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Lamborghini e Laiseca: furore di Buenos Aires

Luciano Funetta SUR

Buenos Aires è città letteraria per eccellenza: terra di romanzieri e poeti, che ha assunto negli anni forme e colori sempre diversi. Pubblichiamo oggi un pezzo di Luciano Funetta, che ci racconta la sua Baires, immaginaria e immaginata, in compagnia di Osvaldo Lamborghini e Alberto Laiseca. L’articolo è uscito su Terranullius, che ringraziamo.

«Lamborghini e Laiseca: furore di Buenos Aires»
di Luciano Funetta

Esistono città di cui non conosciamo altro che i nomi e le leggende. Nel corso di alcune notti di particolare dolcezza, quelle città ci appaiono in sogno, si srotolano davanti ai nostri occhi in tutta la loro estensione, le vediamo cavalcare l’orizzonte notturno e l’aria si riempie di musica, parole e intere frasi in lingue straniere si fanno udibili, sussurri ci assalgono dagli angoli in penombra, ombre spettrali sorridono nel buio dei loro nascondigli.

Sono queste le città immaginarie. Si tratta di luoghi reali che è possibile indicare senza esitazione su un planisfero. Eppure il fatto di non averle mai visitate le trasfigura, le rende preda dell’immaginazione più sfrenata, e quelle città si fanno familiari nell’unica dimensione possibile della letteratura che è fuga e invenzione. Leggere poesia – e qui la poesia è tutto – equivale a bruciare i planisferi, gli stradari, mandare in frantumi i mappamondi con un colpo di frusta. Le città di cui parliamo, le città letterarie, sono quindi i luoghi dove per sempre si muoveranno i fantasmi di quelle creature mostruose, ballerine, sperdute che sono gli scrittori che in quelle città hanno vissuto. E tutto questo accade in sogno.

Nei miei sogni, da molti anni a questa parte, mi ritrovo a esplorare la città di Buenos Aires. Su di lei ho letto molto, ne ho studiato il reticolo stradale elementare, l’ho conosciuta attraverso i suoi romanzieri, i suoi autori di racconti e di aguafuertes – tutti, con poche eccezioni, poeti tormentati dalla vergogna della poesia –, e l’ho immaginata in cento forme: città del fango rosso, città dei coltelli, città dei caffè stagnanti, città di marinai troppo vecchi per il mare, città di cadaveri, città di zombie percorsi dalle scosse elettriche, città della modernità improvvisa, città dei ciechi, città occulta, città di scantinati miracolosi, città immersa in un’eterna notte senza sonno, città dell’eleganza della polvere e del furore di amori all’ultimo respiro. Ogni scrittore bonearense ci ha consegnato la sua visione della città, facendo in modo che da questa parte dell’oceano sorgesse una seconda Baires, una Baires diversa, del tutto folle e senza alcun dubbio inesistente, al cospetto della quale tutti noi lettori affamati sospiriamo di nostalgia, immaginando un giorno di poter mettere piede, il nostro piede sinistro, nel regno labirintico di sua maestà Luis Borges o in quello rissoso e malinconico di Roberto Arlt.

A dire il vero, anche se è a questi due nomi che devo la mia malattia per la capitale argentina, nei sogni in cui la città appare mi capita sempre più spesso di imbattermi in altre due figure ben distinte. Si tratta di due uomini dalle dita macchiate di inchiostro. Li vedo seduti nello stesso locale, uno da una parte e l’altro dall’altra della sala. Guardano verso la minuscola pedana di legno dove il vecchio Nacho Whisky sta recitando Los heroes del amor. Sembra che non si accorgano di nulla, la mia presenza non li disturba. Resto a osservarli per un paio d’ore. Entrambi bevono birra da enormi boccali macchiati di calcare e si ignorano a vicenda. Il primo, quello seduto a sinistra, è lo spettro di un uomo morto e il suo nome è Osvaldo Lamborghini. Il secondo, anche lui a suo modo un fantasma, invece ancora vivo, si chiama Alberto Laiseca. Chiunque sappia qualcosa di letteratura esorbitante, esilio, Rimbaud, cani randagi, umorismo e arti marziali – ovviamente è necessario conoscere alla perfezione tutte queste discipline insieme – sa bene che quei due uomini vivono da molti anni nella grande residenza degli scrittori miracolosi, autori di opere maestose e introvabili, cosa che puntualmente li ha condannati alla leggenda e a una vita disgraziata.

Osvaldo Lamborghini

Osvaldo Lamborghini

Il primo, Lamborghini, è un uomo pallido, labbra sottili, il viso gonfio d’alcol, le mani aristocratiche. È tornato a Buenos Aires, la mia Buenos Aires immaginaria, da Barcellona nel 1985, subito dopo essere morto. In vita ha scritto moltissimo e pubblicato quasi nulla. Si è tenuto al margine della vita letteraria e questo gli ha reso salva la dignità e la poesia, una poesia totale che manda bagliori nella notte, una poesia come «ultimo tentativo prima della perdizione definitiva». Ha rotto con tutto, Lamborghini, ha fatto della tradizione delle generazioni precedenti un mucchio di frantumi, ha preso il linguaggio e ne ha fatto un’arma contro la tristezza, la noia, l’accademia, un’arma brandita «nella posizione di cantare, nella posizione di morire». Nel sogno a volte lo incontro e lo vedo che fruga nella disgrazia, fruga dentro Buenos Aires e dentro la Storia, l’unica opera senza autore, e ne tira fuori venti pagine lerce, oscure e allo stesso tempo affilate come la luce sulla lama del bisturi, quelle pagine che chiamerà El fjord, il suo primo racconto pubblicato da una casa editrice ormai scomparsa, forse mai esistita. Qualche anno fa un’amica da Buenos Aires ha fatto in modo di spedire a casa mia i due volumi dei racconti di Lamborghini ripubblicati di recente da Mondadori Argentina. Così ho letto El fjord e poi Sebregondi retrocede, e mi sono ritrovato a fare i conti con una letteratura sconosciuta, inarrestabile, terrificante, perché leggere i racconti di Lamborghini significa soprattutto tuffarsi senza esitazione in una forma antica di paura, la paura della parola. Il terrore in Lamborghini scaturisce dall’ironia e dalla violenza dello sguardo, perché se è vero che è l’atto a essere in sé violento, esiste una forma di violenza che alcuni riescono a esercitare su sé stessi, la violenza del guardare, del non distogliere gli occhi, del registrare e trasformare, del mettere parole al posto delle sagome sudate che strisciano nel buio. Per questo a quei racconti ero sopravvissuto, ma non ero vivo, ero ancora prigioniero delle pagine e lo sono rimasto a lungo. Uno o due anni dopo sono venuto a sapere che le edizioni Scheiwiller avevano in programma una traduzione di alcune poesie di Lamborghini. Procurarmele e leggerle è stato il colpo definitivo. L’arma di Lamborghini si è abbattuta su di me e mi ha scagliato nella sua selva di bellezza consacrata alla distruzione del politicamente corretto, dell’umanamente rispettabile, del letterariamente familiare, e alla fine dell’invettiva – un’invettiva disperata e solitaria – rimane un verso che dice: «Ci siamo amati perché i poeti amano sempre». E tutto sprofonda, anche l’Aleph sprofonda, l’intera Buenos Aires sprofonda laddove Lamborghini posa il piede sinistro, sceglie il suo ghigno e si mette a scrivere, principe della letteratura, mentre nel locale del mio sogno Nacho Whisky inizia a piangere e gli spettatori applaudono.

Alberto Laiseca

Alberto Laiseca

Quell’applauso sembra risvegliare il secondo fantasma da un torpore secolare. I baffi alla Nietzsche masticano un mozzicone di negra. Sono baffi gialli, secchi come foglie di palma, e l’uomo dietro i baffi è Alberto Laiseca, il fantasma vivo, l’uomo del terrore e delle risate che soffocano i polmoni. Il piccolo tavolo di legno del boliche quasi non riesce a contenerlo, perché Laiseca è enorme, smisurato, possiede un corpo da gigante che trascina per le strade della capitale come se si portasse dietro un sacco di vecchi vestiti, con eleganza. Laiseca è una vecchia tigre sdraiata sulla pelle di vacca della letteratura, e la pelle di vacca si trova al centro di una stanza che la tigre non ha esitato a mettere a soqquadro. Si tratta di una stanza molto simile a quella in cui Laiseca colloca il protagonista del suo Avventure di un romanziere atonale, di recente pubblicato in italiano da Arcoiris. La stanza si trova in un edificio labirintico, governato da una vecchia intossicata dal totocalcio, e il protagonista del racconto è un romanziere pazzo, ovvero un romanziere che si rifiuta di consegnare ai suoi lettori la quiete delle parole già sentite. Piuttosto preferirebbe fulminarli o suicidarsi. Invece il destino lo condurrà al cospetto di un editore masochista, uno di quegli editori che una volta nella vita chiudono gli occhi davanti al fallimento della loro inutile crociata e si mettono a pubblicare come se non ci fosse nessuna rispettabilità da tenere in considerazione, un editore che perde il senno trasformandosi così in un vero editore, in un vero kamikaze, un vero cretino. Il romanziere atonale, la vecchia tigre, riscuote un successo assurdo e la rovina ha inizio. Come aveva scritto Lamborghini: «I lettori arrivarono e la festa finì». Tutto, nelle opere di Laiseca, è uno specchio magico che moltiplica il furore. Il furore esplode come un fiore tropicale carnivoro, un fiore canterino e danzante figlio del punk e del barocco che richiude su noi poveri lettori-insetto i suoi petali rossi facendoci urlare di terrore ma lasciandoci illesi, sussurrando: «Vi bombarderò con un vuoto pieno di deserti», stronzetti. Non esiste disciplina che Laiseca non abbia avuto il coraggio di inserire nella sua letteratura, con l’entusiasmo del dilettante e la solennità del professore ubriaco che tenta di mantenere il contegno davanti all’uditorio di un convegno internazionale. Appassionato di religione egizia e profondo studioso di matematica e fisica quantistica, Laiseca è semplicemente lo scrittore impossibile, lo scrittore enorme di fronte al quale i premi letterari sembrano inutili come bicchieri di carta calpestati durante la festa per il funerale di un poeta. E nel sogno, all’improvviso, mi sembra di trovarmi in una situazione del genere. Nacho Whisky sta cantando Los heroes del amor e sta versando lacrime per quei due fantasmi della Buenos Aires Ovest che si trovano per miracolo nello stesso locale, silenziosi, consapevoli del fatto che letteratura ha il compito di prendere il mondo e di trascinarlo di peso alla toilette nel bel mezzo dei festeggiamenti, prima che si metta a vomitare sul pavimento, il mondo disgustato da se stesso, il mondo ubriaco, il mondo dalla sbornia triste.

Una gran confusione, questo sogno. Una gran confusione la nostalgia per una città mai vista, una città immensa in cui i fantasmi di Lamborghini e Laiseca stanno in silenzio e lentamente, come fuochi fatui, svaniscono l’uno dopo l’altro, si trasformano in parallelepipedi di carta sugli scaffali. Non tutti sanno credere ai poeti. Credere ai poeti e vederli in carne e ossa davanti a noi è una rarità e una condanna, così come credere in una città inesistente può farci sembrare pazzi.

Ma tra quattro giorni, Buenos Aires, ti vedrò davvero e verrò a cercarvi tutti, miei fantasmi, miei poeti, amici miei.

 

Bibliografia italiana:
Osvaldo Lamborghini, Il ritorno di Hartz e altre poesie, Scheiwiller (a cura di Massimo Rizzante);
Alberto Laiseca, Avventure di un romanziere atonale, Arcoiris (a cura di Loris Tassi).

Bibliografia in spagnolo:
Osvaldo Lamborghini, Novelas y cuentos I – II, Mondadori Argentina (a cura di César Aira);
Alberto Laiseca, Cuentos completos, Simurg.

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