Qual è il ruolo del corpo femminile grasso nel mondo contemporaneo? Forse la vergogna per la mancata conformità alle tradizionali norme di bellezza si può ribaltare in un’orgogliosa rivendicazione dello spazio che si occupa nel mondo.
Questo articolo è comparso originariamente su Guernica e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice e della rivista, che ringraziamo.
di Carmen Maria Machado
traduzione di Chiara Messina
Mia nonna era una montagna. Quando ero piccola, me ne stavo in piedi accanto alla sua toletta e la guardavo mentre si bardava con quelli che pensavo fossero i suoi «gioielli»: braccialetti scintillanti che tintinnavano tra loro, orecchini in lucite verde giada, collane simili a corde d’oro e spille di cristallo Swarovski a forma di tigre o elefante. Portava camicie da notte leopardate, profumava di White Diamonds e strabordava dalla sedia.
Ai miei occhi, il suo corpo era una meraviglia, una forma incoercibile e rassicurante come quella di un Buddha. A volte mi sedevo sulle sue gambe e le sbirciavo dentro la camicia, per scoprire i suoi misteri. Era la donna più imponente che avessi mai conosciuto.
Io ero una ragazzina pelle e ossa, vivace e veloce in modo impressionante. La mia ansia sembrava bruciare calorie; ero sempre turbata da qualcosa che era successo, o sarebbe successo o sarebbe potuto succedere. E quando non ero impegnata a scalare il tronco appiccicoso di uno dei pini del nostro cortile posteriore, o immersa nella lettura compulsiva dei romanzi di Nancy Drew e degli Hardy Boys, o intenta a scrivere una delle mie rare e melodrammatiche pagine di diario, o a cercare i sintomi della leucemia sul computer della biblioteca comunale, guardavo Fraggle Rock, una sorta di spin-off dei Muppet. Adoravo l’operosità dei Doozer e la rapacità con cui i Fraggle distruggevano le loro opere architettoniche. Ero affascinata dal paradosso metanarrativo per cui Doc e Sprocket si trovavano a replicare i drammi dei Fraggle nel loro quotidiano. Ma non c’era nessuno che amassi più di Marjory, la Montagna di rifiuti.
Marjory era un voluminoso cumulo senziente di immondizia, concime e foglie, con un paio di eleganti lorgnette rosso ciliegia e una buccia di banana messa di sghimbescio a mo’ di copricapo. Dalla cima della testa, andava allargandosi man mano che scendeva verso il basso. Non traboccava da nulla perché non c’era nulla da cui traboccare: era libera da qualsiasi confine.
Quando si trovavano in difficoltà, i Fraggle si avventuravano coraggiosamente nel cortile dei Gorg, confidando nella saggezza di Marjory. Lei era un oracolo onnisciente che dispensava consigli dadaisti; era assennata persino mentre marciva. Aveva un ampio e cadente seno di spazzatura che si muoveva se cantava con sufficiente trasporto. E cantava eccome: melodie dolenti, caustiche e malinconiche.
Marjory era scortata da due creature dalla natura ambigua, due roditori con le fattezze tipiche dei Muppet, Philo e Gunge. «I miei ragazzi», li chiamava col suo rauco accento slavo. Quando le scene con lei volgevano al termine, i suoi due seguaci ululavano: «La Montagna di rifiuti ha parlato, nyahhh», segno che l’udienza con Marjory era conclusa. Con Gunge s’intende una sostanza appiccicosa e ripugnante, come quella che si può trovare sul fondo di una pattumiera da esterno. Philo, ovviamente, significa amore.
Un’altra cosa che guardavo a rotazione continua da piccola era La sirenetta. La videocassetta si trovava quasi sempre all’interno del videoregistratore, e io ero in grado – e lo sono ancora – di recitare intere scene a memoria. Ursula mi sembrava fantastica: la migliore e la più terrificante dei cattivi Disney. Induceva la classica principessa bellissima e ribelle a contrarre un patto faustiano e si faceva beffe della compita società del popolo del mare da cui era stata bandita. Viveva in un palazzo ricavato dallo scheletro di un antico leviatano e si nutriva di creaturine vive e tremanti prese da un piatto a forma di conchiglia. Aveva uno strabiliante ciuffo di capelli bianchi, le palpebre pesantemente truccate di blu, le labbra di un rosso acceso e un neo finto. Il suo seno si sollevava, traboccava e sussultava a ogni movimento. Spesso avanzava rapida verso lo spettatore, riempiendo lo schermo, agitando il petto e dispiegando i suoi tentacoli in modo osceno, mostrando le fossette di grasso sui gomiti, il doppio mento e i dentoni.
Era lasciva e indecente, ambiziosa e arrogante. Durante il suo primo incontro con Ariel, Ursula è seduta alla specchiera, impegnata a compiere una serie di gesti ostentati: farsi bella, passarsi del gel tra i capelli, spremere dei pigmenti fuori da un baccello per tingersi le labbra di un arancione-rossastro simile a quello del pianeta Marte.
Anche Ursula, la Strega dei mari, come Marjory, la Montagna di rifiuti, era affiancata da due creature, nella fattispecie due murene: Flotsam e Jetsam, che in inglese sono rispettivamente i resti di un naufragio e gli oggetti di scarto buttati giù da un’imbarcazione in difficoltà (gioco di parole che ho colto solo da adulta). Eccola lì: una nobile strega dai gusti eccentrici caduta in disgrazia e accudita dai rifiuti del mare.
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La pubertà si abbatté su di me come una tempesta, lasciando tette, fianchi e altra roba in eccesso. Da quel momento in poi, l’immagine riflessa dagli specchi fu la seguente: due metà di un abito da cerimonia che si chiudevano intorno al mio corpo da adolescente come una Venere acchiappamosche, per fermarsi all’altezza del mio seno troppo abbondante. Mia madre che imprecava, tirava, borbottava. I suoni di altre ragazze che si provavano i vestiti con la madre: fruscii, cerniere che salivano, pianti. Una sequenza di diorami, ciascuno dei quali metteva in scena una piccola tragedia. Magliette e jeans neri che non mi stavano mai come avrebbero dovuto, felpe concepite per nascondere. Io, che afferravo con una sorta di rabbia le parti del mio corpo che non aderivano alle ossa.
Ero davvero grassa, a quei tempi? Di sicuro ero convinta di esserlo ma, guardando le foto a distanza di anni – ora che sono di fatto clinicamente obesa, e mi riferisco al genere di obesità che ti rende pessima a prendere appuntamenti col dottore e bravissima nello shopping on-line – sono normale. Abbondante di seno – cosa che ho ereditato da mia nonna – ma nella norma. Un po’ molliccia e ricurva su me stessa, ma questo fa parte dell’essere adolescenti, no? Imbarazzati per il semplice fatto di esistere.
In ogni caso, continuai a lievitare. Non misi a frutto la lezione pratica di Marjory e Ursula sul vivere con audacia; al contrario, finii dritta dritta nella situazione in cui la società voleva mettermi: a odiare il mio corpo, contribuendo in modo grottesco alla mia stessa schiavitù. Ritagliavo pubblicità di prodotti per perdere peso – nonostante mia cugina fosse finita in ospedale per problemi cardiaci dopo aver preso delle pasticche dimagranti Fen-Phen – e guardavo gli spot degli stimolatori muscolari elettrici; la sola cosa che mi impedì di lasciarmi trascinare dall’ossessione di fine anni Novanta-inizio Duemila per la perdita di peso fu la mancanza di una carta di credito. Mi convinsi che avrei potuto sconfiggere la mia grassezza con la violenza, dandomi pugni nello stomaco come sé stessi cercando di procurarmi un aborto. Bevevo così tanta acqua che la mia pipì era quasi trasparente. Provai a smettere di mangiare, ma la fame era così atroce che misi fine al mio digiuno divorando tutto ciò che riuscii a trovare nella cucina dei miei: mezzo pacco gigante di marshmallow. Incapace di cambiare, mi tramutai in Centralia, assestandomi su un basso livello di odio che ha continuato a bruciare per anni.
Non mi ero ancora resa conto che, almeno nelle storie di fantasia, alcune donne grasse sceglievano il potere. Che rivestissero il ruolo di oracoli o di cattive, che il potere si manifestasse sotto forma di ambizione, bellezza, acume, abilità sessuale o pura forza bruta, queste donne erano straordinarie. Forse non ci avevo fatto caso perché erano poche eccezioni in una marea di pessimi esempi: poliziotte grasse e impacciate, amiche fedeli grasse e imbarazzanti, madri grasse e asessuate, teppistelle grasse e crudeli, battutacce facili sulle grasse.
Una volta, in un negozio, io e mia madre vedemmo una cicciona che comprava dei peperoncini. Mia madre si girò verso di me e disse: «Se mai dovessi diventare così, uccidimi». Lo disse come una spia che dava un ordine diretto a un suo subordinato, in caso fosse stata catturata dai nemici.
Diversi anni dopo, lei, mia madre, fece un bypass gastrico e dimagrì drasticamente. Non diventerà mai come quella donna, o come me. Non c’è pericolo che io sia costretta a seguire le sue istruzioni.
La prima volta che ho visto la Venere di Willendorf – durante una lezione di storia dell’arte, al mio ultimo anno di liceo – non riuscivo a credere ai miei occhi. Perché non era paffuta o formosa, o qualsiasi altro eufemismo avessi rapidamente cercato di affibbiarle; era grassa nel vero senso della parola. Aveva un seno prorompente e una pancia pingue e debordante, fossette di grasso sulle ginocchia, i piedi piccoli e un viso quasi privo di lineamenti.
(Esistono anche altre Veneri. La mia preferita, forse, è quella di Hohle Fels, scolpita nell’avorio ricavato da una zanna di mammut: ha una testolina minuscola, un seno enorme sorretto da mani simili a zampe d’orso e una vulva esageratamente pronunciata, così grande che le gambe sono separate al punto da raggiungere l’ampiezza del busto.)
Ci sono molte teorie sulla funzione delle statuette di Venere. Alcuni hanno ipotizzato che fossero l’equivalente preistorico della pornografia. Altri hanno fatto notare che i loro piedi sono sempre appuntiti, magari perché erano fatte per essere piantate nel terreno come picchetti per qualche sorta di cerimoniale. Un’altra teoria spiega la loro assenza di lineamenti: erano autoritratti creati da donne primitive che non disponevano di macchine fotografiche né di specchi.
Ogni giorno cerco me stessa nei corpi delle altre donne. È quel che succede quando non ritrovi mai te stessa in una serie tv, su un catalogo di abbigliamento o in un film: diventi famelica. Provo a trovare nelle passanti una riproduzione fedele del mio seno prosperoso, della mia pancia che fuoriesce dai jeans come un sacchetto di plastica, dei miei fianchi da cartone del latte, del mio viso con i suoi zigomi simili a noccioli di pesca su uno strato di caffè macinato. In questo modo, il più delle volte, è come se vedessi il mio corpo a pezzi e dovessi assemblarlo mentalmente.
Non ha niente a che vedere con la storia di mia madre e della donna che comprava i peperoncini; non sono disgustata o preoccupata. Voglio solo sapere come appaio agli occhi delle altre persone. Di tanto in tanto, riesco a vedere tutti quei pezzi insieme, ed è come il riverbero di un orgasmo… un sottile e profondo appagamento.
La splendida donna grassa è di fronte a me sulla banchina della metropolitana, si mordicchia un’unghia. Sta provando delle scarpe molto carine nello stesso negozio in cui anch’io sto provando delle scarpe molto carine. Scorge il suo riflesso su una vetrina nel dedalo di strade della città che condividiamo, e io non posso fare a meno di osservarla. Mi somiglia, o sono io a sperare che sia così solo perché la trovo bella? Questo fa di me una persona vanitosa o una stupida? Perché la semplice vista di una donna che potrebbe somigliarmi mi fa venir voglia di sedermi a terra e piangere?
Non è che non mi guardi allo specchio, o che non mi veda in foto. Soltanto che guardarmi allo specchio o vedermi in foto è come ascoltare una registrazione della mia voce; quando sono concentrata sulla fruizione, tutto sembra diverso. «Non mi ricordo di quando ero così», ho detto una volta guardando una foto di me a una festa – col doppio mento e sformata come Fra Tuck – come se potessi mai ricordare di aver avuto un certo aspetto.
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Le poche donne grasse presenti in Mad Max: Fury Road s’intravedono di sfuggita con delle pompe tiralatte attaccate ai seni giganteschi, come mucche in una stalla. In Amiche per sempre, l’unica ragazza grassa, Chrissy, è anche l’unica di cui non conosciamo il passato. Nel primo episodio di Jessica Jones, una grassa sconosciuta che mi somiglia moltissimo scende da un tapis roulant per ficcarsi in bocca un hamburger, e Jessica commenta sarcastica: «Due minuti a faticare, venti minuti a mangiare».
Di tanto in tanto, immagino che i film e le serie che mi piacciono siano interpretati da un’attrice uguale in tutto e per tutto alla protagonista, solo più grassa. Penso a Pomodori verdi fritti alla fermata del treno con una voluttuosa Ruth o con una tarchiata Idgie l’una di fianco all’altra nello stagno; a Jane the Virgin con una Jane tracagnotta, brillante e nevrotica, contesa tra due uomini pazzamente innamorati di lei; a Grindhouse – A prova di morte con una pingue Zoe adagiata sul cofano della macchina; a Slevin – Patto criminale con una Lindsey paffuta, sorridente e piena di segreti; a Secretary con una Lee cicciottella piegata a novanta gradi sulla scrivania, immersa nella vasca da bagno di rame, stesa accanto a James Spader che bacia teneramente ogni centimetro del suo corpo.
Le donne e le ragazze grasse sono matrone, comari, personaggi di cui farsi beffe. Non sono mai oggetto di attenzioni romantiche o eroine. Non gli è mai concesso di esistere e basta. È come se gli scrittori non riuscissero a concepire l’idea che le donne grasse possano fare sesso o esercitare potere sulla realtà o avere una vita complessa. Sono solo corpi contro cui la gente magra può rimbalzare; frivoli e divertenti come uno di quei cuscini che fanno le scorregge o insignificanti come una sedia. Sempre ammesso che siano presenti.
Quasi tutte le persone con cui ho avuto una relazione o sono andata a letto, uomini o donne che fossero, hanno puntualizzato spontaneamente che ero la ragazza più grassa con cui fossero mai stati. Non ho mai capito perché. È un modo per esprimere il loro stupore? Sono a caccia di risposte? Dopo aver raccolto una serie di queste confessioni, mi ritrovo a osservare i miei amanti con più attenzione, non perché mi abbiano ricordato che sono grassa, ma perché mi hanno fatto notare che per loro è insolito provare tanto piacere e intimità accanto a un corpo grasso. Ci penso sempre quando mi slaccio il reggiseno, sono a cavalcioni sul mio compagno, o bacio una ragazza nella sua macchina dopo un appuntamento.
Una volta mi è parso di vedere una donna che mi somigliava in un porno amatoriale. Il suo seno penzolava e la sua pancia aveva le stesse pieghe della mia, e non riuscivo a smettere di guardarla. Si mordeva il labbro e succhiava il cazzo al suo compagno e lo cavalcava e si piegava su di lui e rideva ed emetteva i suoni più deliziosi che avessi mai sentito. Era bellissima. E lui la guardava con totale reverenza. Erano davvero innamorati, credo.
Il ragazzo con cui andavo a letto in quel periodo era venuto a cena. L’ho fatto sedere, gli ho mostrato il video e gli ho chiesto se lei mi somigliasse.
Lui è rimasto a guardare per qualche minuto, gli occhi che si addolcivano nella concentrazione. Poi mi ha sfilato con delicatezza il portatile di mano e ha chiuso lo schermo. «Non proprio», ha risposto. «Cioè, giusto un po’. Ma non proprio». La sua espressione era imperscrutabile. Era una persona gentile ed educata, e ho capito che si stava sforzando di trovare una risposta gentile ed educata. Il problema era che non sapeva cosa volessi sentirmi dire.
«Non mi offenderei se dicessi che le somiglio», ho chiarito. «Voglio solo sapere che aspetto ho agli occhi delle altre persone».
Abbiamo cominciato a baciarci e ci siamo sdraiati sul mio letto, ma poi lui si è fermato e mi ha soltanto tenuta abbracciata, come se stessi per andarmene da qualche parte.
Una volta, mentre facevamo sesso, un uomo mi ha spostata sopra di lui. Io ho opposto resistenza, preoccupata all’idea di schiacciarlo. «Voglio alzare gli occhi e vederti», mi ha detto. Quando stavo per venire mi sono coperta la bocca con la mano, ma lui l’ha tirata via e ha detto: «Voglio sentirti».
Un’altra volta, ho portato un ragazzo a casa dopo un appuntamento e l’ho costretto a supplicarmi di togliermi i vestiti solo per vedere se ci sarei riuscita. E ci sono riuscita.
* * *
Ci piace molto parlare della grassezza nel passato. Nella fattispecie, di quanto fosse ritenuta desiderabile. Era segno di ricchezza, salute e fertilità: elementi che, per alcuni, hanno un certo valore.
Ma al giorno d’oggi la grassezza viene subito affrontata col criterio del merito. Meriti di essere trattato come una persona? Meriti rispetto? Meriti una buona assistenza sanitaria? Meriti amore? Dei vestiti che ti entrino? Dei vestiti alla moda che ti entrino? Meriti di vederti su uno schermo, su una pagina di giornale o in una foto in un modo che non sia disumanizzante? Meriti di amare te stessa?
Il mondo sta ingrassando. Non siamo mai stati così in sovrappeso, o ossessionati dal bisogno di non esserlo. Parliamo compulsivamente del cibo legandolo alla vergogna e al senso di colpa; strutturiamo interi settori dell’economia basandoci su un’idea astratta di perfezione fisica. Reagiamo a questa tendenza – a noi stessi – con il rifiuto, la rabbia e l’odio. Ma nonostante questo attacco punitivo, la grassezza trova sempre la sua strada.
Qual è il valore di un corpo grasso, oggi? Il quesito riecheggia ovunque. Se non ci esci, se non lo corteggi, se non lo vesti, non te lo scopi, non lo nutri, non lo metti in mostra e non lo fai proprio vedere da nessuna parte, allora cosa? Cosa ci dovremmo fare con tutta questa gente grassa?
Nel 2014 il pittore Fernando Botero, che ha passato la sua intera carriera a ritrarre su tela corpi di donne grasse, ha dichiarato a un quotidiano spagnolo: «Non dipingo donne grasse. Nessuno mi crede, ma è così. Dipingo volumi. Se dipingo una natura morta lo faccio conferendole volume, se dipingo un animale ha la sua volumetria, e lo stesso vale per i paesaggi… Ciò che m’interessa è il volume, la sensualità della forma».
Che differenza c’è tra una donna grassa e una voluminosa? Botero si è messo sulla difensiva, ma ci ha anche involontariamente suggerito un nuovo modo di guardare al corpo. Il grasso è il prodotto di un processo fisico interno, il risultato della scomposizione di alcune sostanze chimiche che col tempo ci porta ad allargarci. Il volume è lo spazio che occupiamo nel mondo, costringendo ciò che abbiamo intorno a spostarsi. O, in alternativa, è un livello di rumorosità. Forse il nuovo corpo non ha altra scelta che espandersi.
Faccio ciclicamente un sogno a occhi aperti in cui sono una regina uscita da un epico romanzo fantasy. Sono avvolta in drappeggi di seta rossa e siedo su un grande trono barocco, incoronata da una tiara traboccante di gemme che quando muovo il capo fanno tic tic tic come dadi da Yahtzee. Ho i piedi adagiati su orsi dormienti. Sono così grassa che posso allontanarmi dal trono solo su un baldacchino portato a spalla da venti uomini. Sono così grassa da risucchiare l’aria dalla stanza. Così grassa che nessun consigliere osa dirmi di no. Così grassa che gli aspiranti invasori fuggono a gambe levate. Così grassa che gli altri membri della corte fanno del loro meglio per assomigliarmi, mangiando cipolle cotte nel lardo, ma nessuno può eguagliare la mia vista sconfinata, la mia forza, il mio potere. Sono così grassa da poter avere tutti gli amanti che desidero.
Sono così grassa che la grassezza diventa culturalmente inscindibile da un atteggiamento determinato, saggio e diretto. Sono così grassa che i cittadini che si presentano al mio cospetto per ricevere consiglio o aiuto si sentono sicuri all’interno della mia orbita, e poi tornano a casa dalle famiglie e raccontano ai figli che sono ancora più imponente e incantevole di persona. Sono così grassa che, quando giocano, le loro figlie si infilano dei cuscini sotto i vestiti ed esclamano: «Sono la regina!», e poi battibeccano per decidere quante sovrane possono esserci contemporaneamente sulla scena.
Il gesto finale di Ursula era diventare ancora più grande. Occupare ancora più spazio nell’oceano, levandosi più in alto di un grattacielo. Faceva alzare la marea. Riportava in superficie le navi affondate, rimescolando i relitti in un gorgo. Dichiarava che le onde avrebbero obbedito al suo volere, mentre gli altri personaggi, quelli normali, si dibattevano tra i flutti.
Era strega, regina, dea. L’inizio e la fine. Per pochi minuti, lei era tutto.
Ma poi, mosso dall’amore per una donna che per buona parte del film non aveva conosciuto o aveva ignorato, Eric trafiggeva il rotolo di grasso più prominente della pancia di Ursula col bompresso di una nave distrutta. E lei moriva, dissolvendosi nell’oceano. Rimpicciolita, non costituiva più una minaccia.
Il corpo sfacciatamente grasso è pericoloso perché, come molte altre cose pericolose, lascia intendere che c’è un’alternativa alla norma… e che c’è sempre stata un’alternativa alla norma. Lo so io come stanno le cose, dice il corpo sfacciatamente grasso, prendendoti per mano e trascinandoti via dalla massa. Vieni con me e te lo faccio vedere.
Oltre ai loro corpi imponenti e ai loro fedeli lacchè, Ursula e Marjory hanno in comune anche la mente. Una è calcolatrice, spietata e machiavellica; l’altra è irriverente, giocosa e saggia. Ma entrambe si guadagnano devozione, rispetto, paura.
Insomma, anche una mente grassa è pericolosa. Perché, a sua volta, lascia intravedere una strada alternativa.
La scrittrice Shirley Jackson aveva una mente eccezionale, ed era grassa. Adorava i piaceri della tavola, e gli «abiti lunghi e fluenti dai colori accesi», ha scritto la sua biografa, Ruth Franklin, abiti che «enfatizzavano la sua mole». Un amico della Jackson una volta ha dichiarato che «occupava letteralmente mezzo divano, ma non appena apriva bocca tutto cambiava…. Era spiritosa, brillante, e lo sapeva e ne approfittava».
Ma. Che piccola e orrenda congiunzione. Una minuscola parola di due lettere che riduce Shirley Jackson a una contraddizione – una donna grassa che era, stranamente, spiritosa e brillante – invece di riconoscerla per ciò che era veramente: una donna grassa spiritosa e brillante. Tutte le sue qualità, una dietro l’altra.
Le donne sfacciatamente grasse abbracciano la filosofia dello spostamento. Manifestano l’audacia dell’occupare spazio. Fendono l’aria stessa in cui si muovono. Non si tratta solo della grassezza del corpo, ma della grassezza della mente. Se hai un corpo grasso, occupi spazio per forza di cose. Se hai una mente grassa, scegli di occupare spazio.
Ogni volta che vedo una donna grassa con una mente grassa che eccelle in quel tipo di grassezza che adoro, voglio essere la sua ancella. Voglio baciarle i piedi e l’orlo del vestito. Massaggiarle le spalle doloranti. Seguirla in ginocchio con una scodella di latte fra le mani indegne.
A tavola prendo sempre una seconda porzione, e una terza. Ordino antipasti e dessert. Mi entusiasmo per la pasta fatta in casa e per la pancetta di maiale, per la torta al cioccolato, per i Dirty Martini e per le ciotole di sottaceti. A volte, quando parlo di cibo, le persone intorno a me ridono stupite. Credo che, a livello inconscio, non se lo aspettino; si aspettano contegno, morigeratezza e contrizione. E io mi rifiuto di darglieli.
Per anni, i giudizi della società sulla bellezza femminile mi hanno impedito di vedere la lezione di mia nonna. I cosmetici sono preziosi strumenti di occultamento, ma un uso eccessivo è ingannevole, è questo che ci viene detto. I gioielli e i vestiti esistono per mascherare i nostri difetti. Il nostro aspetto esteriore deve riflettere ciò che abbiamo dentro: la vergogna. Lo stile pacchiano di mia nonna attirava l’attenzione su ciò che sarebbe dovuto rimanere nascosto.
Ma adesso, quando mi tingo le labbra di rosso acceso, o mi avvolgo in fili di perle e strass, o mi appendo un vistoso orecchino al lobo forato dell’orecchio, penso a lei. Quando esco coperta di lustrini e pellicce sintetiche, o metto un po’ di profumo sul collo, penso a lei. Faceva quel che la gente diceva che non meritava di fare, e la amo per questo: si sedeva alla specchiera, si guardava, e con audacia si rendeva ancora più vistosa.
È vero che per sedurre Eric Ursula assume le sembianze della giovane, snella e mora Vanessa. Persino lei è costretta a conformarsi alle norme culturali profondamente radicate in questo mondo. Ma quando canta nella sua cabina della nave, infilza un cherubino di legno con una forcina e si guarda allo specchio, è ancora Ursula, che ride a bocca spalancata. E anche se ha il potere di diventare magra – un potere magico vero e proprio, quello per cui le ditte di prodotti dimagranti sarebbero disposte a vendersi l’anima – la sua mente grassa sceglie il corpo grasso.
Così, al tramonto del fatidico terzo giorno, Ursula lascia che l’incantesimo si spezzi. Non solo l’incantesimo che dona ad Ariel le gambe e a lei un vitino di vespa, ma anche quello di cui tutti sono caduti vittima. Prorompe in una risata fragorosa e mostra a una nave piena di nobili lo spettacolo che si stanno perdendo. Squarcia l’abito nuziale, incontenibile; una diga ormai incapace di arginare il fiume.
©Carmen Maria Machado. Tutti i diritti riservati.
La prima raccolta di racconti di Carmen Maria Machado, Her Body and Other Parties, è in uscita negli Stati Uniti per Graywolf Press. Il suo sito internet è http://www.carmenmachado.com
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