Pubblichiamo oggi un saggio di Andrea Jeftanovic sul romanzo Il luogo senza confini di José Donoso, tratto dalla rivista «Finis Terrae», della Universidad Finis Terrae di Santiago, ringraziando l’autrice.
di Andrea Jeftanovic
traduzione di Marta Farias
Il romanzo Il luogo senza confini (1966) di José Donoso rappresenta un interessante caso letterario nel quale vengono messe in discussione le categorie di genere, una sessualità contraddittoria e un atteggiamento ludico e trasgressivo nei confronti del corpo. La vicenda è ambientata in un decadente bordello di El Olivo, un paese di provincia nel centro-sud cileno, la cui stazione ferroviaria non ha mai visto partire né arrivare treni. I fatti si svolgono tra un’aristocrazia caduta in disgrazia e una classe popolare che, in un modo o nell’altro, lavora al servizio dei latifondisti. Protagonista della storia è Manuela, un travestito che è socio del postribolo del paese ed è famoso per i suoi numeri di danza spagnola. Il romanzo racconta del suo ultimo giorno di vita, ma la narrazione viene interrotta da due episodi del passato, legati agli spettacoli di Manuela. Il primo risale a vent’anni prima, quando sono in corso i festeggiamenti per il trionfo di don Alejo, latifondista e senatore della zona, uomo di una certa età, cliente affezionato e proprietario del bordello. Don Alejo fa una scommessa con la Giapponese Grande, prostituta rinomata e padrona originaria del locale, sfidandola ad andare a letto davanti al pubblico con Manuela, il travestito che si esibisce nel numero speciale dei festeggiamenti. Tale scommessa avrà una duplice conseguenza: da una parte Manuela e la Giapponese diventeranno entrambe tenutarie della casa che apparteneva a don Alejo. E dall’altra porterà alla nascita di una bambina, la Giapponesina. Tempo dopo la Giapponese Grande morirà e a gestire il locale resteranno Manuela e la Giapponesina, ciascuna con responsabilità diverse. Manuela sarà l’attrazione sessuale, mentre la Giapponesina si occuperà di amministrare il denaro perché lei non partecipa a quel genere di traffici.
Il secondo episodio risale all’anno precedente, quando Manuela si esibisce nel suo spettacolo di flamenco e Pancho Vega, il “bullo” del paese, la aggredisce e sta quasi per ucciderla, ma don Alejo interviene e la salva. Pancho, però, promette che un giorno o l’altro tornerà e si vendicherà. È a questo punto che la storia si ricompone con il ritorno di Pancho, l’ultima esibizione di Manuela e la tragica conclusione della sua vita.
In linea generale nelle opere di Donoso il fenomeno dell’inversione è al centro del suo universo creativo, e in quest’opera in particolare non solo si invertono i generi sessuali dei personaggi, ma anche le convenzioni familiari, i ruoli economici, le gerarchie e i valori contenuti nel discorso ufficiale. In questo universo fittizio Donoso crea “un mondo assolutamente al contrario”. Propone un testo la cui dialettica strutturale consiste nel mettere in evidenza e al tempo stesso annullare i limiti, dove non c’è trasgressione delle regole. Il luogo senza confini avanza l’ipotesi di una nuova curiosa identità, specie attraverso la figura di Manuela.
Dal punto di vista grammaticale la Manuela è una donna, ma in quanto uomo attrae la Giapponese (con la quale avrà una figlia). La figura di Manuela non rientra nelle categorie binarie tradizionali, non è né eterosessuale né omosessuale dal momento che la sua identità si plasma quotidianamente e concretamente attraverso una serie di atti, soprattutto il suo spettacolo di flamenco. Il corpo di Manuela è un corpo contraddittorio, che racchiude in sé significanti maschili e femminili. Dentro di “lei”, in quanto travestito, convivono gli opposti: non rinuncia al suo genere biologico (non è un transessuale, non nasconde la sua barba), ma adotta altre forme, genera una nuova e inedita sintesi tra il femminile e il maschile. Come vediamo nel paragrafo nel quale viene descritto il suo arrivo alla stazione ferroviaria di El Olivo:
«Erano scese anche due donne più giovani, e un uomo, se così si poteva chiamare. Loro, le signore del paese, guardando da una certa distanza, discutevano su che cosa poteva essere: magro come un manico di scopa, con i capelli lunghi e gli occhi truccati quasi quanto quelli delle sorelle Farías».
In questo brano, chi assiste al suo arrivo mette in rilievo l’ambiguità del personaggio e la sua teatralità, il suo istrionismo, la sua condizione di fenomeno da baraccone, la falsità. Quello che Manuela ci fa vedere, invece, non è una donna dietro la cui apparenza si nasconderebbe un uomo, una maschera che, nel momento in cui cade, lascia scoperti la barba e il volto sciupato e duro, bensì il travestitismo stesso. In lei coabitano segni contraddittori (le sopracciglia dipinte e la barba), ed è proprio questo che mette in discussione l’ordine prestabilito. Tutti sanno che Manuela è un ballerino appassionato. La sua identità ha bisogno di ridefinirsi continuamente. Il vestito da spagnola si contrappone al concepimento della Giapponesina. Nel suo gioco di seduzione Manuela non è né uomo né donna, bensì una virago che gioca con questa ambiguità. Nell’atto sessuale, ad esempio, anche se biologicamente è lei l’uomo, sarà la Giapponese a fare da parte attiva. Manuela è un uomo passivo che concepisce suo malgrado:
«Manuela, come se fossimo due donne, guarda, così, vedi, le gambe allacciate, il sesso nel sesso due sessi uguali, […] no, no , tu sei la donna, Manuela, e io sono il maschio, vedi come ti abbasso le mutande e ti tolgo il reggiseno perché i tuoi seni restino nudi e io possa godermeli, sì che ce li hai Manuela, non piangere, sì che ce li hai i seni, piccolini come quelli di una bambina, ma li hai e per questo ti amo. […] tesoro bello, che cosa stupenda, […] Tu sei la femmina e io il maschio».
La Giapponese è cosciente di questa complessa ambiguità e gestisce con sapienza l’aspetto biologico e quello simbolico per non alterare l’identità che Manuela si è foggiata; e così riesce a convincerla ad avere rapporti sessuali con lei.
La padre-il madre: l’inversione nei rapporti familiari
Manuela ha una figlia segnata da una doppia inversione: è nata da un padre che nell’atto sessuale fa la parte della donna, ma che ha la capacità di procreare. La condizione di padre della Giapponesina si contrappone al suo essere ballerina di flamenco.
Ma l’inversione la troviamo anche nel ruolo svolto dalla Giapponesina, la figlia-moglie, perché è lei che amministra il bordello, è lei “quella che porta i pantaloni” (ogni lunedì deposita religiosamente gli incassi) ed è l’unica vergine del postribolo. Manuela, invece, in quanto travestito, in questo sistema economico adotta un valore femminile come oggetto di possesso e di transazione. Di conseguenza ciò che trasmette alla Giapponesina non è quello che un padre tradizionalmente lascerebbe in eredità a una figlia, cioè un cognome e una dote, bensì quello che le lascerebbe una madre: un’etica il cui valore supremo è “trovarsi un uomo” (seduzione e prostituzione). In un’occasione, ad esempio, Manuela dirà alla Giapponesina: «Vacci a letto, non fare la stupida. È perfetto. L’uomo più maschio della zona, ha un camion e potrebbe portarci a spasso».
Si nota un’inversione anche nel rapporto padre-figlia, in particolare nel ruolo protettivo e nella gerarchia. Ne è un esempio il brano in cui la Giapponesina, spaventata, dice a Manuela, suo padre:
«Tu mi devi difendere, se viene Pancho». Manuela buttò per terra le forcine. Ne aveva abbastanza. Perché continuava a fare la stupida? Voleva che lei, Manuela, si mettesse contro un bestione come Pancho Vega? Doveva rendersene conto una volta per tutte, invece di continuare a raccontarsi storie… Sai benissimo che sono una checca persa, nessuno ha mai cercato di nascondertelo. E mi chiedi di proteggerti: ma se appena arriva Pancho andrò di corsa a nascondermi, come una gallina. Lui non ne ha colpa, se è suo padre».
Manuela vorrebbe essere sua figlia, invidia la sua giovinezza e soprattutto la sua condizione di donna, ribaltando di netto il “luogo comune” per eccellenza. Quello che le invidia, infatti, è l’assenza del pene, perché Manuela sa che non potrà mai far innamorare Pancho proprio perché biologicamente appartiene al genere maschile. L’essere padre lo rende giustamente consapevole della sua identità mutevole, contraddittoria, incoerente e falsa, e fa sì che svanisca la sua identità improvvisata:
«Manuela finì di sistemare i capelli della Giapponesina… […] Donna. Era donna. Ci sarebbe andata lei con Pancho. Lui era un uomo. E vecchio. Un finocchio povero e vecchio. Una checca che andava pazza per le feste e il vino e i vestiti e gli uomini. […] Ma a un tratto la Giapponesina gli diceva quella parola (papà) e la sua immagine si offuscava come se ci fosse caduta sopra una goccia d’acqua, e lui, allora, perdeva di vista se stessa, se stesso, io stessa non lo so, lui non sa né vede Manuela, e non restava niente, questa pena, questa incapacità, niente altro che questa gran pozza d’acqua dove fare naufragio».
Il vestito come perfomatività, illusione e gioco
Il vestito da spagnola è menzionato ben trentasette volte nel romanzo e svolge un ruolo vitale per il funzionamento della storia e dei personaggi. La massima trasformazione di Manuela, la sua piena identità si manifesta nel bordello, quando si esibisce nel suo numero di flamenco. È importante notare che si tratta di un atto che non avviene in strada alla luce del giorno. È un numero che si svolge sul palcoscenico, nel contesto del gioco e della finzione. E perché la sua esistenza si compia nella sua interezza Manuela ha bisogno di un pubblico che entri a far parte del gioco, ha bisogno che il “suo pericolo” diventi comico e venga accettato. Forse la funzione più importante del vestito è essere lo strumento e il fine della sua identità mutevole e contraddittoria. L’abbigliamento rafforza l’ambiguità del personaggio attraverso una serie di funzioni specifiche: copre i genitali maschili e simboleggia una femminilità menzognera, e per farne parte bisogna entrare nel gioco. Nasconde l’età, gli acciacchi, occulta la sua condizione derelitta di “vecchio finocchio”. Ma anche l’abito si consuma, registra il passare del tempo e i fasti del passato. Reinstaura la dialettica centrale del personaggio: nascondere il sesso o al contrario rivelarlo.
Il vestito rappresenta la metamorfosi che avviene attraverso l’abbigliamento e che crea le condizioni affinché si disarticolino i ruoli sessuali del sistema. Nei panni che indossa tutti i giorni sono contenuti la condizione di padre e i genitali maschili, mentre è con il vestito che porta il suo aspetto femminile alla sua forma più elevata. Il vestito è il significante ludico che rende possibile una serie di dislocazioni, di identità e di inversioni che articolano una sintassi parallela al discorso ufficiale minacciata dalle norme sociali. Il suo vestito da bailaora di flamenco è un feticcio comunicativo, contribuisce a compiere il proposito di conquistare gli uomini, ma nell’ambito di un gioco in cui le rappresentazioni non sono pericolose.
Quello che Manuela esibisce, nel suo numero di flamenco in particolare, non è soltanto la coesistenza in un solo corpo di significanti maschili e femminili, ma anche la tensione, la repulsione, l’antagonismo che tutto questo crea sia a livello privato che pubblico. Il personaggio di Manuela mette in discussione l’ordine prestabilito, turba la definizione sessuale degli uomini del paese (don Alejo, Pancho, Octavio: i maschi del posto) e denuncia “la trappola” degli assoluti. Le sensazioni e le reazioni che si innescano in loro mettono in evidenza l’ambiguità e la complessità dell’identità sessuale e delle insidie del corpo. Questi uomini assistono febbrili allo spettacolo e si scoprono eccitati da questa “ballerina”. E non ci sono dubbi: Pancho non ci sembrerà più semplicemente un uomo. In lui c’è qualcosa di più contraddittorio e complesso.
Nelle tre esibizioni con il vestito da spagnola si articolano i tre episodi più importanti dell’intreccio, ma il vestito finisce per essere strappato o scostato dal corpo nascosto sotto, dando il via libera al tragico epilogo. È nel terzo e ultimo numero di flamenco che Pancho e Octavio portano a termine la loro vendetta. Prendono Manuela e la trascinano lontano per violentarla. In mezzo alla campagna le strappano il vestito, un gesto che va ben oltre il danno materiale alla stoffa: oltrepassa i limiti, distrugge un’illusione e porta allo scoperto il pericolo delle categorie confuse. Strapparle l’abito significa affermare dei significati fissi, un unico sesso. Il momento in cui il vestito viene lacerato è anche quello in cui viene rivelato il vero nome di Manuela: Manuel González Astica. Ed è a questo punto che finisce il gioco. Questo è il momento della drammatica rivelazione della sua vera identità:
«Ferma nel fango della strada mentre Octavio la bloccava torcendole il braccio, Manuela si riscosse. Non era Manuela. Era Manuel González Astica. Lui. E siccome era lui gli avrebbero fatto del male e Manuel González Astica era terrorizzato.»
I due “bulli” del paese sono eccitati e pronti a violentare una donna seducente che in realtà è un uomo vecchio e scheletrico. Rimarranno sconvolti e metteranno in discussione il proprio comportamento, la propria identità. Dopo essersi fatto baciare da Manuela, Pancho ha questo scambio d’opinioni con suo cognato:
«Be’, compare, non fare il finocchio anche tu».
Anche Pancho lasciò Manuela.
«Ma se non ho fatto niente…»
«Non raccontare storie, ti ho visto…»
Pancho ebbe paura.
«Figuriamoci se mi faccio baciare da questo finocchio schifoso, sei matto, ti pare che mi lascio fare una cosa del genere. Di’, Manuela, mi hai baciato?»
E Pancho, vedendo la sua mascolinità messa in discussione e il suo onore oltraggiato, deve riaffermare la sua virilità attraverso un atto brutale che sopprime il piacere del gioco. Manuela può morire solo fuori scena, quando finisce il gioco e la rappresentazione e le persone coinvolte prendono coscienza del pericolo costituito dalla sua identità complessa e contraddittoria. È per questo che il racconto non si conclude con un atto sessuale, bensì con un atto criminale, perché qualcuno travalica i limiti del gioco e prende coscienza del pericolo del corpo e della sua investitura.
Il corpo provvisorio
Come con il titolo del romanzo, Donoso propone un testo la cui dialettica strutturale consiste nel mettere in evidenza e annullare simultaneamente i limiti e i rischi insiti nel trasgredirli. Viene così denunciata “la trappola” degli assoluti e, in particolare, la fallacia della cultura maschilista, dato che la reazione maschile provocata dal vestito spagnolo mette in evidenza l’internalizzazione di un ruolo maschile predefinito e pertanto relativo, discutibile e suscettibile di cambiamento. Non esiste quindi UNA VERITÀ, ma varie verità interconnesse tra loro. C’è un rifiuto dell’essenzialismo, che ha a che vedere con l’identità postmoderna, secondo cui l’identità consiste in una serie di maschere, di ruoli, di potenzialità; è un amalgama in cui tutto è provvisorio, contingente e improvvisato.
Pertanto la “scelta del genere” rappresenta un’opportunità di costruire se stessi. Si tratta di un processo di interpretazione delle norme culturali in modo che riproducano e organizzino la propria identità in una sintesi personale in base ai termini corporei. Perché il corpo è per definizione il locus dove risiede il significato di genere. Il genere sessuale è cultura e scelta, un atto quotidiano di ricostruzione e interpretazione attraverso una serie di azioni sul corpo e sull’identità.
Revista Finis Terrae
Universidad Finis Terrae
Santiago, 2006
di Andrea Jeftanovic
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