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Un certo César Vallejo, uno che si fa chiamare poeta

redazione Autori, César Vallejo, Ritratti, SUR

CésarVallejo_edizioniSURTungsteno di César Vallejo è in libreria. Continuiamo a raccontarvi l’autore pubblicando la prima parte di un suo ritratto scritto dal peruviano Ciro Alegría. Originariamente pubblicato nel 1944 in Cuadernos Hispanoamericanos, questo profilo del grande poeta peruviano ha avuto scarsa diffusione. È stato recentemente recuperato da El Malpensante, che ringraziamo.
La seconda parte dell’articolo è disponibile qui.

«Il César Vallejo che ho conosciuto io» / 1
di Ciro Alegría
traduzione di Francesca Signorello

Correva l’anno 1917 e io vivevo con i miei genitori in una tenuta nella sierra del Perù settentrionale, situata per la precisione nelle ultime propaggini andine della provincia di Huamachuco. La tenuta si chiama Marcabal Grande, e laggiù arrivano perfino le calde braci della foresta amazzonica, che esalano da quel cannone abissale del fiume Marañón. La mia vita era stata quella di un bambino di campagna, figlio di proprietari terrieri, a cui il padre aveva insegnato al momento opportuno a leggere e scrivere discretamente, oltre alle arti più necessarie, come nuotare, andare a cavallo, cacciare con il laccio e non spaventarsi di fronte ai sentieri lunghi e alle tormente. Alternavo alle mie faccende in campagna – dove mi piaceva in modo particolare un posticino con un albero grande e una pietra azzurra – letture di Andersen, Le mille e una notte e altri libri meravigliosi, tra cui un grosso volume del naturalista Raimondi, su viaggi ed esplorazioni della foresta, che mi sembrava altrettanto fantastico. Io sognavo di andare nella foresta, non come saggio per studiarla, ma come pioniere. Avrei conquistato quel mondo abitato da alberi incalcolabili e indios coraggiosi.

A sette anni erano queste le mie conoscenze e le mie ambizioni, ma i miei genitori serbavano idee più grandi riguardo alla mia educazione, e così un giorno mi annunciarono che sarei andato a studiare a Trujillo, una lontana città costiera. Intrapresi quel viaggio in compagnia di un fratello minore di mio padre, che trascorse con noi le vacanze. Quei giorni in cui attraversammo a trotto due catene rocciose delle Ande furono per me dei giorni rivelatori, scendevamo spesso in tiepide vallate, situate in fondo a gole e fiumi, e altrettanto spesso salivamo su per alti territori desolati, circondati da rocce contorte. Visitammo molti paesini e villaggi, e i venti ostinati e le piogge di marzo ci sferzarono più volte. Dato lo scopo di queste righe, devo aggiungere che passammo dalla città di Huamachuco, capoluogo della nostra provincia, e che, uscendo da lì, non appena ci incamminammo verso una cordigliera altissima, si aprì davanti a noi il sentiero che conduce alla città di Santiago de Chuco, capoluogo della provincia limitrofe, in cui era nato César Vallejo.

Durante questo lungo viaggio a cavallo, che durò sette giorni senza contare il tempo trascorso a casa di amici di mio padre sparsi per la regione, rimasi colpito soprattutto dalle alte montagne delle Ande, dall’altopiano svettante, pieno di solitudine e silenzio, e da una spaventosa drammaticità che sembra nascere dalle sue rocce immense che si dividono formando abissi di vertigini, o che si inerpicano sempre più in alto spinte da un caparbio desiderio di altezza, che non è mai stanco di trafiggere il telo cupo del cielo. A volte il paesaggio si addolcisce un poco, grazie all’abbondanza di alberi da frutto nelle valli e alla delicatezza delle messi ondeggianti sui pendii, ma tutto questo non è che una tregua, perché a dominare sono le montagne lascive che si spogliano salendo a diecimila, quindicimila o più piedi di altezza. Nell’anima di chi attraversa le Ande o di chi vive lì rimarrà sempre il ricordo, simile a una ferita, del paesaggio accidentato fatto di altopiani elevati, su cui crescono a malapena stoppie giallognole, e indomabili luoghi rocciosi. C’è tristezza, ma soprattutto un’angoscia permanente e silenziosa. Gli abitanti di questo vasto dramma geologico, quasi tutti indios o meticci nati da indios e spagnoli, sono duri e silenziosi e somigliano alle Ande. Perfino quelli di pura ascendenza ispanica o i forestieri arrivati da poco finiscono per mostrare il segno di quelle influenze telluriche. Sferzati dalle inclemenze della natura e dalle inclemenze sociali – nell’esporre queste ultime ho già scritto diverse centinaia di pagine –, patiscono una sofferenza dalle dimensioni secolari che sembra confondersi con l’eternità.

Tutto quanto detto ha un senso perché, qualche giorno dopo quel viaggio, avrei trovato, nel mio professore César Vallejo, un uomo che proveniva da quegli strani angoli del mondo e che li portava dentro di sé. Si dà il caso che arrivammo a Trujillo, città costiera serena e soleggiata, piacevolmente tiepida. Nel suo ambiente coloniale, con tredici chiese dagli altari scolpiti e case con portoni enormi, cortili ampi e balconi in stile moresco, davano un tocco di modernità le automobili che correvano su strade asfaltate, la luce elettrica, i treni che sferragliavano e fischiavano in un continuo viavai dalle valli coltivate a zucchero o dal porto vicino. La mia infanzia, abituata alla natura vergine, era rimasta sbalordita di fronte a tutti quei marchingegni, al cinema e a tante altre cose ancora, compresi i numerosi logorroici vestiti alla moda. Finché un giorno, quando le mie ginocchia intorpidite e doloranti per la cavalcata si svegliarono, mia nonna decise di mandarmi a scuola.

Un signore circospetto, carico di anni e di sapere, era passato a farci visita una domenica sera e fu allora che udii per la prima volta il nome di Vallejo e le aspre discussioni che provocava. Dissero che il giorno dopo avrei cominciato i miei studi.

«Se avessi un nipote», affermò quel signore volendo dare un consiglio, «lo manderei al Seminario. È diretto da sacerdoti ed è molto conveniente…»

Io ero tutto orecchi ad ascoltare quella conversazione che mi stava rivelando il mio destino da studente. Mia nonna ribatté con dignità: «Il fatto è che suo padre ha messo per iscritto che deve andare al Colegio Nacional de San Juan. Su questo è stato categorico. Tutti gli uomini della nostra famiglia sono stati educati lì».

«E a che anno lo iscriverete?»

«Al primo delle elementari…»

Il vecchio per poco non saltò in aria e dopo disse concitato: «Signora mia, qui non si tratta più di scuole ma di buon senso… Lei sa chi è il professore del primo anno alla San Juan? Eh, lo sa? Glielo dico io, uno che si fa chiamare poeta, un certo César Vallejo, un tizio a cui manca qualche rotella…»

«Be’, in fin dei conti… per insegnare al primo anno…», disse mia nonna nel tentativo di calmarlo.

Ma, a quanto pare, il nostro ospite era deciso a salvare dal pericolo un povero bambino indifeso come me, e aggiunse: «No, no, signora mia… Quel Vallejo, se non è un idiota, è come minimo un pazzo. Non potreste mandarlo al secondo anno? Quando sono entrato mi ha stupito vedere che il bambino stava leggendo il giornale…»

Il mio presunto salvatore assunse un’espressione di sconforto quando mia nonna sottolineò: «Sì, sa già leggere e scrivere in maniera accettabile, ma non conosce le altre materie che si insegnano al primo anno».

A quanto pare, il vecchio era deciso a impiegare tutte le risorse che aveva a disposizione per liberare il mio povero cervello da influenze perturbanti, così il suo discorso prese una piega più pacificatrice.

«Signora mia, non potrà certo negare che in quanto a educazione, ma soprattutto in quanto a religione, il Seminario è la scuola migliore. Sta acquistando parecchio prestigio…»

E mia nonna: «Anche alla San Juan si insegna religione, come previsto dal regolamento di studi, e non sono anticattolici…»

Il signore abbandonò la partita, ma si lasciò andare a considerazioni fatali per il modernismo e per non so quanti altri -ismi, di certo per consolarsi, e poi diede in escandescenze di carattere estetico contro l’arte del mio professore, discorso che io non capii affatto. Alla fine se ne andò, con un’espressione di velato disappunto, non senza prima augurarmi buona fortuna con un tono a metà tra lo speranzoso e il compassionevole.

Ebbi difficoltà a prendere sonno, un po’ per l’inquietudine che si impossessa di un bambino che sta per affrontare il primo giorno di scuola, un po’ perché pensavo al mio professore, che a quanto dicevano era poeta, ed era stato chiamato pazzo, se non idiota, da quel vecchio severo.

Il mio compagno di viaggio, che studiava nella mia stessa scuola, mi accompagnò davanti all’edificio.

«Voi non entrate da qui», mi disse quando arrivammo davanti a un portone su cui si leggeva la scritta “Dio e la patria”, «questo ingresso è per noi delle medie. Passiamo di là…»

Raggiungemmo l’angolo e, una volta giratolo, si aprì a mezzo isolato da noi la porta che usavano i professori e gli alunni delle elementari. Ci fermammo di scatto e mio zio mi presentò quello che sarebbe diventato il mio professore. Accanto alla porta era fermo César Vallejo. Magro, citrino, quasi ieratico, mi parve un albero spoglio. Portava un vestito bruno come la sua pelle bruna. Quando si chinò per domandarmi il mio nome, con tenera premura, vidi per la prima volta lo scintillio intenso dei suoi occhi. Poi scambiò qualche parola con mio zio e, quando quest’ultimo se ne fu andato, mi disse: «Vieni qua». Entrammo in un cortiletto dove giocavano tanti bambini. Su un lato c’era l’aula di quelli del primo anno. Una volta entrato, il professore cominciò a sollevare le copertine dei sottomano per vedere quali di questi erano vuoti, a seconda che ci fossero o meno effetti personali dentro, e me ne indicò uno della prima fila dicendomi: «Questo è il tuo posto… Metti la tua roba qui dentro… No, non così… Bisogna essere ordinati. La lavagna, che è più grande, sotto, e sopra il tuo libro… E anche il berretto».

Quando ebbi sistemato tutte le mie cose, continuò: «Molti bambini preferiscono sedersi verso le ultime file, perché non vogliono avere fatte tante domande… Ma tu sarai un bravo bambino, un ottimo alunno, vero?»

Io non sapevo nulla dei trucchetti da ragazzini, perciò non capivo bene di cosa stesse parlando, ma ingenuamente risposi: «Sì, la mamma mi ha detto di studiare tanto…»

Lui sorrise lasciando intravedere denti bianchissimi e poi mi accompagnò alla porta. Chiamò uno dei ragazzini che erano lì a giocare ad acchiapparello e gli disse: «Lui è nuovo: fatelo giocare con voi…»

Così se ne andò e arrivarono altri ragazzini, tutti loro si misero a guardarmi curiosi, sorridendo. «Un montanaro rosso come un peperone!», commentò uno vedendo le mie guance colorite, visto che gli abitanti della costa sono di solito piuttosto pallidi. Gli altri scoppiarono a ridere. Il ragazzo incaricato di farmi giocare mi chiese saggiamente: «Sai giocare ad acchiapparello?»

Gli dissi di no, e lui concluse: «Sei troppo nuovo per saperci giocare…»

Mi lasciarono lì e continuarono a scorrazzare di qua e di là. Io ero terrorizzato, e quel gran baccano che facevano tutti mi stordiva. Cercai con lo sguardo il mio professore e lo vidi di nuovo fermo accanto alla porta, bruno e smilzo, a chiacchierare con un altro professore, grasso e dai baffi dritti, un brav’uomo che avrei chiamato anch’io Champollion, come facevano gli studenti da generazioni e generazioni. Non osai avvicinarmi a loro e cominciai a gironzolare. Attraversata un’altra porta, arrivai in un ampio cortile dove c’erano tanti altri bambini. Non mi guardava nessuno e nessuno mi parlava. Continuai a camminare e andai a finire in un altro cortile, dove gli studenti erano più grandi. Lì si trovava mio zio. C’erano tanti cortili, tante aule, tante arcate. Le pareti erano dipinte di un rosso chiaro, quasi rosato, forse per attenuare la severità di un edificio che, in tempi antichi, era stato un convento. Suonò la campanella e io non seppi più tornare alla mia aula. Mi persi, tanto che per sbaglio entrai in un’altra. A tirarmi fuori dalla mia confusione arrivò Vallejo in persona che, essendosi accorto della mia assenza, si era messo a cercarmi in tutte le aule. Mi portò con sé prendendomi per mano. Ricordo ancora la sensazione che produsse in me quella sua manona fredda e nodosa, che stringeva la mia manina timida e umidiccia per la paura. Volli liberarmi, ma lui mi trattenne. Mentre camminavamo per i grandi corridoi deserti, mi diceva, senza neanche darmi il tempo di rispondere: «Come mai ti sei messo a gironzolare? Ti sei sentito solo? Un bambino piccolo come te non deve allontanarsi né dalla sua aula né dal suo cortile… Questa scuola è molto grande… Sei triste?»

Raggiungemmo la nostra aula e lui mi accompagnò fino al mio banco. Poi andò a sedersi alla cattedra, situata alla stessa altezza dei nostri sottomano e a due passi da questi, tanto da dare la sensazione che parlasse in mezzo a noi. In quel momento mi accorsi che il professore non si tagliava i capelli, a differenza di tutti gli altri uomini, ma portava una grande chioma liscia, folta e nerissima. Non sapendo il motivo, domandai a bassa voce al mio compagno di banco: «Ma perché porta i capelli così?» «Un poeta è un poeta», mi sussurrò. La personalità di Vallejo mi parve piuttosto misteriosa e cominciai a farmi parecchie domande a cui non riuscivo a rispondere. Tanto che lui, per tirarmi fuori dalla mia perplessità, doveva dare due colpetti di bacchetta sulla cattedra. Era il suo modo di attirare l’attenzione. Annunciò che avrebbe tenuto una lezione di geografia e, chiudendo le dita per simulare con le sue mani ossute e brune la forma della Terra, cominciò a dire: «Bambini… la Terra è rotonda come un’arancia… Proprio così, questa stessa Terra in cui viviamo, che a prima vista ci sembra piatta, è in realtà rotonda».

Parlava lentamente, con suoni sibilanti, perché è così che parlano i nativi di Santiago de Chuco, tanto che gli abitanti delle altre province della regione li riconoscono proprio grazie a questa caratteristica.

Poi si alzò per disegnare la Terra alla lavagna e durante tutta la lezione ci ripeté che era rotonda, ma non era questa l’unica cosa sorprendente, l’altra era che girava su se stessa. Ci diede come prove il sorgere e il tramontare del sole, il modo in cui compaiono e scompaiono le barche in mare, e tante altre. Io ero davvero meravigliato, sia del fatto che questo mondo in cui viviamo è rotondo e gira su sé stesso che di tutto quello che sapeva il mio professore. Quando suonò la campanella che annunciava la ricreazione, César Vallejo si scrollò di dosso il gesso che biancheggiava su una delle maniche, si lisciò la chioma facendo scorrere tra i capelli le dita piegate e uscì. Si fermò di nuovo accanto alla porta e rimase lì facendo finta di chiacchierare con gli altri professori. Dico così perché aveva un’aria molto distratta.

Di nuovo in aula, era ora di studio. La prossima sarebbe stata di lettura. Bisognava ripassare la lezione. Vallejo mi chiamò vicino a lui e aprì il mio libro al capitolo di Pato. Ebbi fiducia nelle mie conoscenze e gli dissi: «Io ho finito Pato tempo fa. E anche Rosita y Pepito. Questo libro lo so tutto…»

Vallejo mi guardò con aria inquisitoria: «Sai anche scrivere?»

Alla mia risposta affermativa, mi chiese di scrivere il mio nome e dopo anche il suo. Quando arrivai al suo cognome, esitai tra la bi e la vu, ma la fortuna mi assisté nella scelta e mi andò bene. Mi mise alla prova con altre parole e una frase lunga.

Sembrava che la cosa lo divertisse. Poi mi domandò: «Ma, se sai leggere e scrivere, perché ti hanno mandato al primo anno?»

«Perché non so nient’altro…»

Allora mi disse di tornare a posto. Provai a chiacchierare con il mio compagno di banco, ma lui mi sussurrò che era vietato parlare durante la lezione.

Guardai il mio professore.

César Vallejo – ho sempre avuto l’impressione che quella fu la prima volta che lo vidi – teneva le mani sulla cattedra e guardava verso la porta. Sotto la folta chioma nera, il viso mostrava lineamenti duri e definiti. Il naso era energico, e il mento, ancora più energico, sporgeva nella parte inferiore del viso come una chiglia. I suoi occhi scuri – non ricordo se erano grigi o neri – brillavano come se fossero coperti di lacrime. Il vestito che indossava era vecchio e liso, e il farfallino, stretto intorno al colletto morbido, era annodato con trascuratezza. Si mise a fumare e continuò a guardare verso la porta, da cui entrava la luce chiara di aprile. Chissà cosa stava pensando o sognando. Tutto il suo essere emanava una grande tristezza. Non ho mai visto un uomo dall’aspetto più triste. Il suo dolore era una condizione al tempo stesso segreta ed evidente, che finì per sopraffare anche me. Fui travolto da un senso di sofferenza strano e inspiegabile. Benché a prima vista potesse sembrare tranquillo, quell’uomo aveva qualcosa di profondamente straziante, che io non capii ma che riuscii ad avvertire con tutta la mia sveglia e attenta sensibilità di bambino. All’improvviso mi ritrovai a pensare ai miei lari paterni, alle montagne che avevo attraversato, a tutta la vita che mi ero lasciato alle spalle. Quando tornai a esaminare i tratti del mio professore, mi parve che somigliasse a Cayetano Oruna, bracciante della nostra tenuta che noi chiamavamo Cayo. Quest’ultimo era più alto e robusto, ma il viso e l’aspetto dei due, tra il solenne e il triste, erano molto simili. Il Vallejo uomo mi parve un messaggio della Terra, e continuai a osservarlo. Gettò la sigaretta, si strinse la fronte, si lisciò di nuovo la chioma scura e tornò alla sua tranquillità. La sua bocca si contraeva in una smorfia di dolore. Lui e Cayo. La personalità di Vallejo, però, turbava solo allo sguardo. Io ero decisamente sconvolto e sospettai che, a forza di soffrire così tanto e di irradiare una tale tristezza, Vallejo doveva forse avere a che fare con il mistero della poesia. Lui si girò di scatto, mi guardò e ci guardò tutti. I ragazzini stavano leggendo i loro libri, e così anch’io aprii il mio. Non vedevo le lettere e mi venne voglia di piangere…

 

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