Pubblichiamo oggi un racconto dell’autore argentino César Aira, che ringraziamo.
«Le due bambole»
di César Aira
traduzione di Raul Schenardi
Evita possedeva due bambole “Evita” a grandezza naturale, che aveva fatto fare apposta, identiche a lei e fra loro. Le occorrevano per il gran numero di atti a cui doveva assistere, in ragione dell’importanza che la sua figura aveva nel rituale peronista. L’idea originale era di farne fare una sola, per potersi duplicare e accontentare più gente con la propria presenza; ma poi le venne in mente che con lo stesso sforzo necessario per farne una se ne potevano fare due, e così avrebbe avuto più margine d’azione. In realtà, una volta fattane una, se ne potevano fare anche dieci, o venti, o mille; ma si limitò a due e basta, perché con due le sue necessità erano soddisfatte, e le sembrava scioccante avere una legione di repliche. Ai tedeschi che gliele fecero disse che le voleva entrambe ugualmente perfette perché, dato che non si può mai sapere cosa succederà, non avrebbe mai saputo quale delle due utilizzare. Non voleva avere una bambola “preferita” e una “di scorta”, bensì due bambole uguali. E le ebbe. Gliele consegnarono dentro due casse di nichel con chiusure di sicurezza, che vennero depositate in una stanza dall’accesso riservato della Residenza Presidenziale. I ciambellani della signora tiravano fuori una o l’altra, a volte tutte e due insieme, secondo le necessità dell’agenda, e per anni le bambole svolsero le loro funzioni senza che nessuno si accorgesse della sostituzione. Erano incredibilmente piccole, ma le misure erano state prese bene, e corrispondevano al millimetro al modello.
La realtà è sempre un po’ più strana di quanto ci si aspetta. Le folle entusiaste che se la vedevano apparire in persona davanti agli occhi la ingigantivano, e con lei riempivano tutto lo spazio della loro memoria, per sempre. Le istruzioni impartite ai fabbricanti erano state seguite con esattezza: si era raggiunta la perfezione. Ma succede che la perfezione, come tutti gli assoluti, è una faccenda molto scivolosa. Erano perfette, vale a dire identiche, ma questo aspetto non era reciproco. Il che provocò, arrivato il momento, un incidente molto triste, che fortunatamente per il regime rimase segreto. Accadde durante una di quelle cerimonie, fra il grottesco e il commovente, tipicamente peroniste, che avevano luogo quasi ogni giorno in uno dei quartieri popolari della Grande Buenos Aires. In questo caso si trattava dell’inaugurazione del campo ricreativo di un sindacato. Era una bella serata primaverile, alle sette. Era stata annunciata la presenza di Evita, e lì andò una delle due bambole… e anche l’altra. Infatti, per un malinteso fra il personale incaricato, vennero mandate tutte e due, vestite con lo stesso tailleur pied-de-poule bianco e nero, lo stesso cappellino, le stesse scarpe di camoscio nere, ciascuna nella sua carovana di Cadillac e motociclisti che partirono a distanza di due o tre minuti. Tutto il quartiere si era dato appuntamento. Le grancasse facevano palpitare il suolo e le case. Da alcuni altoparlanti si facevano gli annunci e si trasmettevano tanghi…
Una caratteristica del peronismo fu che non si propose di dominare il mondo, bensì solo l’Argentina. Questo bastò per fare dell’Argentina un mondo: il mondo peronista. Il sole calava dietro le casette vuote, in fondo alle strade sterrate. Gli uccelli cantavano sugli alberi del parco del sindacato. La folla si infiammava nell’attesa… E d’un tratto l’annunciarono! Era già arrivata! Un grido unanime uscì dalle gole e mille fazzoletti si agitarono. “Evita” era comparsa sul podio, più bella dei sogni in cui viveva, più reale della speranza. Come succedeva ogni volta che si presentava in pubblico, nessuno poteva crederci del tutto. Ce l’avevano così presente, tutti i giorni… In un certo senso la sua realtà distorceva la percezione, e fu per quello che nessuno si rese conto che ce n’erano due. Le acclamazioni si trasformarono con naturalezza nella marcetta, e poi cominciarono i discorsi. In prima fila, di fianco a “Evita”: il vescovo, il sindaco, il segretario del sindacato, la rappresentante della sezione femminile, deputati, ministri provinciali e qualcuno che si era infilato lì. Il pubblico fissava estasiato la Signora, una o l’altra. I cuori dicevano: «Presente!»
Era la prima volta che le bambole si vedevano fra loro (e fu l’unica). Erano stupefatte, perché entrambe ignoravano l’esistenza dell’altra. La ignoravano nella misura in cui potevano farlo, nella loro limitatissima psicologia di oggetti, che in questa circostanza toccò i suoi tremuli estremi. Mentre salutavano e cantavano la marcia, e salutavano di nuovo, notarono che i loro gesti erano gli stessi, che si muovevano nello stesso momento e che facevano tutto allo stesso modo. Quando iniziò il discorso del Ministro del Lavoro, tutte e due fissarono lo sguardo sullo stesso punto del vuoto, con la stessa espressione cortese e affaticata. Avevano deciso di ignorarsi, perché sembrava l’unica cosa ragionevole da fare, ma la curiosità fu più forte. Si voltarono una verso l’altra, si guardarono apertamente, con lo stesso dubbio negli occhi. Ma com’era difficile parlare, fare una domanda o dare una risposta, senza che l’altra non lo facesse nello stesso momento! Ogni domanda che potesse fare una, se la sarebbe fatta l’altra, e non valeva la pena ascoltare la risposta, perché era quello che avrebbe risposto lei. Era una cascata vertiginosa, l’intero dialogo anticipava se stesso e si consumava in un fuoco di rivelazione: non era l’unica, e ciò significava che non era lei. Era invasa da una tristezza immensa, e il suo sciocco narcisismo di bambola si dissolveva e non lasciava niente al suo posto. Era quasi come se tutto il mondo si dissolvesse, senza lasciare niente al suo posto: la serata primaverile, il paese, l’Argentina… Tutto diventava atrocemente trasparente, un deserto che d’ora in avanti si sarebbe dovuto attraversare senza speranze, senza illusioni.
Il crepuscolo aveva diffuso in tutto il cielo un rosa intenso, che si riversava sulla terra e che riguardava la loro natura di bambole. Sulle loro guance scorrevano le lacrime, e anche il popolo riunito davanti al palco piangeva, senza sapere perché. Era l’infanzia dell’Argentina, l’età dei giocattoli.
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