negroygordo

Il fútbol puro e sporco del Negro Fontanarrosa

Fabrizio Gabrielli Ritratti, Scrittura, SUR

In attesa della pubblicazione del primo titolo di Roberto Fontanarrosa tradotto in italiano, il romanzo LArea 18, in uscita per 66thand2nd, pubblichiamo un intervento di Fabrizio Gabrielli sullautore e la sua scrittura ironica e sfuggente.

«Il fútbol puro e sporco del Negro Fontanarrosa»
di Fabrizio Gabrielli*

C’è una foto – dev’essere stata scattata in un qualche momento imprecisato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – che immortala Roberto Fontanarrosa e Osvaldo Soriano seduti allo stesso tavolo. Indossano entrambi una maglia rossa, portano la barba, bevono vino. Con tutta probabilità – le foto, lamentabilmente, sono capaci d’imprigionare solo l’immagine d’un istante, le parole sfuggono ai lampi accecanti dei flash – stanno parlando di calcio. O di letteratura. Per loro, dopotutto, era un tutt’uno.

Se dovessimo azzardare un parallelo tra Soriano e Fontanarrosa, potremmo dire che i loro ruoli, nel frame “letteratura calcistica”, sono vicini e distanti insieme, come quelli del calciatore e del tifoso. Accomunati da una passione viscerale per il football, e da una penna magnificente quando messa al suo soldo, nondimeno la sperequazione di fama tra i due risulta oggi essere abissale. 

Se El Gordo, con una serie di funamboliche giocate, è riuscito di imporsi dentro e fuori i confini nazionali come la quintessenza della scrittura applicata al calcio, al contrario la prolifica produzione letterario-futbolistica del Negro è rimasta confinata a nicchie ispanofone partitarie e irriducibili tanto quanto le tifoserie che s’annidano in curva.

Nella prefazione all’edizione francese dei Sette pazzi di Arlt, Julio Cortázar scriveva che «ci sono poeti e narratori la cui simbiosi totale con gli ambienti popolari della città in cui hanno vissuto, e che è stata quasi l’unico tema della loro opera, è tale che la traduzione […] diventa un’impresa quasi impossibile, e quasi sempre approssimativa […] come del resto si perdono il senso e la bellezza di un tango cantato in francese». E continuava dipingendo Arlt come uno «scrittore argotico», prono all’uso del lunfardo, consapevole del potenziale espressivo del linguaggio della strada, poco digeribile ai più; e lo definiva poi anche cursi (secondo Cortázar parola intraducibile, che designa il senso estetico basilare di quelli che considerano raffinato o elegante ciò che raffinato o elegante non è, pur avendo la pretesa di sembrarlo).

Il ritratto cortazariano di Arlt combacia perfettamente con la figura che possiamo farci di Fontanarrosa, e in qualche modo spiega (ma non giustifica) il ritardo con il quale ci prepariamo ad accoglierlo in Italia: Fontanarrosa è stato uno scrittore argotico, eminentemente e provocatoriamente cursi, indigeribile.

Per i tipi di 66thand2nd è in uscita L’Area 18 (traduzione di Chiara Muzzi, 336 pp., 17 euro), la prima opera di Fontanarrosa tradotta in italiano.

Curioso crocevia tra il romanzo picaresco, la spy story e il pamphlet satirico, El área 18 è il secondo dei soli tre romanzi scritti da Roberto Fontanarrosa, e di certo quello più intriso di fulbo.

L’intera storia ruota attorno alla figura di Best Seller, già personaggio dell’omonimo primo romanzo fontanarrosiano (edito nel 1981 da Editorial Pomaire). Best Seller è un ex calciatore siriano votatosi al ruolo di mercenario: ne L’Area 18 è al soldo della controversa multinazionale Burnett, proprietaria di una squadra di calcio chiamata a giocarsi la vittoria, in sfida secca, senza possibilità d’appello, contro la nazionale del piccolo e agguerrito stato africano di Congodia.

Nel Congodia il calcio svolge un compito primario: quello di strumento bellico, collante sociale e ingrediente primo del sostrato mitico. Il calcio in Congodia è «storia, orgoglio ed epica nazionale». Uscendo vittorioso da una partita di calcio il Congodia ha guadagnato l’indipendenza; sfidando sul campo le nazioni vicine ha conquistato semenze per il suo sostentamento, donne per riprodursi, sbocchi al mare. Al marcatore della rete decisiva per l’indipendenza è dedicato l’aeroporto, ai calciatori sono state erette statue in memoria e musei di cimeli. Il calciatore congodì è a un tempo patriota, eroe, semidivinità. Lo stadio nazionale, il Bombasì, si trova dentro il cratere di un vulcano ancora attivo, il Mombasa. Giocarci è sfidare l’accanimento selvaggio degli spettatori e della natura, e scegliere di farlo è per un obiettivo imprescindibile, o non è. In questo caso, sconfiggere la nazionale africana è, per la Burnett, il lasciapassare per installare una stazione missilistica nel cuore strategico dell’Africa Nera.

Mediante tutt’una serie di rimandi, ora sottili, ora macroscopici, ogni scelta tematica e stilistica fontanarrosiana sembra denunciare la volontà dell’autore rosarino di ironizzare – e quando l’ironia si presente ripetuta e ficcante prende i connotati di condanna – sulla geografia politica e calcistica mondiale degli anni Settanta. Il calcio, va da sé, non è che un grimaldello metaforico: lo strumento chirurgico preferito di Fontanarrosa, che in un’intervista dichiarerà che per tutta la sua carriera (e soprattutto nei quindici volumi satirici pubblicati per Ediciones de la Flor) non ha fatto altro che scrivere di «calcio, sesso, calcio, politica, sesso, cultura, calcio…».

Al di là dell’evidente condanna d’ogni afflato neocoloniale – la fame di vittoria della Burnett è armata dai capitali e dalla spocchia yankee, e di certo poco intrisa di sportività – sotto la lente di Fontanarrosa viene messa in evidenza anche la tendenza, già in voga in quegli anni per molti calciatori reduci da carriere oneste nei propri paesi del Vecchio e Nuovo continente, a scegliere di vestire i panni dei mercenari-fenomeni-da-baraccone nel solcare i prati sintetici e poco avvezzi al calcio che si stendono dalla Florida al Vermont. Come Pelé nei NY Cosmos, allo stesso modo la pletora di personaggi – alcuni dei quali davvero memorabili – che affiancano Seller nell’ardua impresa: l’argentino Garfagnoli, il brasiliano Dagomir, gli inseparabili gemelli Heineken e il direttore tecnico tedesco Muller.

Ciò che ne risulta è una smorfia di stizza, una malavena, il fastidio che procura la mercificazione del gioco del pallone quando risulta indigesta.

Forse L’Area 18 non è la miglior opera calcistica di Fontanarrosa, né la più brillante tout court; probabilmente perché il romanzo non è la dimensione perfetta per il respiro della lingua del Negro, al contrario inappuntabile quando canta nella forma del racconto le gesta di un Quarto Stato sdrucito, sciarpa al collo e striscione ben arrotolato in spalla, portatore di una Weltanschauung dominata da cabale personalistiche, stregoneria, rospi e manciate di sale, ceneri cosparse sul campo della squadra del cuore dopo la dipartita. Una lingua ottimamente cristallizzata nei memorabili racconti «19 de diciembre de 1971», «Lo que se dice un ídolo» o «Memorias de un wing derecho», tutti raccolti in quella meravigliosa miscellanea che è Puro Fútbol.

Nondimeno, in un micromondo dominato dalla levità linguistica quasi naïf (parodisticamente cursi?) come L’Area 18 il lettore non dovrà per forza conoscere la palomita di Aldo Pedro Poy o cosa significhi essere canalla (cioè tifoso del Rosario Central) per trovarsi a parteggiare per l’armata brancaleone dei Procioni Ululanti dello Spartan, che volerà infine in Congodia, in un crescendo rossiniano di colpi di scena, intrecci spionistici, atmosfere à la Good vs Evil (lo spot Nike degli anni Novanta in cui agli eroi del calcio moderno toccava confrontarsi contro bestie sataniche) per giocarsi la dignità come uomini, prima che come calciatori.

L’Area delle 18 yard, se non si fosse ancora capito, è l’Area di Rigore: il luogo in cui rimanere asserragliati in assetto difensivo o verso la quale lanciarsi in un assalto all’arma bianca. L’Area 18 è il luogo, se c’è poi un luogo, in cui ogni sogno – o incubo – prende forma, si realizza, lascia le sue cicatrici sui polpacci e nel cuore.

Una volta, in un’intervista, Fontanarrosa aveva dichiarato: «Non aspiro al Nobel per la letteratura. Io mi considero più che soddisfatto quando qualcuno mi si avvicina e mi dice “Mi sono cagato sotto dalle risate, col tuo libro”».

L’Area 18, in questo compito, riesce alla perfezione: fa cagare sotto dalle risate. La miglior maniera per onorare la memoria di Fontanarrosa, del suo calcio puro e sporco a un tempo.


* Scrittore, ha collaborato con L’Ultimo Uomo, IL, Nuovi Argomenti, Edizioni Sur, Finzioni, Rivista Studio e Fútbologia occupandosi soprattutto di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no (Piano B, 2012). A cavallo tra il 1998 e il 2001, con lo streetname Tsunami Kobayashi, ha partecipato come rapper a diversi mixtape e album.

Condividi