Questo articolo è uscito originariamente su Rivista temporales e viene riprodotto per gentile concessione dell’autore.
di Carlos Léon
traduzione di Pier Quarto
José María Arguedas (Perú 1911-1969) ha oscillato varie volte tra la vita e la morte. Una delle brevi routine a cui si era abituato durante la sua ultima settimana di vita, fu quella di portare una pistola calibro .22 nella sua valigetta. Le lettere, i saluti e gli appuntamenti saltati sono tracce eloquenti del suo suicidio. In questa crónica Carlos León ricostruisce gli ultimi giorni dell’autore di Tutte le stirpi, fino alla sua morte in uno dei bagni dell’Universidad Agraria del Perú.
LUNEDÌ 24 NOVEMBRE
José María Arguedas voleva lasciare tutto in ordine quella settimana, così non avrebbe incomodato nessuno con questo compito. Cominciò andando allo studio del suo amico avvocato José Ortiz Reyes, in centro a Lima. Arguedas gli chiese di conservare i documenti che aveva portato. Tra questi c’era una busta chiusa indirizzata a Celia Bustamante, la sua ex moglie. Ortiz, che conosceva Arguedas da quando erano stati imprigionati insieme nel carcere El Sexto, gli domandò perché.
«Può succedermi qualsiasi cosa», gli rispose.
Mentre chiacchieravano arrivò Alejandro Ortiz Rescaniere, figlio di José Ortiz, anche lui amico di Arguedas e antropologo. José Ortiz fece segno a suo figlio di aspettare fuori. Uscendo, Arguedas disse a Ortiz figlio che era contento per la raccolta di miti andini che entrambi avrebbero cominciato di lì a poco. Dopo, aggiunse:
«Pensa che sono così stupido che ho persino pensato di suicidarmi».
Alejandro Ortiz non diede molto peso alla battuta, annuì solamente. Suo padre invece rispose ad Arguedas accompagnandolo all’ascensore. Gli ricordò che pensava o parlava sempre della sua morte, ma avrebbe vissuto sicuramente più di ottanta anni, come Voltaire.
«Ah, però Voltaire non aveva idee suicide!», gli disse Arguedas mentre entrava in ascensore.
Arguedas voleva lasciare tutto in ordine. Mesi prima era andato a casa di Dora Varona, su sua richiesta. Il marito, lo scrittore Ciro Alegría, era morto da poco e aveva lasciato diverse scatole con archivi, fogli sciolti e manoscritti incompiuti. Arguedas capì che Varona stava chiedendo il suo aiuto per ordinarli e per terminare alcuni degli scritti ad uno stadio più avanzato. In seguito, Arguedas raccontò ad Alfredo Pita di questo incontro e disse senza solennità che quando uno muore non si deve dimenticare dei documenti. Doveva essere chiaro a chi li lasciava.
«Bisogna fare attenzione anche a morire», gli disse.
MARTEDÌ 25 NOVEMBRE
La casa della cantante Racila Ramírez aveva una stanza riservata per Arguedas, che amava la siesta. Il pomeriggio di martedì andò a casa sua a Jesús María e disse che aveva inviato una lettera al detenuto guerrigliero Hugo Blanco, in quechua e in castigliano. Gli scriveva «felice nel mezzo della grande ombra dei miei mortali dolori».
Ramírez gli domandò perché avesse scritto a Blanco. Arguedas rispose che lui aveva fatto da interprete alle aspirazioni dei contadini indios, aveva parlato le loro lingue e agito secondo le loro usanze. «Non sei stato tu, tu stesso che eri a capo di questi contadini indios pulciosi del nostro pueblo?», gli scriveva nella sua lettera. In queste righe, lo scrittore si allontanò dalla sua solita modestia per vantarsi di avere aperto «un poco gli occhi» a Lima con i suoi romanzi.
Racila Ramírez si preoccupò e disse tutto a Alejandro Ortiz. Pensava che Arguedas portasse un revolver nella sua valigetta, che volesse suicidarsi. Alejandro Ortiz rispose che non c’era molto da fare. Arguedas sembrava più sereno di altre precedenti occasioni, e parlando con lui di queste preoccupazioni avrebbe ottenuto un sorriso come risposta.
Quella sera, intorno alle otto, Arguedas era nel suo figlio di ferro (come chiamava la sua Volkswagen 1962) per andare a prendere sua moglie Sybila Arredondo alla libreria dove lavorava, vicino a Piazza San Martín. Siccome la chiusura del negozio ritardava più del previsto, Sybila uscì per chiedere a Arguedas di attendere ancora un momento. Rientrando, Sybila si rivolse al ragazzo che lavorava con lei in libreria, Alfredo Pita. Arguedas voleva parlargli.
Pita uscì e Arguedas gli chiese di salire sul suo scarafaggio. Pita immaginò che Arguedas volesse compagnia per andare in qualche posto, e invece no. Arguedas voleva parlare. Pita lo notò tranquillo, contento addirittura.
Arguedas gli chiese dei suoi studi e dei suo piani, e anche della sua ragazza, che lo scrittore chiamava Bambola. Insisteva che si sforzasse di più. Gli ricordò che aveva delle responsabilità con la sua famiglia, con i suoi genitori e con la città da cui veniva. E con Bambola.
«È importante avere una compagna nella vita», gli ricordò.
Arguedas insisteva ancora: lavorare duro, non dimenticare che doveva essere all’altezza di una fidanzata buona e bella come lei. Il giorno seguente, Pita partì per Chimbote con il suo amico Tulio Mora. Non era preoccupato. Il sabato mattina fu informato di tutto.
PRIMO TENTATIVO DI SUICIDIO, 1966
La prima volta che Arguedas tentò di suicidarsi, ingoiò trentasette pillole di Seconal, un barbiturico che deprime l’attività cerebrale e respiratoria. Era il 1966. Aveva trascorso una serata piacevole con Sybila, ma la mattina presto si alzò di soppiatto dal letto. Andò a trovare il suo amico Alfredo Torero a casa sua, alle due del mattino. Gli disse che non trovava un testo antico in quechua che tutt’e due stavano traducendo. Torero rispose che a casa non l’aveva. Arguedas propose di andare al Museo de Historia Nacional, di cui era direttore, dove sicuramente lo aveva lasciato.
«Non voglio andare solo perché soffrono», gli disse scherzando.
Una volta lì parlarono per più di un’ora di vari argomenti, compreso il suicidio. Arguedas commentò il caso di Alfred Métraux, un etnologo svizzero che si era tolto la vita con i sonniferi alcuni anni prima. Passate le tre di mattina, Arguedas lasciò Torero a casa sua.
Due ore dopo, Sybila Arredondo si presentò in casa di Torero insieme al critico letterario Alberto Escobar. Arguedas non era tornato a casa, ma aveva lasciato sul letto alcune lettere dove annunciava il suo suicidio. Torero rispose che era stato al Museo con Arguedas fino a poco prima. Dopo aver lasciato Torero a casa, Arguedas era ritornato nel suo ufficio con l’idea di uccidersi a forza di barbiturici. Lo trovarono lì, incosciente.
I crolli emotivi di Arguedas non erano una novità. Già negli anni Quaranta e Cinquanta aveva ricevuto trattamenti psichiatrici. Nel 1950, venuto a conoscenza dei suoi problemi, lo psichiatra Federico Sal y Rosas propose ad Arguedas una terapia con elettroshock. Il risultato fu deleterio. Anche Javier Mariátegui Chiappe – figlio del fondatore della sinistra peruviana José Carlos Mariátegui – era stato suo psichiatra e si era occupato delle sue nevrosi e dell’angoscia che lo divorava. In un solo momento Arguedas abbandonò la psichiatria e cominciò a esplorare la psicoanalisi, rifugiandosi in Lola Hoffman, una psicanalista cilena seguace di Carl Gustav Jung.
Nonostante le cure ricevute, Arguedas finì per spararsi. Un anno dopo la sua morte, nel 1970, il suo caso fu materia di discussione in un convegno internazionale di psichiatria tenuto a Lima. Uno stimato psichiatra nordamericano si dedicò con particolare interesse al tema. Dopo aver esaminato i trascorsi e il modo in cui i suoi connazionali lo avevano trattato, non poté nascondere la sua sorpresa. Arguedas aveva bisogno di litio ma non gli fu mai prescritto.
«Perché non gli avete dato del litio? Come è potuto succedere?», chiese.
Di fatto, il litio non era ancora arrivato sul mercato peruviano.
MERCOLEDÌ 26 NOVEMBRE
Arguedas amava l’Universidad Agraria, che conservava ancora un ambiente campestre, come casa sua a Chaclacayo. Però era comunque Lima, quella città a cui Arguedas non era mai riuscito ad abituarsi. Lima, la città senza cielo, gli faceva rimpiangere la sua sierra. Quando l’anno precedente era stato a L’Avana, era raggiante e attivo. Ma quando giunse il momento di tornare a Lima, l’angoscia ricomparve.
Nell’Universidad Agraria, Arguedas riceveva un buon trattamento essendo accademico, e allo stesso tempo poteva conversare in quechua con i lavoratori dell’università. La maggior parte veniva da Ayacucho, e Arguedas amava scherzare con le lavoratrici facendo battute in quechua che molti alunni non capivano.
Il suo ufficio era nel dipartimento di Scienze Umane, una costruzione non molto grande di un solo piano, circondata da campi coltivati e ubicata a lato della fermata degli autobus dell’università. Per prendere l’autobus, gli alunni e il personale dovevano passare di fronte al dipartimento. Da lì si poteva vedere come l’Universidad Agraria si svuotava verso le cinque di pomeriggio, ora in cui partiva l’ultimo autobus.
Quando uscì dall’ufficio mercoledì pomeriggio, Arguedas fece una richiesta a Alfredo Torero, che lavorava nello stesso edificio: vedersi la mattina del giorno seguente, giovedì 27 novembre, per parlare. Torero si scusò. Aveva organizzato un incontro con una persona che parlava un dialetto quechua che lui non conosceva, e non credeva di arrivare in tempo. cambio Anziché giovedì, gli propose di vedersi la mattina di venerdì 28. Arguedas accettò.
«Dovrò spostare alcuni impegni», protestò Arguedas a Torero.
La sera, Arguedas andò a casa di Alejandro Ortiz. Gli chiese di utilizzare il suo nuovo registratore, senza specificare se per registrare qualcosa o solamente per provarlo. Alla fine non lo toccò neanche. Quello che voleva era conversare, ma Alejandro Ortiz era stanco e già a letto.
Quando Arguedas disse che se ne andava, Ortiz lo accompagnò alla porta. Prima di andarsene gli ricordò che voleva molto bene a sua madre. Arguedas fu molto insistente nel ricordargli il suo affetto, come se volesse che Ortiz non lo dimenticasse. Quello che più preoccupò Ortiz quella notte non fu il tono di addio di Arguedas, ma la sensazione di non essere stato abbastanza premuroso con lui.
GIOVEDÌ, 27 NOVEMBRE
Questo disagio portò il giorno seguente Alejandro Ortiz, insieme alla sua fidanzata Marie-France, alla libreria dove lavorava Sybila Arredondo. Sperava di incontrare Arguedas, presto o tardi. Non si sbagliò. Arrivò dopo pochi minuti e Sybila decise di pranzare tutti insieme.
Ortiz ricorda un Arguedas silenzioso durante il pranzo. Si animò solamente quando un bambino si avvicinò per lustrargli le scarpe. Ortiz disse che voleva comprare un disco di musica popolare e Arguedas si offrì per portarlo fino a La Parada, dove li comprava lui. Salutandosi, Ortiz si avvicinò al finestrino dell’auto. Arguedas finalmente gli parlò.
«È una brava donna» disse a Ortiz, riferendosi a Sybila Arredondo – non devi allontanarti da lei. Devi vederla sempre.
Fu l’ultima volta che parlò con Alejandro Ortiz. Poi accese l’auto e partì verso la Universidad Agraria.
Quel pomeriggio, Arguedas chiamò a casa di Lilly Caballero de Cueto. La signora che faceva le pulizie rispose al telefono e disse che la Caballero non c’era. Arguedas non riattaccò, ma si mise a parlare animatamente con lei in quechua. Prima di attaccare, chiese alla signora delle pulizie di non dimenticarlo, di ricordarsi di lui.
La notte, solo in casa, Arguedas registrò per diverse ore dei canti andini per Sybila. Forse gli venne in mente che si conobbero così nel 1962: lui cantava in quechua a pranzo a casa di Pablo Neruda, e Sybila lo ascoltava.
Però quella notte Sybila tornò stanca. Quando Arguedas le raccontò delle sue registrazioni, lei rispose che preferiva ascoltarle il giorno dopo, 28 novembre. Era veramente stanca e andava a dormire. Contrariato, Arguedas cancellò tutta la registrazione e con questo anche il suo intento di lasciare un saluto orale. Rimanevano, comunque, ancora alcune lettere da scrivere.
GIORNI FINALI
Arguedas organizzò vari appuntamenti per la cena di venerdì sera, con persone diverse e in luoghi differenti: Racila Ramírez, Máximo Damián Huamaní, sua sorella Nelly, tra gli altri.
Sapeva che non sarebbe andato a nessuno.
La notte del venerdì, Arguedas la passò nella stanza 13B dell’ Ospedale del Empleado, in coma. La pallottola che si sparò in testa aveva il foro d’entrata, non quello di uscita. Sabato mattina i medici operarono un primo intervento per estrarre la pallottola. Non ci riuscirono. Tre giorni dopo provarono nuovamente a togliergli il proiettile dalla testa. Fallirono un’altra volta. Il vice direttore dell’ospedale, il dottor Vargas Boto, aveva già dichiarato sabato che Arguedas si trovava in stato vegetativo.
La macchina che amplificava il suono dei suoi battiti funzionò fino alle sei di mattina di mercoledì 2 dicembre. La sua agonia durò cinque giorni. In Hombres y Dioses de Huarochirí, libro che Arguedas aveva tradotto anni prima, la gente resuscita nella stessa quantità di giorni.
VENERDÌ, 28 NOVEMBRE 1969
Dopo aver corretto le sue lettere d’addio e minuti prima di spararsi alla tempia, Arguedas fece un’ultima domanda a Alfredo Torero.
«Credi, Alfredo, che tra i giovani studenti ci sarà un giovane Mariátegui?»
Quel venerdì mattina, Arguedas e Torero si incontrarono alle otto di mattina all’Universidad Agraria. Non voleva essere interrotto. Fu una sua idea andare in auto nei dintorni del campus, verso luoghi vicini e tranquilli, con pause di attenzione nel suo studio. La conversazione girò senza asse, gioviale e tranquilla, però sulla congiuntura politica presente: Vietnam, Cuba, la guerriglia, il governo militare, Maggio del ’68, Che Guevara. Erano temi che catturavano Arguedas: quest’anno aveva scritto poesie in quechua sul Vietnam e su Cuba. A un certo punto, mentre parlavano del Perù, Torero propose ad Arguedas di visitare i luoghi della sua infanzia: Andahuaylas, Abancay, Lucanas. Lui disse di no. Sapeva che c’erano cambiamenti in atto e che non gli sarebbero piaciuti. Preferiva rimanere con l’immagine che aveva di quei posti da bambino.
Parlarono anche dei corsi che avrebbero tenuto nel semestre successivo. Ad Arguedas avevano assegnato sociologia urbana e questo non l’aveva soddisfatto: lui neanche sapeva cos’era una città, lo facevano solo perche conosceva Chimbote, ma neanche tanto bene come credevano loro. Torero suggerì di chiedere un altro corso, ma Arguedas respinse l’idea:
«Lasciamolo così!», disse, «comunque non lo farò».
Andarono a pranzo, sempre su suggerimento di Arguedas, in un ristorante nel mezzo di un campo di sperimentazione agricola confinante con l’università. I proprietari erano giapponesi, ma la cucina era creola.
Arguedas non poteva mangiare tutto quello che gli piaceva perché aveva disturbi gastrici. Il suo amato mais peruviano, per esempio, doveva mangiarlo senza foglie né peduncolo. Anche l’avocado non gli faceva bene. Ciononostante, quel giorno chiese come antipasto mezzo avocado. Lo mangiò con gusto, contento, come un demonio felice.
«Attento che non ti faccia male», gli disse Alfredo Torero.
«Oggi non mi fa male niente» gli rispose Arguedas. Infine mangiò un avocado intero.
Continuarono a parlare fino alle cinque di pomeriggio, ora in cui tornarono al dipartimento di Scienze Umane. Torero parcheggiò e Arguedas cominciò a parlare di Celia Bustamante, la sua ex moglie. La considerava gelosa e possessiva, con lei si era sentito in prigione e si rammaricava di non essersi liberato prima. Nell’ufficio, Arguedas consegnò tre buste a Torero. Erano ben chiuse, e una di loro pesava più delle altre. Mentre Torero camminava verso la sua auto per tornare a casa, si domandò se tra le buste che portava non ci fosse una lettera d’addio.
Nel frattempo, Arguedas lo raggiunse e gli chiese di ridargli un momento le buste. Tornarono al dipartimento. Ne aprì due, tolse le lettere che contenevano, ci scrisse sopra, le mise di nuovo nelle buste e gliele ridiede. Torero esitò per un attimo. Rimase in silenzio. Andare o no? Arguedas lo guardò e gli chiese: «Credi, Alfredo, che tra i giovani studenti ci sarà un nuovo Mariátegui?»
Torero disse che lo credeva. Sì.
«Grazie!», gli rispose Arguedas. Si fermò e lo abbracciò, energico.
Anche Ricardo Rivera, allora studente universitario, vide Arguedas quel pomeriggio. Era fermo sulla porta del dipartimento, alle cinque, con le mani incrociate all’altezza della pancia. Guardava accigliato gli autobus partire con gli alunni e i lavoratori dell’università, quasi stesse aspettando che fosse vuota. Passate le cinque, con Torero, Rivera e gli autobusdirezione Lima, Arguedas iniziò l’esecuzione della sua morte.
La giornata era finita, i lavoratori e gli alunni erano già in cammino verso le proprie case. Arguedas credeva che non ci fosse più nessuno da disturbare né che potesse interromperlo. Non si accorse che nel dipartimento c’era ancora una persona. Quando questa sentì lo sparo, si avvicinò al posto da cui proveniva il suono: il bagno. Provò ad aprire la porta ma non poteva, sembrava bloccata. Era il corpo dello stesso Arguedas, ancora in vita, caduto sulla porta dopo lo sparo.
Aveva deciso di riposare per sempre, scrisse a suo nipote Abel Carbajal Arguedas, figlio di sua sorella Nelly. La lettera era datata 28 novembre. Giorni prima, aveva inviato parte di quello che sarà il suo libro postumo La Volpe di sopra, e la volpe di sotto al suo amico cileno Pedro Lasta. Il frammento, titolato «Ultimo diario?», portava una breve dedica scritta a mano con una semplice addio.
Non mi dimenticate; ricordatemi con allegria
Fui felice
J.M.
José María Arguedas camminò verso il bagno. Teneva la pistola calibro 22 con la mano destra. La alzò alla sua tempia. Si guardò nello specchio. Premette il grilletto.
© Carlos Léon, 2016. Tutti i diritti riservati.
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