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Lettera di uno scrittore ai suoi insegnanti

Nana Kwame Adjei-Brenyah Autori, BIGSUR, Nana Kwame Adjei-Brenyah, Scrittura

Nana Kwame Adjei-Brenyah è l’autore della raccolta di racconti Friday Black, uno degli esordi più fortunati del 2018 sulla scena letteraria americana. Segnalato come uno dei cinque migliori autori statunitensi sotto i 35 anni dalla National Book Foundation, entrato nella classifica dei best seller del New York Times, intervistato al celebre Late Night Show della NBC, vincitore del PEN/Jean Stein Award (che premia ogni anno un libro «che ha ridisegnato i confini del suo genere e mostra la potenzialità di esercitare una duratura influenza»), Adjei-Brenyah ricorda qui i suoi inizi, e le persone e i consigli che l’hanno aiutato ad acquistare sicurezza come scrittore – e come insegnante.

Il pezzo è uscito originariamente su LitHub, e viene qui ripubblicato per gentile concessione dell’autore.

di Nana-Kwame Adjei-Brenyah
traduzione di Martina Testa

Ai miei mentori,

Grazie.

Siete in molti, e sapete chi siete.

Io sono nato nel Queens, ma in realtà vengo da Spring Valley, nella contea di Rockland, stato di New York. Questo lo ripeto spesso. E non lo dico così, senza motivo, ma perché nel posto da cui vengo, così vicino alla metropoli dove succede tutto, a un certo punto quando sei piccolo ti si scolpisce dentro qualcosa: la sensazione di un quasi, ma non proprio. Quasi, quasi.

Sono cresciuto dentro biblioteche e librerie piene delle vostre pagine. All’epoca non avevo idea di chi foste. Non sapevo neanche che poteste esistere. Leggevo romanzi per ragazzi e gialli il cui finale dava sempre un’idea di giustizia. Ho imparato ad amare la lettura in una maniera che era spontanea, casuale, parte della vita quotidiana. Non c’era di mezzo nessuno status. Non cercavo la «letteratura»: non sapevo cosa significasse. E il più delle volte non lo so neanche ora. Ho imparato a pensare ai libri come oggetti magici, nati dal nulla, che vivevano sugli scaffali. All’epoca non vi conoscevo.

Adesso so da dove viene la magia. Ma prima di saperlo, ero certo che ovunque fosse quel posto, io non ci potevo arrivare. Sul soffitto della libreria Barnes & Noble del Palisades Mall, nella contea di Rockland, sono dipinti una serie di grandi scrittori: Ernest Hemingway, Zola Neale Hurston, Charles Dickens e vari altri, seduti a prendere il tè. Io, dentro quel centro commerciale, lavoravo in un negozio chiamato, ve lo giuro, Against All Odds [«Contro ogni previsione», n.d.t.]. Durante le pause entravo in libreria e guardavo il dipinto. I personaggi somigliavano quasi a esseri umani, ma per me erano qualcosa di più.

Ho frequentato un’università statale che non mi potevo permettere, sentendomi povero, inadeguato e scemo. Tu eri lì. Mi hai trovato perché io ho trovato te. Ho insistito, ti ho pregato con gli occhi di aiutarmi a pensare che era possibile diventare come voi. Voi, che mettete la magia sugli scaffali. Ero terrorizzato, ma ho trovato il tuo ufficio e ho sperato. Tu c’eri, e mi hai accolto offrendomi storie, tè, storie e ancora storie. Di colpo ero diventato un lettore di letteratura. Ho seguito il tuo corso, un laboratorio per studenti del primo anno tenuto da qualcuno che scriveva per mestiere. Che creava di magia. Ho scritto dei brutti racconti. Tu me l’hai detto, ma in un modo che potevo sopportare. Un manoscritto infarcito di rosso. Ho imparato, allora, che i manoscritti coperti di inchiostro rosso sono una sorta di linguaggio d’amore. Grazie per avermelo insegnato così presto. Grazie anche solo per avermi visto. Grazie per avermi indicato, con quelle storie e con la tua gentilezza, la strada verso i mentori che mi avrebbero salvato più avanti.

nanaHo fatto domanda di iscrizione a tre master in scrittura creativa perché potevo permettermi di pagare la quota di invio solo per tre domande. Il mio scrittore preferito insegnava a Syracuse e, con una di quelle botte di fortuna che nascono dal duro lavoro, sono stato ammesso. Il corso era gratis, l’unico prezzo alla mia portata. E ho pensato: forse ci sono quasi? 

Una volta lì, ho passato notti insonni nella mia stanzetta, convinto di essere un impostore. Ma a lezione ci andavo. Mi mettevo a cercare roba su Google durante le più normali conversazioni perché mi pareva che si parlasse solo di cose di cui ignoravo completamente l’esistenza. Quando sono arrivato a Syracuse avevo ventidue anni. Ero l’ambizione corrosiva che si stava trasformando in veleno. Avevo sempre un sorriso stampato in faccia. Se uno sorride molto, la gente pensa che sia felice. Tu mi hai aiutato a trovare una direzione. Al primo anno del master sono stato accolto con grande gentilezza. Ero spaventato, perciò i racconti che scrivevo erano quasi sempre brutti. Tu sei stato capace di vederli, di fare onore ai miei sforzi, di spronarmi. Grazie. Venivo a lezione e continuavo a sorridere. Ci provavo. Mi hai dimostrato di credere che io potessi davvero riuscire in qualcosa, che stessi già riuscendo in qualcosa. E questo mi serviva. Ero un pozzo senza fondo di insicurezza. Quando l’ambizione sfrenata incontra il gelo dell’insicurezza, spunta qualcosa di triste e tagliente. Con la tua guida precisa e gentile mi hai ricordato che ero solo uno che ci stava provando, e mi hai fatto sentire che tanto bastava. «Falla sterzare, la storia», mi hai detto. Qualunque storia può sterzare. Non me lo scorderò mai.

Ho passato l’estate a lavorare con un impegno che non ci avevo mai messo prima. Il semestre successivo, in un workshop, ho scritto un racconto che tutti hanno fatto a pezzi. Stroncato completamente. Era brutto. Ma io ci sono rimasto comunque di merda. È stato pesante. Ma tu, pur facendomi capire che non era una buona prova, mi hai anche detto: «Il finale, però, il finale è impeccabile». E quella parola, «impeccabile», me la sono tenuta stretta al cuore per un mese. Mi sono pianto addosso, pensando al nuovo scrittore, di gran lunga più bravo, in cui credevo di essermi trasformato durante quell’estate. E sono diventato più forte. Tu ci hai detto di amare la nostra voce ma ricordandoci sempre di ascoltare la musica che abbiamo intorno. Mi sono sentito più saggio. Grazie. Mi hai dimostrato di tenerci abbastanza da non indorarmi mai la pillola. Quello stesso anno mi hai dato una motivazione. Hai chiesto: «E se una storia potesse salvare il mondo?»

Com’è fatta una storia che salva il mondo?, mi sono chiesto. E da allora non ho più smesso.

Poi avevo un libro finito. O quasi, insomma. Ma aveva dodici volti diversi; non sapeva chi era. Ho passato tanti colloqui con te a cercare di farmi dire che tipo di scrittore essere. Ti prego, dimmelo. Dimmi cosa è meglio che faccio. E io lo faccio. Giuro, pensavo mentre ero seduto in un ufficio con il mio scrittore preferito.

Quando ti ho chiesto chiaro e tondo se era meglio che mi sbilanciassi più sul versante del realismo o della surrealtà, tu hai delicatamente spostato il discorso. Sii preciso, sii chiaro.

Quando ho cercato di capire da indizi più sfumati che tipo di scrittore ti sembravo destinato a diventare, ho scoperto una cosa incredibile: mi consideravi capace di fare qualunque cosa. E allora l’ho fatta. Grazie. Mi hai dimostrato che non c’è bisogno di scegliere: mi hai detto che anche una storia di fantasmi è realismo.

Dico tutto questo perché ora insegno. Adesso ho persone a cui faccio a mia volta da mentore, e voglio dichiarare ufficialmente che voi mi avete aiutato molto più di quanto pensate. Mi avete insegnato a provare a rendere quello che scrivo inattaccabile, mi avete fatto vedere tutti i modi più strani in cui possono venir fuori le parole. E più che insegnarmi, avete parlato con me non come se fossi quasi, ma come se fossi proprio. Come se fossi già a quel punto. Già rilevante. Già quello che speravo di essere, o qualcosa di ancora più grande. Grazie.

Ora che tanti dei miei eroi sono diventati miei colleghi, penso a me stesso più che altro come a un insegnante. Ed è solo insegnando e lavorando davvero con gli studenti che riesco a provare una gioia totale e assoluta. Un’esplosione nel cuore che si riverbera fino alla punta delle dita. La sento quando i miei allievi sono fieri di sé, quando mi mostrano i loro successi, quando mi dicono che ho avuto un piccolo ruolo nel percorso di scoperta della loro identità artistica. Amo i miei studenti e le persone a cui faccio da mentore. Mi piace l’idea di far parte di una lunga tradizione d’amore che si tramanda insegnando una tecnica.

E quindi mi sforzo di essere un mentore vero. Un mentore vero ascolta l’allievo quando gli racconta chi spera di diventare, e un buon mentore fa del suo meglio per farcelo arrivare, anche se sa che durante il tragitto, con ogni probabilità, l’allievo diventerà un’altra cosa, qualcosa di intrinsecamente migliore di quanto avesse mai sperato. I suoi consigli e il modo in cui li dà sono guidati dalla generosità. Un buon mentore sa che anche se stai provando a fare qualcosa di impossibile, non sei soltanto quasi uno scrittore. Sei uno scrittore in quanto ci provi.

Voi mi avete insegnato a insegnare con amore, e cazzo, quanto ne avevo bisogno. Grazie.

© Nana Kwame Adjei-Brenyah, 2018. Tutti i diritti riservati.

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