Alan Pauls, l’autore di «Storia dei capelli», in Italia si è conquistato una certa fama come autore di romanzi (ricordiamo «Il passato» e «Storia del pianto»), ma pochi forse conoscono la sua produzione saggistica, in cui spiccano almento due perle: «Manuel Puig. La traición de Rita Hayworth», e «El factor Borges».
Ai lettori del blog presentiamo oggi un suo intervento sulla letteratura di un altro «autore di Sur», César Aira, pubblicato nel 2004 in «Radar libros», supplemento culturale di Página/12.
di Alan Pauls
traduzione di Carmen Mangiola
Ho avuto un flashback, come quando uno si ricorda un sogno: sono giovane, davvero molto giovane e devo incontrare Aira. Durante il tragitto verso Flores, si affaccia con forza nella mia mente un vecchio interrogativo: gli scrittori hanno una casa? Con “casa”, intendo dire qualcosa di diverso dalla scrivania alla quale scrivono, dalla sedia su cui siedono, dal taccuino sul quale si logorano, dalla macchina da scrivere, ecc. La domanda mi lascia così perplesso che non mi viene neppure in mente di prendermi come esempio per rispondere. Forse sono troppo giovane per essere uno scrittore, anche se credo di avere già pubblicato uno o due romanzi. L’unica cosa certa, in ogni caso, è che, alla mia età, sono incompatibile con qualunque forma di esemplarità. (Nonostante siano passati tanti anni, sono ancora affetto dalla stessa sindrome: mi basta trovarmi in compagnia di uno scrittore, non importa se famoso o no, se stimato o ignorato, per sentire immediatamente che io non lo sono.) O forse, semplicemente, sono frastornato dal proliferare di gelaterie, boutique e gallerie commerciali in avenida Rivadavia. Ho solo una preoccupazione, costante, la paura infantile per eccellenza: la paura di andare troppo in là. (Avrei voluto chiederlo ad Aira stesso, ma come un cretino ho perso l’occasione di farlo: perché i bambini, moderni come sono, continuano a vivere assoggettati al concetto di linearità del tempo e impiegano molto ad assimilare l’idea di reversibilità?) Arrivo, mi fanno entrare. Quello che vedo mi lascia interdetto: nemmeno un libro e, colmo dei colmi, passiamo per la cucina. (Sono davvero così giovane, così pre-Puig, da non concepire la cucina come spazio letterario!) Eh, penso. Dove mi portano? L’intervista si svolge in una stanzetta deludente, incollata alla cucina, del tipo che, in passato, uno come mio nonno, avrebbe chiamato “la stanza degli attrezzi”. Ancora oggi, quando ci penso, mi sembra di confondere la scrivania di Aira con uno di quei grandi tavoli da carpentiere che danno un tocco di ruvidezza ai salotti più chic… L’intervista è sul cinema. Faccio un programma radiofonico sull’argomento e, secondo me, Aira ha molto da dire al riguardo.
Stiamo parlando e, mentre mi sforzo di abituarmi ai tratti tipici del suo stile (scarsa concentrazione, evanescenza, sguardo rivolto sempre altrove, l’impressione che tutto gli appaia insignificante, frivolo o mal espresso, eppure inspiegabilmente interessante), improvvisamente, succede. Aira dice (cito a memoria): «Il cinema è la sottrazione di tutte le arti». Molto bene, penso, un concetto su cui riflettere. Ma non posso farlo subito, la conversazione deve andare avanti, non mi resta che inventare nuove domande, altrimenti chi le fa? Così, faccio finta di niente e giro attorno alla questione in modo da chiacchierare ancora per un po’, fino a quando non ce la faccio più e gli dico, citando a memoria: «‘Il cinema è la sottrazione di tutte le arti’. Questo concetto mi ha molto colpito, potrebbe approfondirlo un po’?». Silenzio. Il ronzio del frigorifero giunge così nitido che sembra di essere in cucina. La risposta di Aira suona più come un avvertimento che come una scusa: «Ah… È che io, quando voglio pensare, non penso. E a volte, invece, mi capita di pensare.»
Non ci fu nulla da fare. Aira non approfondì. Terminata l’intervista, il suo avvertimento, che ingenuamente avevo scambiato per uno sfoggio di pacata isteria buddista, si era tramutato in una specie di rifiuto irremovibile, così intransigente, ma al tempo stesso cortese, come quello che Melville fa mettere in pratica a Bartleby. O forse l’isteria, nel novanta per cento dei casi, ma molto di più se a esserne affetto è uno scrittore, è isterica: arriva e passa, colpisce e si ritrae. Forse l’isteria di Aira, per qualche ragione, stranezza o forza misteriosa, era comprensibile. A pensarci bene, c’è un modello più lontano da Aira di quello del rendere comprensibile? Approfondire è proprio questo: rendere comprensibile e, Aira, come fu chiaro in quella intervista, non approfondiva. No, non è che odiasse approfondire, o che tanto meno si rifiutasse, in senso stretto, di farlo. Piuttosto, all’avversione o al rifiuto, politiche dirette, troppo debitrici dell’imperativo esplicativo, Aira opponeva una strategia più sottile, che sembrava aver appreso da un antico manuale di belligeranza orientale: l’arte del declinare. “Il cinema è la sottrazione di tutte le arti”. Un aforisma che Aira, come uno che scansa una seconda tazza di tè, una focaccina, uno scrittore troppo stentoreo, si rifiutava di approfondire. La differenza non mi sembra innocua ed è, presumo, essenzialmente narrativa. Il rifiuto (l’avversione) è un comportamento, una bravata, un limite, qualcosa che nasce e muore nel momento stesso in cui vede la luce. Il rifiuto esclude qualunque mutamento. Lungi dall’esaurirsi in se stesso, il declinare, al contrario, continua ad agire anche dopo, a lavorare, a declinarsi nelle azioni, continuamente. Da qui, quel pensiero, quello strano mantra che ripetevo, senza poter smettere, in silenzio, nella “stanza degli attrezzi”, mentre Aira parlava di qualcos’altro: Non vuole approfondire, non lo fa, il cretino non ci pensa neanche. Il declinare, come l’arte della narrazione, è pura posterità. Rifiutandosi di approfondire, Aira, in qualche modo, posticipava il significato del suo aforisma, lo trasformava in una promessa, una minaccia, una minuscola bomba a orologeria destinata a esplodere poco dopo in mille pezzi, liberando il suo polline segreto in dosi omeopatiche.
Ci sarebbe molto da dire su questi modi oracolari, una miscela di riservatezza, disorientamento e sagacia, con i quali Aira è approdato, sconvolgendolo fino al malumore, nel mondo della letteratura argentina, così incline a dipingere i suoi scrittori come paladini di caparbietà, impegno e lavoro. E Aira ha tutte le qualità per essere un guru, un guru della setta eterodossa di Duchamp, di John Cage, di Macedonio Fernández: il gusto per il paradosso, l’ironia, il nonsense; la difesa del concetto di verità inintenzionale; il piacere per l’istantaneo; la credenza nel caso; il culto simultaneo del segreto e dei meccanismi del segreto. Ci sarebbe molto da dire, senza dubbio, sul modo in cui Aira ha iniettato, in una letteratura così insopportabilmente laica come quella argentina, non oso dire un virus religioso, ma quanto meno un corpo estraneo, totalmente sconosciuto, quello di un esoterismo profano e, al tempo stesso, innocente e perverso, irrorato in ugual misura di buddismo zen, fanciullezza, surrealismo, misticismo, scienza e catatonia. Potremmo chiamare questo corpo estraneo in tanti modi, tutti appropriati, tuttavia, propongo di chiamarlo mistero. (Non dico tanto per dire. Leggo i libri di Aira: per esempio, il vorticoso Los misterios de Rosario, che non sono quelli del santo rosario, mi da ragione.)
Sì. Quel pomeriggio, di ritorno da Flores, senza più il terrore di smarrirmi lungo l’avenida Rivadavia e di andare oltre, ho condiviso il pensiero di tanti: Aira “faceva il misterioso”. Tuttavia, la cosa interessante in lui è che la sua teatralità, descritta dai suoi detrattori come mera finzione, non maschera né occulta niente, in ogni caso, niente di diverso da ciò che esprime: la logica del mistero. Sicuramente, Aira mette in scena la sua rappresentazione e anche in modo piuttosto eccentrico. Tuttavia, scambiarla per ipocrisia, come è solita fare la letteratura argentina nei confronti degli scrittori più istrionici, sarebbe letteralmente prendere una cantonata. In questo senso, chiedersi se “dietro” alla proverbiale dissipazione mentale di Aira non si nasconda una maniacale volontà di calcolo, è molto meno pertinente e, senz’altro, molto più anacronistico, che chiedersi, com’è già successo più volte, se Aira, “in fondo”, sia un genio o un idiota. A ogni modo, mettiamola così: se Aira “fa il misterioso”, e in effetti è così, non lo fa perché ha qualcosa da nascondere, ma perché ciò che funziona nella sua letteratura (e ciò che si muove e fa muovere la sua letteratura) è la forza del mistero. In fin dei conti, che cosa fa Aira quando declina l’invito a decifrare la sua frase misteriosa? Rinuncia a guardare indietro, a ritornare, a rileggersi. Rinuncia a “trasformare il processo in risultato”, come lui stesso scrive a proposito della scrittura automatica di Alejandra Pizarnik. E quando Aira scrive su un altro autore, che sia Pizarnik, Copi o Edward Lear, non fa altro che aprire la sua stessa “stanza degli attrezzi”. Questa rinuncia, che, forse, è l’unico vincolo estetico politico degli anni Settanta al quale Aira, che spesso rievoca il suo lontanissimo radicalismo giovanile, sia rimasto fedele, è anche il fulcro della sua singolare relazione con la storia. Come Orfeo, Aira sceglie di non voltarsi indietro e tornare; preferisce l’oblio, il clamore di un oblio volontario, che fa apparire un’inezia quello della memoria involontaria, con il quale la storia è letteralmente esorcizzata, cioè omessa e invocata al tempo stesso; omessa come pentimento, invocata come una sorta di presente spettrale, documentato da incidenti che qualunque revisione più o meno accurata non avrebbe esitato a rimuovere.
Così, l’Aira che rifiuta di correggersi, che rinuncia a ricordare, a tornare sui suoi passi, a riavvolgere il nastro, e sceglie sempre la fuga in avanti (avanzare, avanzare: un’altra frase, un altro libro), sconvolge pericolosamente le due alternative disponibili nell’immaginario più o meno canonico dello scrittore argentino chiamato a confrontarsi con la sua stessa arte: la spontaneità (il mito dello scrittore che scrive “senza sapere ciò che fa”, attento solo alla dimensione tematica, alle problematiche, ai contenuti e, nel migliore dei casi, alla “tecnica”) e il controllo (il mito dello scrittore che, oltre a essere cosciente di tutti i suoi segreti, si concede il lusso di rivelarli argomentando). Aira, dal canto suo, non sa né smette di sapere; al voler sapere (così decisivo sia per lo scrittore spontaneo sia per quello onnipotente), preferisce la strategia del bambino che chiude gli occhi e, scuotendo il capo, decide di no, che non vuole sapere, ma lo decide non per dichiarare qual è il valore che attribuisce al riflettere su ciò che fa, né per privilegiare qualcos’altro, la “narrazione”, “la trama”, “il tema”, “il lettore”, o quello che volete, ma piuttosto affinché, ciò che fa, la sua arte, diventi un luogo dell’apparire, il teatro di un pensiero. (Ecco perché il dilemma è così pertinente: genio o idiota? I geni, come gli idioti, sono irresponsabili; non “producono” esattamente ciò che fanno, piuttosto lo rendono possibile, lo fanno accadere, lo autorizzano.)
«Di ciò che scriviamo oggi, dobbiamo rendere conto domani. Per farlo, non serve a nulla tornare sui propri passi e correggersi, quanto piuttosto andare avanti e dare un senso a ciò che non ne aveva, man mano che si avanza.» Così Aira definisce il Procedimento. Perché Aira il misterioso, l’esoterico, quello che rinuncia a tornare indietro, è al contempo il custode della formula, l’inventore della ricetta segreta, il maestro dei manuali di istruzione. Il meccanismo: questo è tutto ciò che sembra interessarlo quando si mette a leggere, ciò che lo tiene sveglio, l’unica cosa su cui focalizza la sua attenzione quando scrive su qualcun altro. Si direbbe che tutto il resto, ciò che uno scrittore può offrire, sia una scusa, una via di accesso o un ostacolo per arrivare a quella specie di ultima ratio che non è più letteraria, quanto piuttosto “artistica”: il Procedimento. (Non è un caso che quando legge, Aira prediliga spesso scrittori che fanno anche altre cose: disegnatori, pittori, costruttori di oggetti stravaganti, come se la compresenza di una forma d’arte non letteraria fosse il requisito fondamentale dell’effetto strettamente letterario. Non è neanche un caso, ma anzi lo considero uno dei tratti distintivi di Aira nel panorama della letteratura argentina contemporanea, che molte delle categorie con le quali ci invita a considerare le sue opere non provengano dalla letteratura, ma dalle arti plastiche: dalla corrente più duchampiana, come la tecnica del ready-made o l’utopia di una letteratura concettuale; e persino dai concetti di singolarità nuda e di catastrofe delle scienze naturali.)
«A volte, mi succede di pensare» afferma Aira, nel mio flashback. Ostentazione? Civetteria? Meglio ancora: avanguardismo. Se solo il termine, con questa desinenza drastica, potesse trattenere, per un momento, qualcosa della forza inintenzionale con la quale Aira spesso si sforza di rivitalizzare gesti artistici che a priori avevano una loro valenza soltanto grazie al lavoro, alla volontà, all’impegno, ecc. Roussel + Duchamp, per capirci. Ma anche Warhol, per riportare una dimensione di fanciullezza che forse ci è più familiare, anche se più irritante. (Questa è un’altra prerogativa di Aira: irritare. Non conosco nessun altro scrittore che, in così poco tempo, diciamo circa vent’anni, sia riuscito a recuperare e riproporre molti dei difetti e delle debolezze che costellano la letteratura argentina del Novecento: stupidità, ingenuità, esotismo, facilità, quantità, puerilità, frivolezza…). Ma l’avanguardismo di Aira, come i suoi misteri, è sostanzialmente orfano: non ha dogmi che lo puntellino né autorità che lo difendano, né sembra costringere a qualche forma di credenza. Il meccanismo è ciò che rimane della macchina avanguardista una volta esplosa: molle, cerniere, pezzi di ricambio. Tutte parti che la catastrofe ha trasformato di colpo in nuovi strumenti di cui i bambini s’impossessano, con gioia afflitta, non per ricostruire il giocattolo andato in mille pezzi (non per tornare indietro), ma per vedere a che cos’altro possono servire.
Aira dice di non correggere. Ci sarà da fidarsi? Piuttosto, perché non correggerlo? Aira non corregge prima di pubblicare, corregge mentre va in stampa. O meglio: non è lui che corregge; è la sua letteratura a farlo. «Venerdì,» si legge in Diario de la hepatitis, «l’ondulazione della realtà. No, non va bene così. Si deve dire: l’ondulazione. La realtà è aggettivo.» E ci sono venerdì in cui la cosa peggiora. «Venerdì,» dice, «cammino in una direzione… in una, non in un’altra… Per la rue de Rivoli, sotto la pioggia… No, non la pioggia in sé… Piuttosto, quando inizia; intendo dire, inizia a piovere… Non inizia, ma smette. Inizia e smette al tempo stesso. Smette e inizia. È un’indecisione in cui piove, mi sto bagnando! E per di più: smarrito. No, non smarrito perché è la rue de Rivoli…» Aira, scrittore di meccanismi, trova l’antidoto contro tutto ciò che minaccia di avvicinarlo a una “letteratura meccanica”: la destabilizzazione. Da quanto tempo la letteratura argentina non si concedeva un lusso simile? La destabilizzazione, grande forza gombrowicziana, è il modo specifico, tonale, in cui la letteratura di Aira “risolve” il problema della correzione. Elimina dalla correzione ciò che lo infastidisce, l’effetto di cancellazione, l’assenza di tracce, e, ancora più importante, comporta un cambiamento o impone un’idea di cambiamento che non prevede la sostituzione, (del vecchio con il nuovo, del cattivo con il buono, dell’imperfetto con il migliorato), ma una specie di vertigine da addizione, un delirio della somma. Cambiamento e crudezza, è la legge dell’action writing: di più, di più, sempre di più. E che il vecchio rimanga, rimanga presente, non cessi mai di rimanere…
È la stessa logica che regge la proliferazione mostruosa, quasi alcolica, delle opere di Aira. Ancora un libro, e un altro ancora, e poi un altro, e giuro che questo è l’ultimo, ma no, l’ultimo è questo… Un libro con questa casa editrice internazionale, un altro in Messico, un altro per i cartoneros, questo per gli spagnoli, quello per il Cile… Libri che si moltiplicano come conigli, firmati da uno scrittore del quale si dice, forse per le ragioni più disparate, che è “unico”. (In un celebre articolo, Lévi-Strauss affermò che la più grande domanda dell’infanzia è: come nasce uno da due? Quella di Aira, scrittore antiedipico, è: come nascono molti da uno? È, ancora una volta, il grande principio del mistero: ciò che – avvenimento, miracolo, nonsense originale – è meglio lasciare nell’ombra (“quando voglio pensare, non penso”) affinché possa esserci narrazione, affinché i racconti si moltiplichino, i libri inondino il mondo, il sistema editoriale collassi… E ancora una volta, il dilemma: sono brutti o belli i libri di Aira? Ma no, ancora una volta, no: il procedimento non ha nulla a che vedere con la qualità. Non la produce né smette di produrla: semplicemente appartiene a un altro mondo. Il meccanismo, direbbe Aira, è creazionista, non produttivo. L’unicità non si oppone alla vertigine della serie: è, al contrario, la condizione che la rende possibile. In questo senso, sì, i libri di Aira non sono né belli né brutti: sono unici, unici nel loro genere, che è il genere dei libri di Aira. Come è unico l’atto artistico di Duchamp, di Cage, di Puig o persino, in tal senso, di Borges, come sono uniche solo le cose che impongono la loro legge, che inventano la loro posterità e condannano il mondo a ripeterle.
——– Intervento letto in occasione del simposio internazionale César Aira: un episodio nella letteratura argentina di fine secolo, Parigi-Grenoble, maggio 2004 e pubblicato in «Radar libros» il 13 giugno 2004.
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