Laia Jufresa, autrice di Umami, sta per arrivare in Italia. In attesa di incontrarla di persona (qui tutti gli appuntamenti), vi proponiamo la lettura di questo suo racconto inedito in italiano, pubblicato nella raccolta El equinista.
di Laia Jufresa
traduzione di Giulia Zavagna
La volpe morse Mamma tre mesi dopo che lei decise di vendere il nostro appartamento, comprare questo appezzamento di terra e trasferirci qui senza nemmeno chiedermelo. Oltre alla Terra c’era una casa rudimentale, una lavanderia sul retro, e un pozzo sul confine nord del terreno. Un filo spinato delimitava la frontiera del nostro Nuovo Mondo. Mamma progettava di ricostruire la casa quando siamo arrivate ma durante quei primi mesi, forse perché allora l’interno non era così diverso dall’esterno, o forse per puro romanticismo, dormivamo spesso nella terra di nessuno che era il nostro cortile sul retro. A Mamma venne voglia di studiare le stelle e quelle sere portavamo coperte e cuscini fino a una radura nel bosco, dove lei scrutava il cielo cercando di farlo rimare con le mappe dei suoi libri. Pronunciava e ripeteva i nomi delle costellazioni a voce bassa, come se stesse pregando. Hydra, Fornax, Carina: diventavano personaggi delle storie che mi raccontavo da sola prima di dormire. Più tardi, il freddo della notte ci spingeva di ritorno a casa. Mamma mi portava in braccio a letto, a volte ridendo di gusto.
Nel bel mezzo di quella che risultò essere la nostra ultima notte all’aria aperta, Mamma si mise a gridare. Anch’io mi svegliai gridando, con la paura che si impossessava del mio cervello prima della coscienza. Io non vidi la bestia. Mamma mi ha sempre assicurato che lei sì, che lei l’aveva vista e che era una volpe, nonostante non si sia mai vista una volpe in tutta la regione.
Con un solo gesto, Mamma liberò una federa del suo cuscino e vi si avvolse la mano. Disse «alcol» e io corsi verso casa, lo trovai e tornai di corsa alla radura. La luna, quella notte, era dalla nostra parte.
Mamma mi strappò di mano la bottiglia e l’aprì con i denti. Sebbene ci fosse del sangue, sebbene la sua paura e il suo dolore fossero quasi contagiosi, fu vederla aprire la bottiglia con i denti e sputare il tappo e versare rozzamente il liquido sulla ferita e tutto intorno, ciò che mi trasmise un acuto terrore, terrore di fronte a quella nuova versione di lei. Ma quando l’alcol attraversò la tela della federa e le toccò la pelle aperta, Mamma cadde in ginocchio. E a me questo, averla di nuovo tra le persone fragili, fu un sollievo.
Trovai le quattro scarpe e le misi a me e a lei, come se non avessi sette anni, come se l’avessi già fatto prima. Poi Mamma si alzò e si mise a camminare verso l’apertura che portava alla scala di fango che ci univa alla strada. La seguii. Poi mi arrabbiai e mi fermai. Mi stava lasciando indietro e la cosa non aveva alcun senso per la bambina viziata che ero. È un incubo, le dissi. Fermati e lasciami andare, smetti di camminare! Piansi forte perché fino ad allora il mio pianto era sempre stato infallibile, ma Mamma non si voltò nemmeno. Fermati su quello scalino finché non torno, mi disse e continuò a camminare goffamente, tenendosi vicino al petto il braccio sinistro, avvolto nella federa. Per alcuni lunghi minuti mi fermai sullo scalino, stringendo gli occhi, concentrandomi per svegliarmi. Poi mi prese il panico e corsi per le scale scivolose fino a raggiungere la strada. La luce pallida di un lampione mi trasmise una piccola speranza, ma Mamma sotto l’aura di quella luce non rappresentava alcun sollievo. Era a terra, zuppa di sudore. I piccoli rumori che faceva erano spaventosi, sebbene meno forti di prima. Cercò di sorridermi ma lo sforzo le fece tremare il volto.
Presi in mano la situazione. Quando finalmente passò un’auto agitai le braccia e si fermò. Non mi ricordo il guidatore, solo le luci della sua macchina, e quella sensazione di avere la mia prima interazione adulta e allo stesso tempo di registrarla come tale, nonostante tutto il resto fosse così intenso, così urgente. Abbracciai Mamma per tutto il tragitto e presi tra le mani la sua falsa fasciatura, perché mi vergognavo a lasciare il sedile posteriore del nostro salvatore macchiato di sangue.
Il paesaggio qui è cambiato molto da allora. La strada è illuminata e fiancheggiata da case quasi fino all’ingresso in città. Ma c’è una curva in particolare in cui ogni volta mi torna il ricordo – nemmeno un ricordo, in realtà, ma una sensazione, un formicolio scomodo sulla nuca – di quella notte e di quell’istante in cui per la prima volta mi dissi: morirà.
Mamma non morì. L’uomo ci portò alla clinica della città e gente che ho dimenticato si prese cura di noi. Però perse buona parte della mano sinistra. E al suo posto, insieme alla cicatrice crebbe in lei una malsana determinazione. Entrò in guerra. Io la vedevo sapendomi incapace di scegliere da che parte stare. Mamma portava avanti la sua guerra personale contro La Terra e io ho servito in entrambi i fronti per molti anni. Uno a uno, i suoi sogni di una vita in comunione con la natura iniziarono a sfumare. Lavorava nei campi, sotto il sole, fino a rimanere priva di forze. Di sera cuceva alla luce di una lampada a olio e non si fermava finché non aveva finito, non importava quanto fosse pessima nel cucito, o quante volte l’ago le attraversava quello che rimaneva delle dita della mano sinistra, con cui reggeva la stoffa. Aveva il pollice e l’indice e la metà del medio e un anno dopo che la volpe le staccò le altre dita, Mamma si era già abituata a fare tutto con quelle tre. Era lei contro La Terra; e La Terra aveva tutta l’aria di vincere. Ci furono inondazioni e periodi di siccità; virus, gelate, formiche. Ma lei si fece forza. Passarono gli anni e diventò così forte che per un po’ credemmo avrebbe vinto. Comprammo una capra e un gallo e sei galline. Mamma faceva pane e formaggio e mi insegnava a leggere e scrivere. I nostri prodotti si vendevano sempre meglio al mercato e ci procurammo elettricità, acqua corrente, solidi guadagni. Ma perfino durante quei periodi di calma dopo i quali iniziai ad andare ogni giorno a piedi a scuola, e a tornare nel pomeriggio da una madre pacifica, che scriveva poesia e faceva marmellata oltre a tutto il resto – perfino allora la maledizione continuava ad agire in modo sempre più sottile e diabolico.
I nostri limoni erano bellissimi fuori ma secchi dentro, non importava quante cure gli dedicassimo; si avvinghiavano al proprio succo, lo assorbevano, lo mandavano Dio solo sa dove pur di non condividerlo con noi. Il limone era sempre stato il suo frutto preferito, per questo Mamma non vi rinunciò mai, anche dopo che altri frutti risultarono perfetti per la nostra terra. Un limone al giorno, diceva sempre durante le prime lezioni di vita rurale, ti fa venire i capelli lucidi, i denti bianchi. Ma dovevamo pagarli e questo la mandava su tutte le furie.
Quando ero all’ultimo anno delle elementari, comprammo un paio di conigli con l’idea che si sarebbero riprodotti come pazzi. Eppure ebbero solo due piccoli e la femmina morì. Mentre Mamma la prendeva sul ridere, con una di quelle risate che la portavano direttamente alle lacrime, io presi in mano il coniglio morto e pensai di nuovo alla maledizione. Credevo che fosse finita, che fossimo in salvo, che La Terra ci avesse perdonato. Ma no. La volpe, i limoni e, più tardi, il gallo, facevano tutti parte di un gioco che la Terra giocava con noi. Seppellii il coniglietto e giurai di non dimenticare mai più quel gioco inquietante.
Un inverno a Mamma venne voglia di riprendere a ballare. Aveva fatto danza da piccola, e fino a prima del trasferimento, e anche io ballavo da piccolina, prima di lasciare la città. All’improvviso riprendere a ballare diventò una questione fondamentale, come se una volta soddisfatti i bisogni di base si fosse risvegliata la nostra vena artistica, come insegnano che è logico a scuola, nel parlare degli inizi della vita sedentaria. Allora avevamo già l’elettricità e un furgoncino e una casa comoda, ma la nostra vita era ancora fondamentalmente rurale. Mamma non è una di quelle persone che rinunciano facilmente ai propri desideri, e quando arrivò la primavera annunciò che avremmo costruito uno studio di danza. L’idea mi emozionò. Avrò avuto undici o dodici anni, mi ero già trasformata nell’animale che sono oggi, ma qualche volta, soprattutto di domenica, un nodo di nostalgia mi opprimeva il petto e qualcosa che era insieme fuori e dentro di me lo stringeva con forza, spremendomi. In quei momenti sentivo la mancanza di una vita che ricordavo appena, la vita in potenza, quella che avevamo lasciato andare e tutte le cose con cui avevamo pagato il prezzo di quella scelta. C’era la mano di Mamma, certo, e un tempo in cui lei portava bei vestiti e teneva lezioni all’università. Ma c’erano anche lo zoo, i gelati e sì, le lezioni di danza, perché no. Di sicuro i bambini della mia età che vivevano in città non impazzivano di tristezza la domenica perché avevano cinema e fratelli e strade pavimentate su cui far correre le loro biciclette.
La prospettiva di uno spazio vuoto, dedicato interamente alla danza, divenne qualcosa di sacro. Io lo disegnavo. Mamma ne calcolava i costi. Ingaggiammo due operai che scavarono le fondamenta e poi si misero a costruire. Lavoravano ogni mattina e poco a poco tirarono su lo studio. Il fabbro del paese ci fabbricò due lunghe sbarre. Ogni sabato, dopo aver venduto i nostri prodotti, compravamo mattoni, cemento e tondini in ferro. Mamma mi lasciava viaggiare sul cassone del furgoncino, tra i sacchi di materiali. Poi coprimmo il pavimento con assi di legno. Le sbarre vennero fissate a due pareti una di fronte all’altra che, per il resto, furono interamente coperte di specchi. Dipingemmo di blu una terza parete che aveva una porta di legno. La quarta parete mancava. Avevamo investito tutti i soldi rimasti nel parquet e Mamma non voleva chiudere lo studio con un tramezzo, perché desiderava una parete di vetro. Voleva ballare con una bella vista. Gli operai smisero di venire e noi iniziammo a ballare. Sapevamo che sarebbe stato necessario installare la vetrata prima che iniziassero le piogge, ma non sarebbero certo stati due scarafaggi a fermarci. Dopotutto, eravamo amanti della natura, donne rurali.
In un mercato delle pulci comprammo un giradischi e con una modesta cerimonia privata lo sistemammo in un angolo dello studio. La nostra danza divenne un rito. Mamma sceglieva un disco dalla piccola collezione che teneva dentro casa e poi andavamo insieme allo studio. Di solito entravamo dal buco della parete mancante, credo che non abbiamo mai usato la porta. Mamma metteva il disco e ballavamo senza sosta finché il piccolo ago non terminava il suo percorso sul lago di vinile. Un’armonia speciale riempiva quelle ore.
Una sera, quando avrò avuto tredici anni, Mamma e io tornammo dopo un pranzo nella tenuta di alcuni amici. Arrivammo a casa tutte contente, con una cesto di pane casereccio e limoni. (I nostri amici ci regalavano sempre dei limoni perché sapevano che i nostri erano maledetti.) Mentre stavo parcheggiando il furgoncino, che ormai guidavo da un anno, Mamma mi chiese Would you care for some dancing?, con il suo accento inglese, che usava solo per questa domanda e un’altra: Fancy some tea, my dear?
Why, darling, I would love some!, avevo iniziato a rispondere io, molto prima di imparare l’inglese.
Sistemai pane e limoni nella dispensa. Mamma scelse un disco. Ci cambiammo. Stava facendo sera e le zanzare ci attaccarono nel mezzo chilometro che separa la casa dallo studio. Ballando li spaventammo, assicurò Mamma. Poi però una delle due accese la luce e così terminò la splendida vita che con tanto sforzo ci eravamo costruiti.
Il nostro gallo, il nostro bellissimo gallo, giaceva morto, o sul punto di morire, sul parquet. Gli occhi chiusi. Gli speroni lacerati. Una carne rosa, brillante, si intravedeva tra le ferite scorticate sulle zampe. Il sangue nello specchio era diventato marrone. Anche il legno era macchiato, e un forte odore impregnava l’aria. Il gallo era uscito dal pollaio, aveva raggiunto lo studio e scoperto la sua immagine nello specchio. Credendo che si trattasse di un altro gallo, doveva averla attaccata. Più e più volte. La constatazione ci coprì come un manto: quell’imbecille si era battuto a morte contro il suo riflesso. Mamma impallidì così tanto che mi fece pensare al pallore di cui si parla nei libri, il pallore verdognolo dei malati letterari. Si era anche bloccata sul posto, quindi io camminai verso l’animale e toccò a me dichiarare: è freddo. E, poiché mi resi conto che la scena aveva messo in moto degli ingranaggi molto profondi nel cervello di Mamma, aggiunsi: Non possiamo farci niente, succede. Ma non ne eravamo molto convinte e gli ingranaggi formarono il loro incastro fatale.
Mamma si decise ad andare a comprare il necessario per la vetrata. Fece una valigia, avvisò in città che avrebbe avuto bisogno di un posto dove stare e se ne andò. Da allora, non l’ho più vista. Mi scrive, ovviamente, ma non è mai tornata, non viene mai a farmi visita. Io ormai non sono nemmeno più arrabbiata. Mi ci sono abituata, e tra l’altro credo che fosse ormai da tempo che La Terra desiderava che Mamma se ne andasse. La Terra l’aveva chiamata a sé, quando io avevo sette anni, ma in realtà era me che voleva, lei era solo un male necessario. In ogni caso dà la colpa alla Terra e mente a me, dice che sta risparmiando tutti i soldi che ricava dalle lezioni che tiene. Dice che «è successo» appena è arrivata in città, e lo dice come se non avesse fatto di tutto per ottenerlo, come se non fossimo degli accattoni, la crosta urbana. Dice che dovrei andare a trovarla e a volte credo anch’io che dovrei farlo. Ma poi arriva il momento del raccolto e non posso abbandonare la mia terra e così gli anni che abbiamo passato senza vederci si ammucchiano. Nelle lettere, anch’io mento, le dico che ogni giorno vado a scuola e che quest’anno la finirò senz’altro. Ma ovviamente è tantissimo che non vado a scuola. Non posso trascurare il mais, le pesche, le galline perché nei giorni di mercato è molto più importante avere un buon prodotto, un prodotto frasco. Che i formaggi cigolino, e i biscotti scricchiolino. C’è molta concorrenza e in questa casa c’è sempre bisogno di manutenzione. Per non parlare dello studio, al quale ancora manca una parete, quindi è molto difficile mantenerlo in ordine e proteggerlo da inondazioni e animali. Il lavoro vale la pena, ovviamente, è un posto così incredibilmente bello. Me ne prendo cura e non è rimasto nulla di quella scena immonda in cui quell’idiota di un gallo l’aveva trasformato per una notte. A volte mi piacerebbe che Mamma potesse vederlo. What a lovely sight, direbbe in inglese, e avrebbe la bocca piena di verità.
Negli angoli di entrambi gli specchi, delle particolari macchie bianchicce ora circondano il loro perpetuo, reciproco riflesso. I rampicanti hanno raggiunto le sbarre e il contrasto del verde e l’ossido. E anche del blu sconquassato della parete irregolare. Il giradischi funziona ancora. Non ballo mai ma a volte metto della musica e lo studio è ancora, ancor più di prima, un luogo sacro. Al centro ho posizionato un piccolo altare alla Terra, che è la mia alma mater. E poiché a differenza delle università o delle chiese, La Terra non perdona a coloro che falliscono, mi prendo cura dell’altare con diligenza. Cambio i fiori ogni tre giorni e accendo le candele ogni mattina. E una volta alla settimana, prima che l’aria letale della domenica mi colpisca al petto e mi rubi l’anima, prima di quell’ora fatale in cui facilmente dimentico chi sono e perché sono qui, mi occupo della brocca dell’altare. Ogni sabato ci verso un litro di formalina. Sembra uno spreco ma in ogni caso lo faccio perché so che perché la maledizione si consideri nutrita, è vitale mantenere fresche le mie dita nella brocca.
© Laia Jufresa, 2014. Tutti i diritti riservati.
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