Illustrazione di Maximiliano Chimuris
Pubblichiamo oggi un intervento del fumettista e scrittore argentino Roberto Fontanarrosa: un’esilarante riflessione su parole e parolacce, in occasione sessione conclusiva del III Congresso della Lingua tenutosi a Rosario il giorno 20 Novembre 2004.
Traduzione di Fabrizio Gabrielli e Cintia Scianna
Io non lo so cosa ha a che vedere (l’intervento, ndr) col tema dell’internazionalizzazione, che a parte, ora che ci penso, devono avergli messo quel titolo per dire che una persona che riesce a pronunciare correttamente in-ter-na-zio-na-liz-za-zio-ne è capace di stare su un palcoscenico e parlare di cose – dev’essere tipo un test che hanno fatto.
[…]Un Congresso della Lingua serve, più che altro, a porsi delle domande. Io, siccome quasi sempre di base sono ignorante, mi chiedo perché sono acce le parolacce, chi le definisce come tali. Chi, e perché? Chi ci dice cos’hanno che non va le parolacce? Per caso le parolacce attaccano quelle buone? Sono acce perché di cattiva qualità? Ossia: quando uno le pronuncia si deteriorano? O sarà forse che quando uno le usa dimostra un’attitudine amorale?
Ovviamente non lo so chi le definisce parolacce, chissà che non siano come quei tipi burberi dei vecchi film, quelli che vedevamo noialtri, che prima erano buoni, ma che poi alla fine per colpa della “società” s’erano incattiviti.
Forse è emarginandole, che le abbiamo ridotte a parolacce.
Molte di queste parole hanno un’intensità, una forza che difficilmente le rende irrilevanti. Ad ogni modo, alcune delle parolacce… non è che voglio fare una difesa donchisciottesca delle parolacce, alcune mi piacciono tanto quanto quelle di uso corrente.
Ricordo che a casa mia madre non diceva molte parolacce, era una donna corretta. Il mio vecchio era uno di quelli che si dicono sboccacciati, che è pure una definizione interessante. Siccome era un tipo che veniva dal mondo sportivo, allora era anche un po’ giustificato. Lo chiamavano pure boccaccia, una parola un po’ antica, che però potremmo continuare a usare. Era un’altra epoca, indubbiamente.
C’erano certi cugini miei che a volte venivano a casa mia e mi dicevano: «Andiamo a giocare a zio Berto». Allora andavano in una stanza e si rinchiudevano a smadonnare. Era la mancanza della televisione che li aveva fatti cadere in questi giochi ingenui. Pensa cosa significava la mancanza della televisione, si finiva per cadere in questi giochi ingenui.
Ora, dico io, a volte ci preoccupiamo perché i giovani usano le parolacce. Mi preoccupa poco, che mio figlio le dica. Sarei più preoccupato se gli venisse meno la capacità di trasmettere e di esprimersi, nello scrivere come nel parlare. Come quei ragazzini che dicono: «C’era un coso, che aveva un coso e là gli usciva fuori questo coso più lungo». E uno dice: «Ma coso cosa?».
Credo che queste parolacce gli servano per esprimersi; e allora cosa vogliamo fare, vogliamo emarginarli, togliergli questa possibilità?
Fortunatamente non ci danno retta, e parlano un po’ come gli pare.
Penso che le parolacce, molte di queste, apportino sfumature altre. Io, fondamentalmente, sono un disegnatore – al che qualcuno si domanderà che ci fa quello sul palcoscenico? Non ho molta dimestichezza con il colore, per esempio, però attraverso il colore so bene che quante più sfumature uno ha a disposizione, tanto più ci si può difendere per esprimere o trasmettere qualcosa. E allora, ci sono parole, di quelle dette parolacce, che non si possono rimpiazzare per sonorità, per forza, alcune addirittura per la loro conformazione fisica.
Dire a una persona che è un pelotudo non è la stessa cosa che dirgli che è un tonto o un babbeo. Tonto può connotare un problema di menomazione neurologica, veramente aggressiva.
Il segreto della parola pelotudo, di fatto già universalizzata – che lo so mica, se c’è, nel Diccionario de Dudas – risiede nel fatto che può anche riferirsi a qualcosa con pelotas, con le palle. Può riferirsi a qualcosa che ha le palle che può essere l’inserviente dei campi di calcio, che è pelotudo perché sposta le pelotas; ma quel che dico io è che il segreto, la forza, è tutto nella lettera ti. Analizziamo – le maestre prendano appunti: il segreto è nella lettera t, dal momento che dire babbeo non è la stessa cosa che dire peloTudo.
Un’altra cosa: c’è una parola meravigliosa – che in altri paesi è esente da colpe – e questa è un’altra particolarità, perché ogni paese ha le sue parolacce però si vede che le leggi di alcuni stati le proteggono e quelle di certi altri no – dicevo, c’è una parola meravigliosa che è la parola carajo. Devo far ricorso qua ad Arturo Pérez Reverte, mio amico e conoscente, conoscitore della navigazione, grazie al quale ho scoperto che il carajo è il luogo dove si metteva la vedetta, il punto più alto degli alberi d’una barca che serviva per avvistare terra o quel che fosse. Mandare una persona al carajo, allora, significava strettamente questo, mandarlo lassù.
Amici messicani coi quali ero a cena ieri sera m’hanno insegnato una quantità di parolacce messicane. Ora che ci penso credo mi stessero insultando perché s’era creato un problema con il conto al momento di pagare. Mi spiegavano che le isole Carajo sono delle isole che stanno nell’Oceano Indiano.
In Spagna, il carajillo è il caffè corretto al cognac, ed è là che è diventata parolaccia, a tal punto che si è giunti a coniare l’eufemismo caracho, che è d’una debolezza e di un’ipocrisia… no?
A volte ci sono quotidiani che scrivono: «Il senatore tal dei tali ha dato del pezzo di m….a al suo collega». Bene, la triste funzione di quei punti di sospensione: anche quella meriterebbe d’essere materia di discussione in questo congresso.
Quasi in chiusura, c’è un’altra parola che vorrei citare che credo sia fondamentale nella lingua spagnola, che è la parola mierda, che pure quella non si può rimpiazzare. Il segreto della sua conformazione fisica è nella lettera erre – prendano appunti i docenti – che i cubani pronunciano in maniera molto più debole: mieLda – che suona cinese ed ecco, io credo che sia lì la base dei problemi che ha avuto la Rivoluzione cubana – la mancanza di possibilità espressive.
In conclusione, dopo questo apporto mierdulare al Congresso e alla lingua, quel che chiedo è che si prenda in considerazione lo statuto terapeutico delle parolacce. Il mio analista dice che sono necessarie per scaricarsi, per togliersi lo stress e tutte queste genere di cose.
Quel che chiedo (non voglio lanciarmi in teorie) è riconsiderare la situazione di queste parole. Chiedo un’amnistia per le parolacce. Viviamo il Natale senza parolacce, e poi integriamole alla lingua: perché davvero, ne avremo bisogno.
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