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Bolivia (ovvero: come non diventare uno scrittore nordamericano)

Antonio Skármeta Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi un testo dello scrittore cileno Antonio Skármeta pubblicato originariamente sulla rivista Il Reportage. Ringraziamo il direttore della rivista Riccardo De Gennaro e il traduttore Alberto Prunetti.

di Antonio Skármeta
traduzione di Alberto Prunetti

Quando avevo 18 anni, in Cile, morivo dalla voglia di diventare uno scrittore d’America.
Ma intendiamoci bene: la mia pretesa era diventare uno scrittore nordamericano d’America.
Questi tipi se la godevano di brutto. Se erano uomini d’affari, finivano per trasformarsi in magnati sullo stile degli eroi di Scott Fitzgerald. Se preferivano vivere da marginali, si facevano un cannone, leggevano buddismo Zen, attraversavano gli Stati Uniti in auto vecchissime con donne nuovissime e in tre settimane ti scrivevano una bibbia come On the Road.
La musica era sincopata e il buon rock nutriva i miei sogni di studente in una Santiago provinciale e piovigginosa.
Le giacche degli idoli potevano cambiare: bianca e con frange quella di Elvis, rossa quella di James Dean in Gioventù bruciata, di cuoio nero con rifiniture in metallo quella di Marlon Brando.
Ma non cambiava il sogno, anzi, la certezza che la vita non poteva essere la routine così poco istrionica di una città cilena castigata dall’anonimato. La vita erano i neon di Times Square o i soppalchi polverosi di San Francisco, dove Cenerentole pallide e ardenti aspettavano l’arrivo dei loro principi.
Un giorno, de bon matin (come cantava Boris Vian in Il disertore) comunicai in maniera vaga ai miei genitori che avrei viaggiato verso nord. Ero esonerato da fornire ulteriori dettagli. Nord, in fin dei conti, può essere il paese a trenta chilometri o l’Alaska. E poi ero consapevole dell’arguzia del poeta Vicente Huidobro: «I quattro punti cardinali sono tre: il nord e il sud».
Andavo alla conquista degli Stati Uniti facendo autostop su affaticati autocarri che attraversavano il deserto disarticolandosi chilometro dopo chilometro per poi rifoderare di gomma i pneumatici in officine prive d’acqua ma fornite di sudore a litri. Viaggiare per strada era l’apprendistato dello scrittore nordamericano e io ero disposto a non essere più il figlio di mamma e papà: in quest’avventura potevo anche lasciarci il mio scheletro, consumato da uccelli rapaci al fondo di un qualche canyon.
In aereo? Neanche a pensarci. Roba per ragazzi per bene con la borsa di studio Fulbright. O per trafficanti di Philip Morris.
Riuscii a raggiungere la città di Antofagasta dopo duemila chilometri che nello zaino pesavano come due decenni. Più a nord c’era la Bolivia e una ferrovia da film di cowboy e apaches che trapanava il deserto fino a La Paz. Spesi con orgoglio il mio ultimo capitale in un sandwich di pollo e in un biglietto di terza classe per La Paz.
Il treno assomigliava a un moribondo  e si allontanava considerevolmente dagli stupendi Greyhound nei quali uno immediatamente si imbatterebbe a New Orleans, con un autista nero che canta blues e Sinatra e Dean Martin che giocano a poker sul sedile posteriore.
Soffrii l’ardore del sole di giorno e un freddo pungente di notte.
Bene, dissi a me stesso. Peggio me la passerò, migliore sarà il mio romanzo nordamericano.
Allo spuntare del giorno, sotto un sole che incendiava il deserto, il treno sbuffò con lunghi sospiri e entrò nella stazione di Oruro. Per celebrare il carnevale erano arrivati fino alle banchine dei binari musicisti, ballerine e cantanti. Alcune ragazze sembravano aver indossato quindici gonne: le facevano volteggiare e dai loro volti di rame scoccavano sorrisi sfrontati e accoglienti.
Una di queste ragazze (è divertente scrivere, dopo quello che accadde, «una di queste ragazze») senza smettere di ballare si avvicinò al finestrino del treno e duplicò il suo sorriso. Le sorrisi anch’io, sicuramente con più denti di Burt Lancaster in «Il mago della pioggia».
«Vieni a ballare», mi disse lei.
«Non posso».
«Perché no?»
«Vado a La Paz».
«La Paz? “La pace” la troverai da morto. Scendi subito».
Dal finestrino passò prima il mio zaino e poi il vostro umile servitore.  A una tazza di caffè seguì un bicchiere di acquavite, a un carnevaletto che non riuscii a ballare una cueca nordica, alla cueca una birra della capitale, alla birra un valzer lento suonato dagli ottoni, al valzer una bottiglia di pisco, al primo bacio nella piazza una siesta umida con svolazzio di gonne e di sperma, e prima di affondare nel sogno totale di una America Latina indigena e atemporale credetti di vedere da lontano il fumo del treno che inceneriva nelle sue caldaie il mio futuro di scrittore nordamericano.
L’amore di un giorno si estese per una settimana e le sopracciglia del padre della ragazza si aggrottarono. Senza sorridere usciva al mattino per andare nelle miniera di stagno in cui lavorava incoronato da un casco giallo sopra la fronte, intuendo che mentre lui scendeva nelle profondità della terra io mi infilavo dentro al letto di sua figlia.
Alla fine la domenica, dando prova di una cortesia infinita, senza che nessuno glielo chiedesse lui impacchettò i miei abiti nello zaino e tenendolo sospeso per le cinghie  prese a camminare verso la stazione. Un bacio fugace sulla guancia della mia amata, la promessa tremula di scriverle. Poi corsi fino a raggiungerlo. Sulla banchina del binario mi batté compassionevole la mano sulla spalla, lasciandomi intendere che mi cacciava dal paradiso.
Presi il treno, ma per tornarmene in Cile.
Adesso non volevo nient’altro che la mia America.

© Antonio Skármeta, 2011. Tutti i diritti riservati.

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