In occasione della pubblicazione per le Edizioni SUR del romanzo di Rodolfo Fogwill, Scene da una battaglia sotterranea, tradotto da Ilide Carmignani, pubblichiamo un intervento di Federico G. Ferroggiaro, dell’Universidad Nacional de Rosario, già comparso sulla rivista di studi letterari Espéculo, ringraziando l’autore e la testata. Ricordiamo che sul blog potete leggere, riguardo al romanzo di Fogwill, le recensioni di Francesca Lazzarato (leggi) e Claudio Moretti (leggi), lo studio di Beatriz Sarlo (leggi) cui si fa riferimento anche nel testo odierno, e una lunga intervista all’autore in due parti (prima parte – seconda parte). Nella Media Gallery si può vedere un video con una auto-presentazione dell’autore.
di Federico G. Ferroggiaro
Traduzione di Barbara Turitto
Evitare il contesto socio-politico della guerra nella quale si inserisce il romanzo di Fogwill Los Pichiciegos [Scene da una battaglia sotterranea, nella traduzione italiana di Ilide Carmignani per le Edizioni Sur; ndr.] è impensabile. Qualsiasi discorso che richiami le Malvine non può non ammettere che quella fu una guerra inopportuna (non discuteremo la legittimità o meno delle motivazioni), indotta da una dittatura che incarnava tutta la violenza, la follia e la barbarie di una tirannia, e che ha rappresentato l’impulso irrazionale di una colonia americana che si era esposta all’ira di una delle maggiori potenze imperialiste del mondo.
Tuttavia, Scene da una battaglia sotterranea non è un romanzo contro la guerra né un’apologia di “quella” guerra. È, probabilmente, il romanzo della guerra al margine, nel sottosuolo di “quella” guerra. Una lotta che, come tutte le guerre, richiede intelligenza, obiettivi e mezzi. Come in ogni guerra che si rispetti, compresa quella delle Malvine, c’è un obiettivo (vincere, ovviamente, battere l’altro o gli altri, assieme a scopi taciti, che il discorso ufficiale passa sotto silenzio o limita), si mettono in gioco, attraverso i movimenti, le manovre offensive e difensive, le strategie, una o più intelligenze e la capacità e l’impiego di risorse materiali: vestiario, armi, tecnologie, cibi e lo sforzo logistico che, in queste circostanze, obbliga i combattenti, coloro che fanno la guerra, a rimanere attrezzati; i Pichis [letteralmente: gli armadilli; ndr.], questo strano e mutevole gruppo di soldati argentini che si nascondono da “quella” guerra per combattere l’altra loro guerra, si trovano costretti dalla logica di tutte le guerre.
Ci rendiamo conto che, a differenza della struttura canonica che rappresenta la guerra partendo dalla sua morale eroica, patriottica e trascendente (la guerra si fa per qualcosa: recuperare un territorio che di diritto appartiene a una nazione; cacciare le forze degli invasori, imporre una Verità, appropriarsi delle risorse o dei territori del nemico), i pichis combattono la guerra della sopravvivenza nella quale, in direzione opposta al discorso ufficiale, respingendolo, svuotandolo di contenuti, improntano la loro condotta alla morale del sopravvivere (a “quella” guerra). Vale a dire che la loro è la guerra della sopravvivenza, una guerra particolare, sui generis, che ha bisogno di una morale differente, speciale. Ovviamente, una morale detestabile dal punto di vista del discorso ufficiale, del patriottismo (o sciovinismo), del nazionalismo, da quel punto di vista che colloca l’uomo nella posizione di cittadino, di soldato che combatte per il bene della nazione che a sua volta, proprio per l’appartenenza a tale nazione, è il suo bene. L’ideale dei pichis, è evidente, non è quello della nazione, della dittatura di Galtieri. In questo senso, il nemico che affrontano non è l’esercito inglese («i gurkhas, i gallesi e gli scozzesi») ma il bisogno, il clima, la fame, la noia, la sporcizia, la pazzia, la paura. Essendo estraneo ai pichis il motivo simbolico, la causa “trascendente”, “quella” guerra (quella di inglesi contro argentini e viceversa) fa da cornice (seppure onnipresente) alla guerra marginale: quella che i pichis fanno alla morte. La loro morale consentirà loro di negoziare mercanzie con gli inglesi in cambio di collaborare nelle azioni militari, uccidere di spalle un ufficiale argentino che tenta di abusare di un soldato, rubacchiare resti di naufragi o cadaveri “congelati”, gettare e consegnare come prigionieri i pichis “inutilizzabili”, quelli che non interagiscono in conformità con le norme della pichicera, che «… divennero talmente inutili che nessuno se ne ricordava più».
La sopravvivenza dei membri del gruppo, così come avviene in qualsiasi società o organizzazione, non è lasciata al caso, al libero arbitrio. Costituita da una gerarchia, una distribuzione ordinata di ruoli, saperi e abilità, da un’autorità quadripartita, quella dei Re Magi, che va obbedita a rischio di perdere la vita (essere espulso dalla comunità equivale a morire: il segreto della società deve essere protetto dalle delazioni) e una gerarchizzazione interna tra i vari componenti (i Re al vertice, gli utili, con attività specifiche: Pipo in dispensa, l’Ingegnere che introduce migliorie al rifugio; e gli “inutilizzabili” o addormentati), la Pichicera conferma che l’obiettivo di sopravvivere richiede anche disciplina e ruoli ben definiti. Società della guerra, come abbiamo detto, non contro di essa ma al margine, che non distingue nazionalità né interessi e trova la sua cementazione nell’obbedienza a un ambito legale. Leggi non scritte ma conosciute da tutti i membri della comunità: lealtà e obbedienza all’autorità, non è ammessa la presenza di feriti, non si fanno rumori di giorno, i bisogni vanno fatti all’aperto, per segnalarne alcune. È ovvio che i pichis sono uniti «temporaneamente, non per identità ma per necessità: non condividono ricordo più lontano che quello dell’inizio dell’invasione alle Malvine», come scrive Beatriz Sarlo in “Non dimenticare la guerra: cinema, letteratura e storia”; ma tale necessità trasformata in obiettivo li amalgama come gruppo, li fonde e consente loro di funzionare come entità autonoma tra le forze in lotta. Scene da una battaglia sotterranea dimostra che tale sopravvivenza non può essere intrapresa in solitudine, eroicamente. In questo senso, possiamo affermare che il romanzo delinea e riproduce una società che dispone di un territorio sotterraneo, la Pichicera; di una popolazione, i pichis, soldati argentini e da un certo momento anche inglesi; di un’autorità, i quattro Re Magi; di regole chiare. Territorio, autorità, legge e popolazione: i quattro elementi chiave che costituiscono uno Stato, una nazione. Una nazione che è in guerra per sopravvivere.
Sì, i pichis sono morti per “quella” guerra. Non combattono nelle file argentine (né si consegnano) perché la loro guerra si combatte su un altro fronte. Come i personaggi sotterranei di Delikatessen, il film di Jeunet (Francia, 1991), rimangono sottoterra e agiscono, salgono in superficie esclusivamente per portare a termine un’operazione. Per sopravvivere è imprescindibile fare affidamento sulle risorse: sigarette, razioni di cibi, materiali da costruzione, combustibile. Il commercio, il baratto, è una delle attività chiave nella guerra dei pichis e richiede il mantenimento di una popolazione, un numero che oscilla tra i ventiquattro e i trenta, supponendo una conoscenza dell’incidenza demografica sull’economia: quanta gente è necessaria perché un’organizzazione funzioni, commerci, si mantenga attiva. Se la guerra è “cosa di metodo”, come afferma il pichi-informatore , per attribuire agli inglesi una superiorità (metodo provato dall’esperienza, altre guerre, “loro devono sempre vincerle”, conoscenza che viene aggiornata, come il momento di caducità nei materiali bellici che si rinnovano a differenza di quelli degli argentini), i pichis improvvisano, inventano il proprio metodo di sopravvivenza.
Il dopo
Sostiene la Sarlo nel suo articolo: «il romanzo non vuole dimostrare niente e i suoi personaggi non sono nelle condizioni ideologiche né discorsive per riflettere. I pichis non hanno assolutamente futuro, camminano verso la morte… Il loro tempo è puro presente, e senza temporalità non c’è configurazione del passato, comprensione del presente né progetto». I personaggi di finzione sono, senza riflessione se si vuole, intuitivamente, coloro che postulano la possibilità di un dopo, di un domani, di una vittoria nella loro guerra. Dice l’Ingegnere nel capitolo 6 della Prima Parte: «La guerra ha questa cosa, ti dà tempo, impari di più, capisci di più… Se capisci ti salvi, altrimenti dalla guerra non torni. Non lo so se torneremo, Quiquito – gli diceva – ma se torniamo, con quello che abbiamo imparato qui, chi riuscirà a fregarci?». Certamente pensano al di fuori della storia, del divenire. Il loro obiettivo è resistere in vita, rimanere vivi, e se il presente di “quella” guerra non viene compreso, lo è però quello della loro guerra, «E da qualche parte… dobbiamo restare due inverni» e si avvicina un finale: la morte o la vittoria, il ritorno alla vita, la sua continuità. L’enunciato dell’Ingegnere è proiettato nel futuro, verso il sogno impossibile di ritornare a quella normalità ugualmente conflittuale che è la vita nel continente, nell’Argentina della dittatura e del terrore. Se il presente dell’enunciazione è crudo, la speranza di un futuro di invulnerabilità rappresenta una motivazione incoraggiante.
Fogwill è solito scrivere di sopravvissuti. Nei suoi racconti e in altri suoi romanzi, Vivir afuera per esempio, i suoi personaggi sono segnati da questo dopo: escono vivi da qualcosa di estremo e vogliono continuare a essere vivi, tutto quello che fanno è vivere senza una meditazione cosciente sul perché. Legame vitale, puro istinto. «Chi riuscirà a fregarci?», domanda l’Ingegnere. Sono stati pichis, si sono sottratti a una guerra all’interno di un’altra guerra, in condizioni pessime e con tutto contro, senz’altro esercito che quello della società che costituivano: chi può fregarli? Perciò, la proposta non è assurda bensì logica: i pichis che riabilitano gli altri, quelli che non hanno combattuto per sopravvivere alle Malvine. In conclusione, nell’opera di Fogwill non c’è personaggio più paradigmatico che il suo omonimo Quiquito: lui che è sopravvissuto, lui che sa. Non si può fregare un pichi perché conosce già tutto: la penuria, le privazioni, le crudeltà, la disumanizzazione, le debolezze, tenere sempre duro è l’università di un pichi. È sopravvissuto in guerra ergo può sopravvivere in presunta pace e può insegnare agli altri a farlo. Perciò l’informatore, Quiquito, si stupisce del fatto che gli ex combattenti che rubano auto vengano acciuffati così presto: è ovvio, non erano pichis, un pichi non è stato né può essere “fregato”.
Lontano dal campo di battaglia e, secondo le sue dichiarazioni, senza voler dimostrare nulla, Fogwill rappresenta una guerra vera, più verosimile di quella immaginata e divulgata dal discorso ufficiale. Contro la guerra degli eroi, la guerra antieroica ove l’unica vittoria che si concepisce è quella personale, quella del gruppo dei pichis e non quella degli argentini o degli inglesi che, a ogni modo, è aleatoria. I discorsi degli ufficiali, delle alte cariche o dei loro portavoce sia nelle radio argentine sia in quelle inglesi, come arrivano al continente, simbolizzano la precarietà di un discorso che manca di tutta la verosimiglianza accettabile. «E il tale diceva che eravamo come l’esercito di San Martín. “Eroici”, ripeteva. Che la battaglia giungeva al termine, che ora si andava a vincere la guerra con altri mezzi… e che noi saremmo tornati agli aratri e alle fabbriche (figuratevi la voglia di arare e fabbricare che avevano i negri)…». L’ironia, la “picaresca” se ci rifacciamo a Julio Schwartzman (Microcrítica – Lecturas Argentinas), fa esplodere questo discorso vuoto, lo espone nella sua assoluta ridicolaggine, opponendolo all’etica pichi: quella di chi non si fa fregare. In questa linea, viene convalidato l’unico atteggiamento possibile dell’uomo di fronte alla guerra assurda, irrazionale e, forse, di fronte a qualsiasi ordine che non ci offra garanzie: spogliarsi dei valori e della morale ufficiale, rafforzare l’io, organizzarsi come una società e improvvisare un metodo per uscirne vivo.
Che i pichis falliscano, che la loro società non raggiunga l’obiettivo, ci lascia l’amaro in bocca. Che sia proprio l’ultimo giorno di “quella” guerra, quando il finale tanto previsto era arrivato, ne amplifica il tono tragico. Che la causa sia un errore tecnico, una banale negligenza, evita allo scrittore la responsabilità di mettere in scena la vittoria dei guerrieri sotterranei, di quelli che avevano fatto di tutto per vincere la pichiguerra. Si soffoca un lieto fine perché nessuna guerra può avere un lieto fine.
(Questo testo è stato pubblicato originariamente su Espéculo. Revista de estudios literarios. Universidad Complutense de Madrid.)
Condividi