Presentiamo oggi, in occasione della recente pubblicazione per le Edizioni Sur del romanzo Gli addii, di Juan Carlos Onetti, un breve saggio sul tema della città nei primi racconti dell’autore.
L’autore, che ringraziamo, è Roberto Ferro, critico, scrittore, docente e ricercatore dell’Istituto di Letteratura Ispanoamericana della Facoltà di Lettere e Filosofia di Buenos Aires (UBA). Ha pubblicato, tra gli altri: «El lector apócrifo» (Ed. de la Flor, 1998) e «La ficción. Un caso de sonambulismo teórico» (Ed. Biblos, 1999).
Il testo è stato pubblicato negli Atti delle IX Jornadas de Investigación “Literatura Latinoamericana. Otras miradas, otras lecturas” (Facoltà di Filosofia e Lettere dell’UBA, 1994) e poi nella rivista Contratiempo, di Buenos Aires.
di Roberto Ferro
traduzione di Violetta Colonnelli
La narrativa di Juan Carlos Onetti si estende dal racconto «Avenida de Mayo-Diagonal-Avenida de Mayo», del 1933 [e compreso poi nel volume Triste come lei, ndr], al suo romanzo Quando ormai nulla più importa, pubblicato nel 1993.
Partendo dal presupposto che ogni corpus testuale è, in diversa misura, trasformazione, dislocamento, alterazione di altri testi precedenti, con i quali costituisce reti di relazioni, è possibile individuare alcuni tratti distintivi che attraversano l’intera narrativa onettiana: la messa in discussione della poetica realista di costruzione del referente, il predominio del frammento nella rappresentazione spazio-temporale, il protagonista scisso che genera uno spazio finzionale e si muove sui bordi instabili che lo limitano e lo costituiscono, la scrittura letteraria come possibilità di salvezza.
Queste guide di lettura, sotto un certo aspetto critico, appaiono come tracce continue, ma da un’altra prospettiva non emergono a opera terminata, bensì vengono alla luce come un prodotto in evoluzione, intessuto su altri testi, altri codici, articolato in questo modo nell’armatura di discorsi che costituiscono le nozioni sulla società, non in termini di logica deterministica, ma piuttosto per mezzo di citazioni.
Queste molteplici trame mi permettono di realizzare una riformulazione di quelle ricorrenze a partire da un trattamento considerevolmente differente del topico della città nei testi di Onetti pubblicati fino al 1946, rispetto alle opere successive.
La comparsa del racconto «La casa sulla sabbia» nel 1949 [e compreso poi nel volume Triste come lei, ndr], immediato antecedente della Vita breve del 1950, suppone l’emergenza di un’«altra città»: Santa María. Oltre a assere un’entità finzionale, può essere pensata come opposta a Buenos Aires, luogo dominante dei primi racconti e romanzi di Onetti, nei quali Buenos Aires, lungi dall’essere una mera istanza referenziale, rappresenta un modo emergente di raffigurare la città in aperto contrasto con le poetiche dominanti, ascritte al realismo. Contrasto che Onetti rende esplicito nei suoi articoli nel settimanale Marcha, pubblicati tra il 1939 e il 1941, sotto gli pseudonimi di «Periquito el Aguador» e «Groucho Marx».
Il processo di formazione della società tecnologica, articolato sulla base della nozione dominante della trasformazione multipla e serializzata, provoca un riordinamento che sovverte ogni retorica di rappresentazione fondata nei termini di una meccanica determinista dei processi culturali, intesi come meri riflessi o effetti di una concatenazione duale.
Juan Carlos Onetti è un narratore che nei suoi testi annuncia una rottura con le strategie di rappresentazione realista, che non rendono conto della natura plurale, scissa e problematica della città. Città che, in quanto referente sconvolto da complessi processi di trasformazione, reclama non un approccio lineare, bensì un’ascrizione aperta a un campo figurativo multidimensionale, che non si lasci uniformare nei termini di uno scenario statico.
Per ragioni di spazio circoscriverò la mia analisi al racconto «Avenida de Mayo-Diagonal-Avenida del Mayo», nel quale è possibile rendere conto, a volte in modo estremo, della configurazione di Buenos Aires come metropoli moderna nei primi lavori di Onetti.
Nel racconto il protagonista Victor Suaid compie una breve passeggiata di appena pochi isolati. Il testo installa tra Victor Suaid e lo spazio del paesaggio che percorre e contempla una rete multipla di mediazioni, che nel tracciare l’itinerario lo scandisce in frammenti instabili, dei quali fornisce il nome come unica informazione. Il personaggio è depistato dai nomi che danno un senso alle sue esperienze. Quei nomi sconvolgono lo spazio della città in paesaggi. L’itinerario di Suaid non procede da un luogo a un altro, ma da una parola a un’altra.
Il percorso di Victor Suaid si articola tra i toponimi: Avendida de Mayo-Diagonal-Avenida de Mayo, annunciati dal titolo. Il testo si apre con un crocevia, un’interferenza tra un uomo che rimanda alla storia nazionale e un altro che traccia appena delle linee geometriche. Linee che inoltre evocano una recente ristrutturazione di Buenos Aires, completata da pochi anni, e che ha comportato l’esclusione del monumento emblematico del passato coloniale della città: il Cabildo, il municipio.
Situazione che possiamo definire analoga, considerando le differenze sostanziali che le separano, al rinnovamento che vive Parigi tra il 1850 e 1860, con l’apertura dei boulevard rivestiti di Macadam, che attraversavano la vecchia città medievale, consentendo così il traffico veloce e i confusionari movimenti che costituirono lo spettacolo della città moderna, immortalato da Charles Baudelaire nei suoi testi.
Il personaggio si trova nel mezzo della nascita di una nuova città, che prevede un campo di relazioni scabrosamente diverso da quello della città precedente, e dal testo emerge quanto le contraddizioni tramate in una città moderna si ripercuotano nella vita personale dell’uomo comune.
Attraversò il viale, in un momento di pausa del traffico, e si mise a camminare per Florida. Un brivido freddo gli scrollò le spalle, e immediatamente la consapevolezza di essere più forte del vento gli fece estrarre le mani dal rifugio delle tasche, aumentò la curva del petto e sollevò la testa, in una ricerca divina nel cielo monotono. Potrebbe sfidare qualunque temperatura; potrebbe vivere più giù, più lontano di Ushuaia.
Le labbra si affinavano seguendo lo stesso proposito che rimpiccioliva gli occhi e irrigidiva la mandibola.
Ebbe innanzitutto un’esagerata visione polare, senza capanne né pinguini: sotto, bianco con due macchie gialle, e sopra, un cielo quindici minuti prima della pioggia.
Dopo: Alaska-Jack London-le pelli spesse scarseggiavano sull’anatomia degli uomini barbuti.
Un mondo così votato all’individualità solitaria fa del provvisorio e l’effimero le forme privilegiate dell’esistenza. Un itinerario fatto da molti itinerari. Il testo pone il camminante nel territorio della discontinuità, la serie di rotture e contaminazioni nello spazio rappresentano la continuità della rappresentazione temporale.
I movimenti bruschi, i salti e le virate fondamentali per la sopravvivenza quotidiana per le strade della città moderna si sviluppano in omologia ai processi di costruzione del racconto, che diventa un gioco di montaggi che esibiscono la violenza della sutura:
Nella strada Rivadavia una macchina provò a bloccarlo, ma con una manovra energica se lo lasciò dietro… Davanti al traffico del viale volle che le mitragliatrici cantassero velocemente, tra palle di fumo, il suo rosario dai grani affusolati.
Abbiamo detto che l’itinerario di Suaid non è spaziale, ma testuale, da nome a nome, e ognuno di questi rappresenta la condensazione di molte storie convergenti. All’inizio della passeggiata per Florida l’associazione con il freddo lo porta a citare Ushuaia, che si allaccia ad Alaska ed evoca le storie di avventura, letture adolescenti, che si attivano al menzionare Jack London come una sorta di cifra di agganci intertestuali senza fine.
Il personaggio non apprezza che istantanee, meccanismi di emergenza accumulati e mischiati nella sua memoria, e letteralmente ricomposti nel racconto che fa di loro la sintassi dominante della sua costruzione.
Come in un palinsesto caleidoscopico, i nomi sono citazioni condensati di regimi testuali nei quali si iscrive in continuazione l’intricato gioco dell’identità e del contingente.
I nomi dei luoghi si presentano al lettore con un’insistenza marcata, al punto che il racconto sembra una rete in cui ogni intersezione porta un nome: «Florida, Ushuaia, Alaska, Yukon, Russia, Volga, Basilea, Miami, Puerta del Sol, Regent Street, Boulevard Montmartre, Broadway, Unter der Linden».
Questi luoghi non esistono se non per le parole che li evocano, sono nel testo come luoghi non concreti, stereotipi, luoghi comuni dell’immaginario, che si iscrivono come emblemi di molteplici programmi narrativi già cristallizzati.
Victor Suaid conduce un percorso che si avvicina di più al gioco di generazione di senso del lettore, piuttosto che a un itinerario cittadino. La citazione di un nome geografico come rappresentante vicario di un riferimento reale perde senso nel racconto di Onetti, la direzione dell’egemonia è deviata, il nome porta al testo la citazione, non tanto di un luogo specifico, quanto di una molteplicità interminabile di marche intertestuali che evocano i romanzi d’avventura e la retorica dei depliant turistici.
Come trofei di un facile trionfo, portò i fari della macchina verso l’orizzonte desolato di Alaska. In modo che a metà dell’isolato non fu difficile eludere l’ambiente accogliente che nel manifesto sostenevano le spalle potenti di Clark Gable e i fianchi della Crawford; ebbe appena l’impulso di avvicinare la fronte alle rose che la star dagli occhi grandi mostrava in mezzo al petto. Tre notti, o tre mesi prima aveva sognato la donna dalle rose bianche al posto degli occhi.
Tutto il testo si sviluppa sulla migrazione metonimica, sulla perpetua disseminazione tramata nei bordi: le luci percepite nella realtà si portano al territorio della finzione, evocato a sua volta dalla sensazione del freddo. Clark Gable e Joan Crawford, le emblematiche icone del cinema nordamericano, raffigurate su un manifesto che annuncia l’uscita di un film, servono da motivo scatenante perché gli occhi dell’attrice, mediati dalla grafica e dalla finzione che rappresenta, slittino verso lo spazio onirico del personaggio. La reazione a catena che innesca, tra il cinema e sogno, occhi aperti e chiusi, è senza fine, in un testo in cui lo sguardo appare come passaggio privilegiato da e per registri diversi.
Ma il ricordo del sogno fu solo un fulmine per la sua ragione; il ricordo scivolò via veloce, come un tentativo di volo, come il foglio appena partorito dalla rotativa, e si accomodò quieto dietro le altre immagini che continuavano a cadere.
A metà tra il fascino del montaggio cinematografico e del montaggio giornalistico, il racconto applica alla lettera le poetiche che cita per innescare i suoi movimenti.
Con lo stesso silenzio del cinematografo dell’infanzia, le lettere luminose navigavano sul pannello degli annunci:
IERI A BASILEA – SI CONTANO PIÚ DI DUEMILA VITTIME.
Il cambio tipografico degli annunci di un Video-Master, che si offrono allo sguardo di Suaid, mostra l’istanza del dire il senso deviato per creare del senso. Nonostante questo sia una caratteristica di tutti i testi, il racconto di Onetti scrive la sceno-grafia, la drammatizza, pone per iscritto l’inadeguatezza tra il contenuto di un discorso e l’effettività, o ancora l’effetto di un atto. La scrittura non si limita a voler-dire, il testo onettiano lo esibisce senza ritegno.
Le immagini delle parole che si susseguono incessantemente tendono a esibire una rete sistematica: alludono a un mondo consumistico del quale chiunque si può appropriare in termini di senso illusorio, giacché è questo il senso primordiale dell’interpretazione a cui è sottoposto l’abitante delle grandi città moderne.
I testi del Video-Master che si susseguono senza pausa, le notizie come disposizioni imposte allo sguardo, in fondo è come se lo spazio fosse intrappolato dal tempo in modo inestricabile, come se non ci fossero altre storie possibili oltre le notizie del giorno o della sera, come se ogni storia personale esaurisse i propri motivi, le proprie parole e immagini nell’inventario limitato di stereotipi di un’effimera storia del presente.
Ventimila manifesti proclamarono il suo plagio per la città. L’uomo con pettinatura e i denti perfetti offriva alla gente la sua mano rossa con un pacchetto, mostrando -1/4 e 3/4- due sigarette, come due cannoni puntati contro la noia dei transeunti.
… fino alla fine del mondo.
Il movimento di introspezione, la deriva verso un solipsismo è sempre più affascinante per Victor Suaid nella misura in cui sembra farsi carico di una regola comune: agire come gli altri per essere se stesso, vivere una nuova avventura robinsoniana, ma questa volta ripetendo l’esperienza del naufragio ogni momento.
In conclusione, Victor Suaid appare confrontato con un’immagine di se stesso, ma abbastanza strana. Un’immagine alienata fatta di resti, resti che si affacciano in fuga come mostra la tipografia incompleta che il racconto da in lettura; resti che appaiono alterati e in migrazione incessante tra i frammenti del dialogo silenzioso che instaura con il paesaggio-testo che si dirige a lui come agli altri transeunti, e in cui l’unico viso che si disegna, l’unica voce che prende forma, sono i suoi: viso e voce di una solitudine tanto più sconcertante quanto più evoca la moltiplicazione interminabile degli altri.
La sua parte nel dialogo non è altro che la circostanziale e casuale riunione di frammenti di stereotipi, tranci di testi cristallizzati, ripetizioni di una memoria annullata dal presente ossessivo dell’insistenza.
Nessuno in calle Florida sospettava quanto fosse stranamente letteraria la sua emozione.
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