Alan Pauls, l’autore di «Storia dei capelli», è un acuto lettore e ha sempre dedicato in particolare le sue attenzioni alla produzione letteraria di connazionali e coetanei. Nel testo di cui pubblichiamo oggi la prima parte si occupa dello scrittore argentino Martín Caparrós, intervistandolo telefonicamente in occasione dell’uscita del romanzo «La historia», nel 1999.
di Alan Pauls
traduzione di Raffaella Accroglianò
Se uno chiama per telefono a casa di Martín Caparrós possono accadere due cose. Una che risponda lui, Caparrós medesimo, che con la sua migliore voce da avviso di chiamata – un pizzico di fastidio e d’insolenza – proponga di risentirsi un po’ più tardi, quando avrà finito con “l’altro”. Due, che mancando Caparrós, verosimilmente occupato con qualche schiocchezza a Ceylon, Bali, Goa o una qualsiasi delle destinazioni che lo distraggono dal parlare al telefono, dall’ascoltare musica vallenata, dallo scrivere libri monumentali, quella che risponde sia la sua voce registrata nella segreteria telefonica. È una voce radiofonica: grave, come assorta nella propria fama, la stessa voce di bambino corpulento e maleducato che Caparrós lanciò nell’etere per la prima volta durante la primavera di Alfonsín, quando inventò e condusse con Jorge Dorio la hit radiofonica “Sogni di una notte di Belgrano”. In questo caso, la voce conferma che si è digitato il numero corretto e dopo, con una certa arrogante rassegnazione, dichiara: “Questo è tutto”.
Venendo da Caparrós, che ha appena ricostruito in tre volumi di ottocento pagine il minuzioso tessuto insurrezionale degli anni ‘70, la frase suona un po’ come un insulto. Qualcosa tra la falsa modestia e la sfacciataggine di chi conta i suoi soldi davanti ai poveri. “Leggimi o lasciami perdere”, sembra dire a voce bassa, per poi aggiungere dopo con un’ombra di sfida, un poco alla David Viñas: “Non mi pento di nulla, non ho intenzione di cambiare nulla e, cosa più importante, sono qui per sostenere con il mio corpo ogni singola pagina che circola con la mia firma”. Questo afferma Caparrós, lontano dalle fragilità che stanno colorando gli ultimi stili di vita letteraria. Gli piacciono i paradossi, come a tutti, ma non li utilizza tanto per scappare quanto per “tagliare” un’assertività che altrimenti si potrebbe confondere con la semplice enfasi, l’affanno argomentativo e la sentenza. Caparrós è agile (nonostante il suo metro e 86), spesso autoironico (nonostante la serietà dei suoi baffi), perfettamente in grado di costeggiare le proprie posizioni (nonostante la sua vocazione “centrata”), ma dietro a tutte queste finte c’è qualcosa che resiste, identico e spietato: l’ambizione di essere d’aiuto alle parole.
(Per quindici anni, da No velas a tus muertos (1986), il suo primo romanzo, a La noche anterior (1990), da Larga distancia (1992) a La voluntad (1997), la narrativa e la prosa giornalistica di Caparrós approfondiscono sempre più la stessa costellazione di enigmi: qual è l’autorità delle parole? Quando smettono di descrivere per diventare fondanti? Che strano tipo di autorità creano le parole, insieme banale e sovrana?)
Verità e finzione. Lo scorso anno è stato per Caparrós quello di La voluntad, strano esercizio di archeologia esistenziale nel quale il giornalista-storico documentarista rilevava, limitandosi a presentarle, sincronie e rotture tra le due “colonne” che formarono gli anni ‘70: una colonna sonora (slogan, grida di guerra, nomi falsi, proclami: ”il discorso politico”) e una colonna “vitale” (un modo politico di esistere, fatto di parole ma anche di gesti, gusti, consumi…). Quest’anno, ringalluzzito dalla voluttuosità di fine secolo, Caparrós, dopo quasi otto anni in cui non aveva pubblicato narrativa, fa la sua rentrée con La Historia (1999), un romanzo che in quasi mille pagine non contiene una sola frase vera e nessuna falsa. Un libro-monumento, come La voluntad, radicato però non nella storia ma nell’immaginazione di uno scrittore che aveva paura di essere solamente un volenteroso amanuense di storie che “venivano sempre in mente ad altri”.
Come suole accadere a Caparrós, l’origine di La historia, adesso, a tredici anni di distanza da quando iniziò a pensarla, tende a confondersi con una vecchia boutade, uno di quegli scherzi a metà strada fra un’idea e la sua stessa parodia: “Mi avevano invitato a una tavola rotonda alla Fiera del Libro. Il tema, una domanda che qualcuno aveva sentito e annotato male, sicuramente, era: Quale libro le sarebbe piaciuto leggere? (… e non ha potuto perché la luce se n’è andata, veniva voglia di completare). Suonava un poco assurdo ma comunque mi fece riflettere. E mi venne in mente che un buon impedimento a leggere un libro era che il libro non esistesse, che non fosse stato scritto. Quindi pensai al libro inventato da Borges nel racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. Borges lo invoca ma, istericamente, non lo scrive: lo elude. Bene, io sono caduto nella trappola: mi ci sono messo e l’ho scritto. Dinanzi all’astuzia dell’isterica, sono caduto nella leziosità della casalinga. O della brava mogliettina”.
Una boutade è istantanea. Ma quando dura più di mille pagine, può generare qualcosa di sconcertante come il romanzo che Borges non scrisse mai, un libro dotato di tutto ciò che Borges scongiurava nel genere “romanzo”: un vero mostro d’ambizione e di volontà letteraria, nemico dell’omissione, delle mezze tinte, di qualsiasi forma di precauzione. La relazione con “Tlön” non è l’unico borgesismo che filtra in La historia. Caparrós, laureato in Storia alla Sorbona, ha scelto come incipit la stessa frase di Cervantes che Borges fa riscrivere al testardo Pierre Menard: “La verità, di cui è madre la storia, che ben può essere detta emula del tempo, archivio dei fatti, testimonianza del passato, esempio e ammonizione del presente, insegnamento dell’avvenire…”.
Questa epigrafe funziona come una sorta di soglia paradigmatica: attraversarla vuol dire sapere che la verità, la storia e la finzione, intrecciate e derise alla maniera borgesiana di “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, sono i tre pilastri di La historia, e pure che se c’è qualcosa che per Caparrós meriti il nome di “Sacre Scritture”, questo è il Don Chisciotte: “Quindici, sedici anni fa, in un articolo che pubblicai nel ‘Diario 16’ di Spagna, sostenevo che dai romanzi cavallereschi provenivano i due grandi rami della letteratura latinoamericana. Uno era la sua parodia volontaria (il Don Chisciotte, il Romanzo, diciamo); l’altro la sua parodia involontaria (le cronache delle Indie), in cui i conquistatori cercavano di vedere qui quello che si erano immaginati ascoltando le storie delle Amazzoni o di Amadís. Questi due erano stati per secoli i percorsi delle lettere latinoamericane, e in qualche modo confluirono entrambi nel realismo magico. Soprattutto in Cent’anni di solitudine, che era diventato una sorta di nuovo libro cavalleresco. E io mi domandavo: quando arriverà il Don Chisciotte? In quel testo dell’83, sicuramente scritto molto male, c’era già il programma di La historia”.
Io perseguo una forma. Ma l’epigrafe, improvvisamente, serve anche a ricordare che a Caparrós si deve anche la biografia apocrifa di un argentino chiamato Balvastro, un famoso capitolo della televisione ingannevole che tramò nel 1988 per il ciclo “El Monitor Argentino”. Anche se La historia riprende con enfasi questo vizio prevaricatore, questa volta Caparrós, che è cresciuto, non si limita più a immaginare una vita. Immagina una civiltà intera, che battezza con il nome di Calchaqui, e le fornisce lingue, costumi, regimi politici, eccentricità, armi, idiosincrasie gastronomiche, miti, letterature, capricci sessuali, sadismi, sovrani, rivoluzioni, epopee, patetismi quotidiani e la durata di cui qualsiasi civiltà ha bisogno per catturare l’attenzione della miopia storiografica.
La historia è l’ostentazione di questa invenzione, al tempo stesso proporzionata e smisurata – la prima che Caparrós, dopo anni in cui si è limitato a “modellare e rimodellare materiali altrui”, riconosce come propria – ed è anche una cavalcata esaustiva, sorprendente, attraverso tutti i generi, le discipline e i saperi con i quali i falsi mondi della letteratura giocano a farsi passare per veri.
Nei tredici anni che sono stati necessari per scriverlo, il romanzo ha attraversato stati e vicissitudini diverse. I primi indizi apparvero a Valsaín, un paesino di Segovia nel quale Caparrós, che viveva in Spagna, si era rifugiato per scrivere La noche anterior: storie immediate, lievemente fantastiche (come quella di un “giovane musicista tedesco che scopriva di poter riprodurre con la sua musica spazi classici, già scomparsi, come il tempio di Agrigento”) che cominciavano a complottare contro il romanzo in corso. Dopo, quando iniziarono a proliferare, Caparrós concepì una “specie di macchinetta capace di collegarle tutte. Era la descrizione di un personaggio per parti. Cominciava dai capelli, che davano adito a molti racconti; dopo descriveva la fronte e questa portava ad altre storie, e così di seguito”. Lo stratagemma sopravvisse e figura nella versione definitiva del romanzo, ma non fu il principio della stesura. Finché un paio di anni dopo, durante un tormentato fine settimana a Tigre, Caparrós, il fobico, scoprì la chiave.
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