una terra straniera: fanno le cose in modo diverso laggiù».
In vari racconti di Il vento distante, del 1963, figuravano già diversi bambini e adolescenti alle prese con strazianti pene amorose e con le forche caudine del divenire adulti, insieme a truci protagonisti della rivoluzione messicana e a prototipi di truffatori pronti ad approfittarsi della credulità popolare con storie di apparizioni della Madonna. E anche qui traspare il difficile legame con la sua terra natale, che Pacheco aveva già sintetizzato nella poesia «Alto tradimento»: «Non amo la mia patria. / Il suo splendore astratto / è inaccessibile. / Però (anche se suona male) / darei la vita / per dieci suoi luoghi, / per certe persone, / porti, boschi, deserti, fortezze, / una città distrutta, grigia, mostruosa, / diverse figure della sua storia, / montagne / – e tre o quattro fiumi».
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