Pubblichiamo oggi un bell’approfondimento di Álvaro Santana-Acuña su Gabriel García Márquez e la genesi di Cent’anni di solitudine. L’articolo, uscito originariamente sul New York Times Español, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore. Buona lettura!
di Álvaro Santana-Acuña
traduzione di Claudia Negrini
Gabriel García Márquez commetteva errori di ortografia quando scriveva. Perché scrivendo «ovvedisco di più all’ispiracione che alla gramatica», confessò in un fax informale a Carmen Balcells, la sua agente letteraria. Oltre alle sue battaglie con le regole linguistiche, nell’archivio dello scrittore – che dal 2014 si trova all’Harry Ransom Center di Austin, in Texas – scopriamo i suoi rituali di scrittura e i suoi dubbi creativi. Da qualche settimana [questo articolo è uscito il 30 dicembre del 2017, ndr], all’incirca metà dell’archivio – 27.500 immagini che coprono più di cinque decenni di scrittura – è disponibile gratuitamente su internet.
L’archivio disponibile online contiene informazioni inedite sui successi letterari, sulle ossessioni creative e sulla sua cerchia di amici e colleghi, oltre a nuovi dettagli sul García Márquez padre di famiglia, protagonista della politica latinoamericana e artista di fama internazionale. Come spiego nel mio libro di prossima uscita, Ascent to Glory: How One Hundred Years of Solitude Became a Global Classic, i documenti dell’archivio aiutano a smontare molti dei miti su García Márquez, alcuni dei quali sono stati accuratamente alimentati da lui stesso.
Due dei miti costruiti sullo scrittore fanno riferimento alla sua genialità e all’origine leggendaria della sua produzione. Come altri creatori di opere famose, García Márquez viene di solito considerato un genio solitario colto da momenti di ispirazione folgorante. Si racconta che, dopo che gli venne in mente l’incipit di Cent’anni di solitudine, mentre guidava tra Città del Messico e Acapulco, l’autore lasciò improvvisamente il lavoro e si chiuse per diciotto mesi nel suo studio a scrivere, fino a quando non finì il romanzo. Nel frattempo la moglie si indebitò con i negozianti del quartiere per sostenere la famiglia. L’archivio rivela invece che ottenne un prestito per dedicarsi unicamente al romanzo e che non lo scrisse tutto d’un fiato, in un anno e mezzo, ma in dodici mesi inframmezzati da pause. Non scrisse della solitudine in solitudine, ma in mezzo alla gente.
Mentre scriveva il libro che lo rese famoso, García Márquez si circondò di amici e colleghi. Alcuni lo aiutarono come assistenti nelle ricerche su numerosi temi, per esempio le tecniche alchemiche utilizzate da José Arcadio Buendía, le proprietà curative delle piante che usava Úrsula Iguarán e la storia delle varie guerre in Colombia e America Latina menzionate nelle avventure del colonnello Aureliano Buendía.
Il manoscritto di Cent’anni di solitudine è stato a lungo commentato, revisionato e perfezionato prima della pubblicazione. Quasi ogni sera, a casa di García Márquez e consorte si riunivano il poeta Álvaro Mutis con la compagna e la coppia formata dell’attrice María Luisa Elío e dal regista Jomi García Ascot (a loro, così provvidenziali, fu dedicato il romanzo). García Márquez leggeva ad alta voce o gli parlava di quello che aveva scritto quel giorno e tutti gli davano idee su come poteva andare avanti la storia dei Buendía. Ogni sabato, durante tutta la fase di redazione del testo, l’autore discuteva delle pagine scritte quella settimana con il critico letterario Emmanuel Carballo, il quale gli diede consigli su trama e personaggi. Inoltre condivise il romanzo ancora in lavorazione con scrittori influenti. Per esempio, mandò a Carlos Fuentes a Parigi le prime ottanta pagine del libro. Lo stesso Fuentes pubblicò una recensione entusiasta su Cent’anni di solitudine quando a García Márquez mancavano ancora tre mesi per terminarlo.
In pochi sanno che un anno prima del lancio del libro a Buenos Aires, García Márquez pubblicò separatamente i capitoli più rischiosi in Europa e in America. Voleva conoscere l’opinione dei lettori comuni, dei critici letterari, dei lettori colti e degli altri scrittori e fare qualche cambiamento per perfezionare il testo definitivo, come fece alla fine.
Di García Márquez non si può dire che scrivesse senza incappare in frasi lasciate a metà. Chi consulterà l’archivio scoprirà che il punto cruciale del suo processo creativo stava nella redazione. Era un eccellente, e ossessivo, correttore della sua scrittura, come Balzac. Quando la maggior parte degli scrittori si sarebbe ritenuta soddisfatta del manoscritto, García Márquez continuava a cesellare, a volte con l’aiuto della sua cerchia di amici.
Essendo un perfezionista nato, non esitava a scartare pagine e paragrafi interi e perfino a levigare il testo parola per parola. In Cent’anni di solitudine per esempio, la frase «un calice della sustanza zuccherata color dell’ambra» si trasformò in «un calice della sustanza color ambra», poi in «un calice della sustanza ambrata» e alla fine in «un calice della sostanza ambrata».
A prima vista, questi cambiamenti possono sembrare irrilevanti. Indubbiamente l’autore aveva imparato che la magia della letteratura risiede nella capacità di affascinare i lettori con i piccoli dettagli. «Lo scrittore è colui che scrive una riga e fa sì che il lettore voglia leggere quella seguente», confessò all’amico Guillermo Angulo. Per ottenerlo, García Márquez diminuiva le parole, aggiungeva un’informazione fondamentale o dava al linguaggio un tocco poetico o sensoriale. Per esempio Santiago Nasar, il protagonista di Cronaca di una morte annunciata, prima faceva Aragonés di cognome e, all’inizio del romanzo, si svegliava «alle cinque di notte» e non «alle 5 e 30 del mattino», come nel testo definitivo.
Il confronto dei manoscritti di anni diversi mostra un cambiamento fondamentale nella creatività dell’autore; più invecchiava più il suo talento di revisore diminuiva. La causa principale era la memoria. Non ha mai voluto creare storie che non attingessero a vicende personali e per scriverle aveva bisogno della memoria che lo stava abbandonando, come mostrano i continui punti interrogativi nelle versioni successive dei suoi manoscritti. Per questo lasciò incompleti il secondo volume della sua autobiografia – se ne può consultare una selezione online – e il romanzo En agosto nos vemos, consultabile solo presso l’Harry Ransom Center.
Scopriamo inoltre che García Márquez era ossessionato da quello che scrivevano su di lui e sulle sue opere. Prima di pubblicare Cent’anni di solitudine aveva lavorato in varie agenzie pubblicitarie e aveva imparato che uno scrittore deve vendere ai lettori la sua immagine pubblica nel miglior modo possibile, aspetto che lo preoccupò per decenni. Se in pubblico diceva di essere indifferente alle critiche, in privato collezionò compulsivamente per più di cinquant’anni ritagli di giornale di più di venti paesi in dieci lingue diverse. Nei ventuno album di ritagli disponibili on line, collezionò dalle recensioni delle sue pubblicazioni sul New York Times o Corriere della Sera fino a quelle sulla Gazzetta di Mantova o su El Día, un giornale delle Canarie. Custodì perfino molte recensioni negative (ma costruttive), come quella del critico colombiano che definì Cent’anni di solitudine una «saga prosaica (di) letteratura di evasione».
L’altra metà dell’archivio si può consultare solo all’Harry Ransom Center e include la corrispondenza dello scrittore – che mostra i contatti intermittenti con Julio Cortázar e José Donoso e nessuna traccia della sua fallimentare amicizia con Mario Vargas Llosa, dopo il cazzotto che il Nobel peruviano gli diede in un cinema di Città del Messico – i contratti di edizione, le candide lettere di ammiratori da tutto il mondo, una lettera di rifiuto del New Yorker del 1981 – all’editore non era piaciuto il finale del racconto «La traccia del tuo sangue sulla neve» – e perfino una carta astrale di García Márquez che un’allarmata Carmen Balcells commissionò quando seppe che il suo cliente era nato nel 1927 e non nel 1928 come si credeva.
Tra i grandi meriti dell’archivio c’è l’aver ribadito che diventare uno degli scrittori di maggior successo dell’ultimo secolo fu un arduo compito. «Bisogna stracciare molte bozze per consegnare all’editore poche pagine», disse García Márquez in un’intervista che rilasciò quando aveva ventotto anni, poco dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, Foglie morte. «Chi non ha una vera vocazione per la scrittura si scoraggia».
Senza dubbio, il successo non è dovuto solo al duro lavoro. Dietro all’instancabile artigiano della parola c’era un talentuoso creatore di miti sulla genesi delle storie che narrava nei suoi libri e un artista inserito in un’eccezionale cerchia di amici e colleghi. Senza quell’aura mitologica e quelle conoscenze, Cent’anni di solitudine e García Márquez sarebbero potuti finire nel cimitero dei libri e degli scrittori dimenticati.
© Álvaro Santana-Acuña, 2017. Tutti i diritti riservati.
Álvaro Santana-Acuña è professore di sociologia al Whitman College e autore del libro in corso di pubblicazione Ascent to Glory: How «One Hundred Years of Solitude» Became a Global Classic.
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