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George Saunders e Ben Marcus: una conversazione / 2

George Saunders BIGSUR, Interviste, Scrittura

Due scrittori a confronto sull’arte della short story (seconda parte). L’intervista è apparsa originariamente su Granta, che ringraziamo.

di George Saunders
traduzione di Assunta Martinese

[vai alla prima parte]

George Saunders:
L’antologia aspira a «presentare la gamma di ciò che gli scrittori di racconti sono stati in grado di fare negli ultimi dieci anni in America». Negli stessi dieci anni, in che modo hai visto evolversi i racconti dei tuoi studenti? Quali ti sembra che siano i loro scopi impliciti? Ossia, da quali taciti presupposti ti sembra che partano, nella loro scrittura? Dove siamo diretti? (Avrai notato che sto tornando alla mia domanda precedente sullo stato dell’arte del racconto in America. Quando l’intervistato sono io, mi arrendo sempre alla risposta: «Eh, è un mistero»; da intervistatore, scopro ora, sono un rompicoglioni riduzionista.)

Ben Marcus:
Va benissimo. Anch’io insisterei a chiederlo. Dovrei avere risposte migliori per questa domanda, e magari, se fossi più sveglio, avrei preso un po’ di appunti mentre leggevo, per poter fare uno schema delle tecniche e dei temi e degli stili. Trattandosi di studenti, come ci si aspetta, saltano agli occhi le influenze letterarie. C’è sempre una raccolta iconica, uno o due o tre scrittori che vengono venerati, e si può star certi che parte della popolazione degli studenti lavorerà all’ombra di quegli autori. Quindici anni fa era Jesus’ Son di Denis Johnson. È un libro potente, indimenticabile, e contiene un senso di inevitabilità e originalità. Sembra tanto semplice, ma naturalmente è una semplicità ingannevole. È divertente e spaventoso e pieno di vita. Lo leggi in due ore e poi ti senti come se ti avessero strappato la faccia. Gli studenti ne erano stregati, cercavano di inserirsi in quella scia, di scrivere racconti che avessero quell’atmosfera. Una cosa simile era successa con Cormac McCarthy. Ma in quel caso lo stile della prosa è talmente riconoscibile che anche se riesci a farne una versione eccellente al massimo puoi essere un ottimo imitatore di Bob Dylan, per dire. Più di recente sono stati altri scrittori a catturare, e a volte ad azzoppare, l’immaginazione degli studenti. Lydia Davis. Un certo George Saunders. Amy Hempel. In altre parole, scrittori che offrono il pacchetto completo: un mondo affascinante, una lingua riconoscibile, profondità e complessità ottenute grazie a una splendida tecnica. E poi, negli ultimi anni, hanno destato un certo interesse scrittori come Sheila Heti, Tao Lin e Ben Lerner. Ah, ho saltato la fase Sebald. C’è stata anche quella. E bisogna metterci dentro anche Knausgård.

In ogni caso, non so nemmeno perché ti sto facendo l’elenco dei progenitori, o a cosa serva. Da sempre gli scrittori, quelli giovani e anche quelli vecchi, si innamorano dello stile di qualcun altro, sperando di trovarci una scorciatoia. E chi lo sa, magari la scorciatoia esiste. Solo che io non l’ho trovata.

Mi rendo conto che non ho risposto alla parte più interessante della tua domanda: quello che cercano davvero gli studenti, cosa tentano di fare. La cosa che mi entusiasma di più è quando arrivano con una lunga serie di letture alle spalle, insieme alla voglia di cercare la propria strada, per quanto sia difficile da trovare. Da poco ho messo a punto un discorso per quando mi invitano a parlare nelle scuole. Si intitola «Il futuro del racconto». Tra le altre cose chiedo agli studenti di pensare al racconto fra cinquant’anni. Immaginare di saltare in avanti nel tempo e scriverlo adesso, quel racconto. Come sarebbe, che tono avrebbe, di cosa parlerebbe? Questo esercizio ci spinge a chiederci come si evolve una forma artistica. Se cambia, come cambia, e in risposta a cosa. Noi, come scrittori, stiamo provando consapevolmente a cambiarla? Rientra tra i nostri obiettivi, oppure no? Il racconto non è una forma letteraria particolarmente legata alla contingenza. Negli Stati Uniti non è stato spesso caratterizzato dalla curiosità politica, e nemmeno dalla consapevolezza politica (con poche, grandi eccezioni). Il racconto americano è stato criticato perché era piccolo e domestico, ma per le stesse ragioni è stato osannato. Come l’America in sé, è stato accusato di essere in qualche modo autocompiaciuto e chiuso di mente. Mi pare sempre interessante chiedersi quale sia la traiettoria di una forma artistica. In generale l’idea di progresso, o innovazione, almeno in letteratura, sembra ormai logora, spremuta fino all’ultima goccia. La novità fine a sé stessa è ovviamente discutibile, mentre l’innovazione autentica sembra sempre sfuggente se non impossibile. Ma se siamo obbligati a proiettarci fra cinquant’anni diventa davvero complicato affermare che non ci saranno nuove tecniche o prospettive, diverse energie formali e così via, o perfino uno sconvolgimento assoluto e un cambiamento radicale. Eppure tanto spesso vediamo ratificati il tradizionalismo e la stasi, spacciati per innovazione quando è palese che si tratta di una narrativa fedele alla linea, roba già vista un migliaio di volte. Quindi, anche se non posso sapere cosa cercano gli studenti più promettenti, posso aiutarli a domandarselo, e spingerli verso quell’obiettivo, qualunque esso sia.

Saunders:
Mi sono accorto che quando fanno a me domande del genere, o quando sto scrivendo qualcosa che si propone di difendere l’arte o spiegarne gli scopi, arrivo sempre a un punto in cui taglio corto: «Vabbè, lasciamo perdere, non voglio difendere l’arte, la voglio fare» (sospetto che anche tu ti stia sentendo così adesso, Ben). Ma arrivato a quel punto capisco, ancora una volta, quanto siano diverse le due cose: fare, e discutere del fare. Eppure tu insegni, io insegno, tu hai messo insieme due antologie importanti e straordinariamente ben curate, io blatero all’infinito, anche nella mia testa, riguardo allo «scopo dell’arte» – quindi forse quello che voglio chiedere a te (che sei uno dei miei scrittori viventi preferiti, al cui lavoro ricorro di continuo per cercare ispirazione) è: che relazione funzionale c’è, secondo te, tra (a) fare e (b) spiegare come si fa? (b) è di aiuto ad (a)? Se sì, sapresti illustrarmi in che modo? (Te lo chiedo in parte perché ultimamente ho pensato che il mondo letterario, per i miei gusti, sembra andare in direzione di un tipo d’arte veramente troppo inclinato verso l’analisi, la riduzione, e sono stato felice di leggere nella tua prefazione che tu ti rifiutavi di adattarti a questa tendenza – affermavi, in modo molto preciso e articolato, la necessità di rispettare il mistero. E anche perché, col nuovo semestre in agguato, mi ritrovo ancora una volta a chiedermi quale sia la relazione fra tutto questo discutere e pontificare che tra poco farò in classe, e la meravigliosa estate appena trascorsa, in cui non ho fatto altro che lavorare, nel modo più intuitivo e silenzioso possibile.)

Marcus:
Già, ad agosto c’è una bella resa dei conti. Lavoro con più urgenza, o con più disperazione, e a volte mi sorprendo perfino a parlare con me stesso, come un insegnante con gli studenti, di solito mentre vado in bici, e testo le lezioni da fare, le cose che spero di spiegare. Nella mia testa porto avanti interi discorsi, che non trascrivo e vanno perduti per sempre. E poi mi pento e fino all’ultimo secondo provo a ripulire il monologo. Immagino che anche a te pongano spesso questa domanda, perché insegni da tanto tempo e hai la fama di professore brillante (ho parlato con molti tuoi ex studenti). Un’altra versione della domanda è: come ha influito l’insegnamento sulla tua scrittura? E la mia risposta più onesta è, molto semplicemente, che non lo so, perché sono più o meno venticinque anni che insegno a tempo pieno, quindi non posso sapere come scriverei senza questo lavoro. L’insegnamento è sempre stato sullo sfondo, e a volte anche in primo piano. La cosa che più mi piace è che, quando incontro un nuovo gruppo di studenti, mi sento particolarmente incline a non dire stronzate. E questo desiderio di non fare la figura dell’idiota, o del sapientone, o del vecchio pieno di certezze inestirpabili che rifiuta di aggiornarsi, è piuttosto utile perché ti impedisce di ricorrere alle idee che hai già formulato in precedenza. Devi lavorare e pensare e farlo alla svelta. Il primo giorno io parlo a lungo, e gli studenti non dicono un granché. Quindi li guardo in faccia mentre parlo, e gli attribuisco un pensiero critico severissimo, sicuro che non si facciano abbindolare, e che non mi credano, eccetera. Penso a com’ero io alla loro età, o in quello stadio della vita, e mi chiedo cosa avrebbe potuto toccarmi, smuovermi, mettermi alla prova. Cerco di dargli un messaggio che abbia la giusta miscela di provocazione, rivelazione, incoraggiamento, esortazione e via dicendo. È un’impresa difficile e salutare e a volte sembra che ne valga la pena, e per tutto il tempo cerco di difendere il valore della diligenza, della disciplina, delle letture rigorose, di avere standard personali elevati, una resistenza verso le certezze e, di solito la cosa più importante, un po’ di flessibilità estetica. Discorsi di questo tipo probabilmente sono rivolti tanto a me stesso quanto a loro. Insomma: è l’ora del manifesto, quindi dicci un po’, cosa diavolo pensi davvero?

Saunders:
Ma immagino che la vera domanda sia: dato che pare siamo d’accordo sul fatto che ciò che rende lo scrittore A più interessante dello scrittore B sia una serie di collegamenti mentali misteriosi, istantanei (su questo siamo d’accordo, giusto?) – oppure (per dirla diversamente) che il processo essenziale sia intuitivo, iterativo, subrazionale – allora perché dovrebbe essere utile analizzare una storia dal punto di vista concettuale, per esempio, o dilungarsi sulle influenze letterarie? Lo so che è utile, ma in questo periodo dell’anno mi ritrovo sempre a rimuginare su come funziona di preciso questa roba.

Marcus:
Mi chiedo se non sia utile il solo fatto di trovarsi in prossimità del mistero. Guardare come lo affrontano gli altri. Cerco di dire agli studenti che potrebbero imparare molto, molto di più riguardo alla scrittura cercando di sbrogliare ed editare e criticare il lavoro dei loro colleghi. La comprensione dei problemi tecnici e formali incontrati da un altro scrittore può essere, stranamente, di aiuto a sé stessi, perché apre la strada a quel tipo di problem solving spontaneo, disinvolto, che molti di noi vorrebbero interiorizzare. Ma è importante anche ricordare che frequentare corsi per imparare a scrivere racconti è una cosa recente, che c’erano scrittori brillanti ben prima dell’esistenza dei corsi di scrittura e che, alla fine, spetta a ognuno di noi cercare di capire come sviluppare al meglio il proprio lavoro. In un’aula, a casa da soli, in una comunità, in solitudine. Comprendere cos’è che nutre la nostra opera e cosa no è difficile, ma è importante provarci.

Saunders:
Una cosa che ho notato negli ultimi tempi è che gli scrittori sembrano accettare di più l’idea che, sì, lo scopo sia proprio smuovere il lettore (definisci «smuovere» come credi) e che tutte le (cosiddette) mosse o convenzioni strane/«sperimentali» che vengono messe in campo siano lì per quello scopo – ossia, per potenziare l’esplosione. Perciò, quando si inserisce un qualche elemento bizzarro lo scopo non è solo sfoggiare il proprio talento, o mettere in evidenza un concetto astratto (come facevano, diciamo, i postmodernisti (minori)). Mi sembra però che gli scrittori di oggi si siano lasciati alle spalle anche la fede che nutrivano i cosiddetti minimalisti (minori) nel modello del mondo secondo il quale basta «mostrare» le cose – ossia, stanno ripudiando l’idea che il mero realismo sia sufficiente a rappresentare l’intera portata e l’inconoscibilità del mondo. Per te ha senso questo mio punto di vista (ossia, secondo te è utile) e, se è così, come si applica al tuo lavoro e/o ai racconti che hai selezionato? (Sì, lo so che la domanda sembra uscita da USA Today: «Il nostro posto di lavoro ci piace sempre di più? O stanno prevalendo i valori europei?»)

Marcus:
Penso che tu abbia ragione. La battaglia tra i (cosiddetti) minimalisti e i postmodernisti ha perso mordente, ora che questi nuovi trucchetti metafisici vengono usati con disinvoltura per suscitare emozioni che quei vecchi scrittori (credo in effetti che fossero più che altro maschi) non si sarebbero mai sognati. Quanto mi è utile averlo scoperto? Non lo so. Negli ultimi anni, essendo finito in svariati vicoli ciechi nel mio approccio alla narrativa, ho provato a fare marcia indietro e attingere a un arsenale narrativo più ampio. Quando fantastico sulle cose che potrei scrivere sono profondamente promiscuo nell’approccio artistico, ma poi nella pratica faccio ricorso a un insieme di manovre che mi sono familiari.

Saunders:
Sì, conosco la sensazione. Tipo: questo insieme di approcci ti ha portato dove sei, quindi fino a che punto puoi pensare di buttarli via in blocco? Ma c’è da dire che se non sei disposto a buttarli via in blocco, corri il rischio di una stagnazione, di una stanca routine…

Marcus:
Le prime cose che ho scritto non erano troppo narrative, perciò per un breve periodo, quando sperimentavo nuove tecniche, mi sembrava di avere dei nuovi territori da esplorare. Ben presto però mi sono accorto che potevo cambiargli la maschera, ma il mostro che c’era sotto restava più o meno lo stesso. È stato doloroso rendermi conto di quanto sia limitata in realtà la mia immaginazione, e quindi passo un sacco di tempo a cercare di nascondere questo problema cambiando pelle, cercando nuovi modi, approcci differenti. Ma non può durare a lungo.

Saunders:
Dunque, uno dei fenomeni che caratterizzano il periodo coperto dall’antologia (gli ultimi dieci anni) è l’esplosione della tv americana, che si dice stia attraversando una sorta di rinascimento. Dato che consente una relativa libertà formale (rispetto al cinema) i giovani scrittori di talento stanno migrando verso la televisione. Mi ricorda un po’ quella vecchia storia della fotografia che costringeva la pittura a salire di livello – dato che alla fotografia, la nuova forma dell’epoca, riusciva così bene il realismo, la pittura doveva andare a cercarsi qualcos’altro da fare, meglio e in modo originale. Quindi: questa nuova età dell’oro della tv che ripercussioni ha su quanti di noi raccontano storie con le parole? O, per metterla in termini più provocatori: puoi fare l’avvocato difensore del racconto in prosa? Perché ne abbiamo ancora bisogno?

Marcus:
È possibile che desideriamo a tal punto che guardare la tv sia un’esperienza culturale profonda (e non sia invece semplicemente una tranquillizzante tana di coniglio in cui ci rintaniamo dopo una giornata lunga e pesante) da cominciare a credere con più facilità nel suo valore artistico? Leggo delle recensioni entusiastiche, iperboliche, di certe serie tv e resto piuttosto perplesso. Ora, magari io le guardo quelle serie, e mi piacciono anche, a livello di svago anestetico, ma quando sento dire che la grande arte del nostro tempo si realizza in televisione, sento una nota stonata. Magari c’è talmente tanta tv orribile che i programmi passabili e divertenti vengono accolti con grande entusiasmo. Mi sembra che, se in una serie tv i mobili dell’epoca sono rappresentati fedelmente e i personaggi si vestono davvero bene, ci affrettiamo tutti a chiamarla grande arte. Oh, quello è proprio lo shaker che si usava all’epoca! La colonna sonora era perfetta! Spettacolare! Per me, però, troppo spesso la rappresentazione delle emozioni nelle serie tv di questo tipo è estremamente semplicistica e ripetitiva. Le idee sono trite e ritrite, e la psicologia è paternalistica. Per spiegare i casini dell’età adulta c’è l’infanzia difficile, eccetera. In realtà, in termini narrativi, non esiste bastone peggiore del passato, e noi veniamo randellati di spiegazioni puerili che dovrebbero chiarirci come si è creata una certa situazione. Flashback fino alla morte. Per quanto molte di queste serie siano stilose e ben girate e interessanti e riuscite, il tratto che le definisce è l’artificio emotivo, regolato da convenzioni narrative che sembrano destinate a tenerci a distanza o, peggio, ad alienarci dalle nostre esperienze autentiche. A parte questo, be’, viva la tv. Certa televisione mi piace. In particolare le cose veramente perverse. Ma mi interessa l’altra parte della tua domanda. Gli scrittori di mia conoscenza che hanno fatto i bagagli e sono passati alla tv hanno avuto il cuore spezzato, tutti quanti, dopo essere arrivati vicinissimi al traguardo: programmi cancellati, episodi pilota senza seguito e via dicendo. Hanno visto una commissione dopo l’altra epurare le loro idee di tutta la sostanza, e anche gli assegni che sognavano contengono numeri molto più piccoli e più tristi di quanto credevano possibile. Ma non lo so, forse è andata così solo ai miei amici. Alla fine credo che quello che succede in un certo tipo di narrativa in prosa non stia succedendo da nessun’altra parte. La scrittura è uno dei migliori strumenti di sorveglianza al mondo. Ci permette di guardare dentro alle persone. Non mi capita di vederlo fare spesso in tv. Magari le cose cambieranno o stanno già cambiando. Ma il linguaggio da solo, senza le immagini o i suoni, è ancora potente e miete vittime, per quanto popolari possano essere altre forme di intrattenimento.

Saunders:
Mi è anche venuto in mente che il periodo coperto dall’antologia corrisponde più o meno a quello della nostra «risposta» all’11 settembre – le due guerre, quella strana virata a destra, il processo graduale per cui man mano siamo diventati disposti a barattare la libertà e la decenza per la sicurezza, tutto questo. Ti sembra che la narrativa abbia «risposto» in qualche modo a tutta questa energia nazionale? (Già mentre te lo domando quasi mi pento, perché non sono convinto che la fiction risponda, o abbia la responsabilità di rispondere, alle cose. Eppure.)

Marcus:
Qualche risposta c’è stata, certo. Mi ricordo che nell’autunno del 2001 tutti si torcevano le mani, disperati perché la letteratura non aveva i mezzi per affrontare la complessità di quello che era successo. Era già passata una settimana dall’11 settembre, perché tutti i romanzieri tacevano? Ma grazie a dio la narrativa non funziona come un notiziario. Mi sembra importante ricordare che ci saranno ancora moltissime storie ispirate da quegli eventi, e non soltanto storie americane. Di certo il tabù iniziale sull’argomento sembra crollato, e la psiche americana sembra aver subito una bella batosta, in termini di umiltà. Magari col tempo vedremo crescere la curiosità e l’empatia, e nasceranno dei racconti dove prima c’era silenzio.

Saunders:
Se mai arriveranno a costruire il Museo dei Racconti, sull’ingresso dovrebbe esserci scritto: «Un racconto serve a ricordarci che se a volte il mondo che ci circonda non ci lascia perplessi e stupiti e smarriti, se non ci lascia stupefatti e senza parole, forse non stiamo prestando abbastanza attenzione». Semplicemente stupendo. Per me, questo implica che uno degli scopi dell’arte sia farci svegliare, ricalibrare la nostra vita emotiva, farci porre nel giusto rapporto con la realtà. Il che per me assomiglia moltissimo a quello che chiediamo alla nostra sfera spirituale, se ce l’abbiamo. E aggiungerei anche che il processo va in entrambe le direzioni: è un’influenza che agisce su di noi quando leggiamo (di base, attraverso l’immersione nella mente di qualcun altro) ma anche quando scriviamo (sottoponendo a revisione la nostra idea di partenza, ci alleniamo a guardare più a fondo, a pensare in empatia con un essere immaginato, per raggiungere l’empatia e la connessione con un essere reale (il lettore)). Questo ragionamento ti suona sensato?

Marcus:
Mi piace come poni la questione e in particolare mi piace credere che per me questo processo sia di grande importanza. L’empatia è inscindibile dalla curiosità, e dalla convinzione che ci siano ancora molte, moltissime cose da imparare. E da sentire. Ogni qual volta mi sembra di aver capito qualcosa mi preoccupo, perché mi accorgo che il cervello si chiude, che mette la spunta a una casellina e dichiara risolta la questione. E anche negli altri trovo sempre meno affascinanti le certezze. Viviamo in un tempo tremendamente interessante e sembrerebbe innegabile che un certo tipo di identità – modi di stare al mondo, esperienze, storie e prospettive – siano state indagate fino alla nausea, in tutte le forme, mentre altre siano state ignorate. Pur sapendo che, in quanto scrittori di narrativa, abbiamo la licenza di assumere altre identità e proiettare noi stessi in vari spazi di fantasia, sono anche giunto a pensare che questo è un buon momento per ascoltare. In generale, ascoltare è molto più interessante che parlare.

© George Saunders, 2015. Tutti i diritti riservati.

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