Il nome del padre

redazione SUR

Pubblichiamo un saggio di Stefano Gallerani (già uscito su Il caffè illustrato) che introduce fra l’altro Guillermo Cabrera Infante, autore cubano che sarà pubblicato dalle Edizioni SUR.

di Stefano Gallerani

Il mito freudiano della ribellione dei figli contro il padre, nell’orda primordiale, preistorica, non costituisce una spiegazione storica delle origini, bensì un archetipo  sovratemporale; eternamente ricorrente; un mito; una vecchissima storia.
(Norman O. Brown, Corpo d’amore)

Ne I morti, il racconto che chiude Gente di Dublino, tornando a casa dal ballo delle sorelle Morkan, bruciato da una gelosia vile e preda di un «sordo ardore di lussuria», Gabriel Conroy riceve dalla moglie la confessione di una tragica passione giovanile, mentre uno specchio gli restituisce la sua immagine di essere «fatuo e pietoso». Fuori, dietro la finestra, la neve, col suo respiro gentile, cade senza forma sulle lapidi e sulle croci del cimitero in cui giace l’amore irrealizzato di Gretta Conroy. Una situazione latente si illumina e risolve in visivi elementi radianti. È la preconizzazione del lacaniano stade du miroir, la relazione che l’Io instaura con la realtà dell’Altro e che Proust vaticina così nella Recherche: «siccome l’io vive pensando incessantemente ad un’infinità di cose, che non è che il pensiero di queste cose, quando d’un tratto, invece che su di esse, medita su se stesso, non trova che un apparato vuoto, qualcosa che non conosce, cui per dare qualche realtà aggiunge il ricordo di un volto visto nello specchio. Quello strano sorriso, quei baffi ineguali, è questo che sparirà dalla faccia della terra» (Lacan scriverà: «l’uomo ama la sua immagine come la cosa a lui più vicina, vale a dire il proprio corpo. E tuttavia il fatto è che del proprio corpo, egli non ha la minima idea. Crede che sia ‘io’. Ognuno crede che si tratti di sé. Invece è un buco»). Nel quindicesimo episodio dell’Ulisse – quello che nello schema di Carlo Linati corrisponde secondo il parallelo omerico ai canti X e XII dell’Odissea, all’Orca Antropofoba nel senso e nella tecnica alla visione animata fino allo scoppio (o “allucinazione”) – Joyce arricchisce la sua visione incastonando tra una battuta e l’altra, a mo’ di didascalia, una delle più originali scene primarie della sua strabordante epigenesi in prosa: nel salone del bordello di Tyrone Street è appena entrata la proprietaria Bella Cohen ad intorpidire con la sua sola presenza le fantasie adulterine di Leopold Bloom sulla moglie Molly e il suo amante Boylan che, richiamati dallo studente Lynch, lo stesso Bloom e l’alter ego di Joyce as a young man, Stephen Dedalus, si voltano a fissare uno specchio: «Il volto di William Shakespeare, imberbe, vi appare irrigidito da una paralisi facciale, incoronato dal riflesso dell’attaccapanni a corna di cervo dell’ingresso». Paternità spirituale e paternità dei lombi si incontrano e si riflettono, si manifestano «come un caso particolare della funzione dell’imago» (ancora Lacan).

L’Altro che parla nel volto di Shakespeare, «con solenne voce di ventriloquo», è il padre declinato al femminile: «è l’alto riso a tradir la vacua mente», sentenzia il barbar(d)o Will. L’eco che sbroglia ogni stortura sintattica, che dirige ogni contorsione lessicale è quella della letteratura, e l’opera che si compie nelle mani del figlio, l’accorata lettera che questi scrive al genitore, è letteratura essa stessa. Con un gesto estremo, Joyce (e Proust con lui) usurpa il territorio della convenzione romanzesca, riscrive i termini del Patto di Lettura e pone al centro della sua costruzione il mito del Padre: le fondamenta per la sopravvivenza del genere romanzo nell’epoca della riproducibilità tecnica del medium sono gettate.

Nel 1965, a più di quarant’anni dalla prima edizione dell’Ulisse e quattro meridiani di distanza, dall’alto della vertigine linguistica delle sue pagine, l’eco della voce del Padre torna a riverberare in Tres Tristes Tigres, primo romanzo dell’allora trentacinquenne scrittore cubano Guillermo Cabrera Infante. Costruito come un collage a caldo sulle notti brave di un gruppo di giovani avaneri, Tre tristi Tigri si presenta solo all’apparenza con le fattezze di un catalogo sragionato di testi diversi e indipendenti, o comunque legati l’un l’altro da un’esigua traccia tematica. Nell’adottare la tecnica prediletta degli artisti cubisti Cabrera Infante – già redattore capo di “Carteles” e direttore di “Lunes de Revolucíon”, con alle spalle una raccolta di racconti, Así en Paz como en la Guerra (1960) e una di critiche cinematografiche, Un oficio del Siglo XX (1963) – dà prova di una perfetta padronanza dello spazio narrativo, riprodotto in scala nel primo centinaio di pagine: sette monologhi, una lettera, una conversazione telefonica, i frammenti di un racconto e quelli di una terapia psicanalitica; ciascuno di questi elementi apre una parentesi destinata a spiegarsi e a chiudersi nell’intreccio virtuosistico della narrazione. In un vortice di immagini e suoni fanno da subito la loro prima apparizione alcuni dei personaggi principali del romanzo: dalle tre tristi tigri del titolo – il fotografo Códac, lo scrittore Silvestre e l’attore televisivo Arsenio Cuè – alla cantante Estrella Rodríguez, dal suonatore di bongo Eribò alla star della pubblicità Minerva Eros, protagonisti, tutti, delle ultime notti di un’Avana che presto cederà il posto alla Cuba del regime castrista; un’Avana prerivoluzionaria di bar, alcolismo, droghe, jazz, cantanti di bolero, omosessuali, bisessuali, puttane e mafiosi ritratti con la grazia indulgente di uno di loro e con lo sguardo meticoloso dell’entomologo attento ai minimi dettagli. Esteso e ambizioso nei suoi differenti piani narrativi e piani-sequenza, Tre tristi Tigri si può leggere come il diario intimo profondamente nostalgico delle avventure e delle discussioni notturne di un gruppo di amici e dei loro sforzi per trovare una certa solidarietà, mentre tutt’intorno s’avverte l’imminenza della fine. Nelle sue correrias letterarie Cabrera Infante–di cui quest’anno ricorre il primo anniversario della morte- si identifica molto con buona parte della storia della decadenza romana: se in Catullo, Sesto Properzio e Aulo Gellio riconosce i primi celebratori della notte intesa come tempo d’avventure erotiche, notte di ronda e di relazioni impossibili, uno dei principali modelli del suo romanzo è, evidentemente, il Satyricon: Códac, Silvestre, Cuè discendono tutti in linea diretta da Encolpio e Gitone e, come quelle del misterioso Petronius Arbiter, anche le pagine di Cabrera Infante sono costantemente attraversate, pur quando più furente si fa la critica sociale o brillante l’ingegno verbale, dalla sotterranea tristezza per la fine di un’epoca, e con essa di un mondo. Ma lo stravolgimento dei registri, il collasso della forma e il ricorso ai materiali più disparati tradiscono anche più recenti e altrettanto nobili natali: Mark Twain, ad esempio, di cui è adottata un’osservazione nell’avvertenza che apre il romanzo, o il diacono Charles Lutwidge Dogdson – alias Lewis Carroll -, programmaticamente citato in epigrafe («E cercò di immaginare l’effetto della fiamma di una candela quando la candela è spenta»), ma soprattutto il Laurence Sterne di The life and adventures of Tristram Shandy, vero e proprio antesignano e nume tutelare delle massime sperimentazioni in prosa del novecento. Una Jungle-rie di richiami, agnizioni e citazioni extravaganti che Cabrera Infante metabolizza e orchestra dando sfogo ad un estro creativo strabiliante. Eccitati dal gusto per la deformazione sintattica e lessicale, partiture cólte e brandelli di cultura pop si alternano e mescolano nel delirio di un’erudizione che va dalla musica del XVIII secolo al cinema western. Mentre si praticano frenetici pastiches (una parentesi di più di quaranta pagine è dedicato a la morte di Trotzki raccontata da diversi scrittori cubani molti anni dopo – o prima), la potenziale pedanteria esibizionista del talento fine a se stesso è scongiurata dal correttivo di una soperchieria cosciente, di orpello esibito come tale: tutto è surclassato in una dimensione essa stessa autoparodistica ed ogni frase è posseduta dal genio perverso del linguaggio. Ma il  vero signore e sovrano di questo carnevale della parola appare in tutta la sua forza espressiva, seppur indirettamente, solo verso la metà del romanzo, nel capitolo “Rompicapo”: si tratta di Bustrófedon. Autentico genio verbale, Bustrófedon – che si intuisce essere morto e di cui non restano che i pochi nastri su cui sono state incise le sue memorabili parodie – viene ricordato come uno che «andava sempre a caccia di parole nei dizionari (i suoi safari semantici) quando scompariva dalla circolazione e si rinchiudeva nella sua camera con un dizionario qualsiasi, portandoselo anche in bagno, tenendolo vicino a sé anche durante il sonno, cavalcando per giornate intere sul dorso del suo dictumnario, e quelli erano gli unici libri che leggeva, e diceva, diceva a Silvestre, che erano meglio dei sogni, meglio delle fantasticherie erotiche, meglio del cinema […] perché un dizionario creava una suspense con una parola perduta in una foresta di parole (aghi perduti non in un pagliaio dove sarebbero stati facili da ritrovare, ma in un agoraio) e c’era la parola sbagliata, e la parola innocente e la parola colpevole e la parola-assassina e la parola poliziotto e la parola-salvatrice e la parola fine». Ma «chi fu chi sarà chi è Bustrófedon? B? Pensare a lui è come pensare alla gallina dalle uova d’oro, a un indovinello senza risposta, alla spirale. Lui era Bustrófedon per tutti e tutto per Bustrófedon era lui». Chi è veramente Bustrófedon,  il «maestro-disegnatore degli ostacoli letterari», il propugnatore di «una letteratura nella quale le parole avrebbero avuto il senso che l’autore voleva dar loro»? Per Cabrera Infante, Bustrófedon, che «aveva un occhio ammalato, guercio» (proprio come J’aime Joys e quasi come Borges!)  è nientemeno che l’essenza della letteratura, il correlativo della trasfigurazione shakespiriana dell’Ulisse: piuttosto che parlare di incarnazione del linguaggio, di lui si potrebbe dire che è il corpo che si fa parola, un corpo minato da un tarlo ancor prima di nascere,  qualcosa come «un nodo nella colonna vertebrale, qualcosa che gli faceva pressione sul cervello e gli faceva dire quelle cose meravigliose, e giocare con le parole e infine vivere chiamando tutte le cose con un altro nome, come se stesse veramente inventando una nuova lingua» (secondo i medici che hanno trapanato il cranio a forma di punto interrogativo di Bustrófedon, il “Bucranio”, nel suo caso si tratterebbe di «in senso stretto [di] una perdita della facoltà della parola; del discernimento orale o, se si preferisce, e ancor più specificamente, un difetto non di fonazione, ma derivante da una disfunzione, forse una decomposizione, un’anomalia causata da un fatto patologico specifico che può ulteriormente progredire fino a dissociare la funzione cerebrale dal simbolismo del pensiero attuato per mezzo della parola»). È a quest’enigmatico personaggio che si deve tutta la carica distorsiva del romanzo, è lui che alligna dietro ogni discorso, sono sue tutte «le ripetizioni, le sostituzioni e l’allitterazione o l’alterazione della realtà parlata» e tutte «quelle meravigliose trasformazioni, per cui stupidità, luoghi comuni e parole di tutti i giorni diventano» parole notturne e misteriose. Il Bustrófedon di Tre tristi Tigri è, dunque, tanto il Fantasma del Padre per Cabrera Infante quanto il Morelli
di Rayuela lo è per Cortázar. Ma procediamo per gradi.

Pubblicato appena un paio d’anni prima, nel 1963, e vero e proprio evento nello scenario letterario non solo latinoamericano, il romanzo dello scrittore argentino è stato spesso accostato a quello del più giovane collega cubano (tra le date di nascita dei due corrono giusto tre lustri), eppure i riscontri che emergono dai primi rilievi comparativi sono assai più interessanti se interpretati in controluce. Per prima cosa, la struttura: tra i più esemplari arresti del processo rivoluzionario che caratterizza tutta la letteratura sudamericana degli anni sessanta (per intenderci, è il periodo in cui vengono pubblicati, tra gli altri, Sopra eroi e tombe di Ernesto Sábato, La morte di Artemio Cruz di Carlos Fuentes e La Casa Verde di Mario Vargas Llosa, oltre al planetario successo di Cent’anni di solitudine di Marquez), entrambi i libri convertono l’inerzia del lettore in passiva creatività richiedendogli un intervento in prima persona sul tessuto narrativo. Viene nuovamente messa mano al Patto di Lettura e il lettore impuni di Valéry Larbaud diventa più che mai complice dello scrittore. Addirittura, Julio Cortázar offre del suo romanzo una duplice chiave di accesso, quasi ad alludere, metonimicamente, alle infinite possibilità di piegare un testo alle attitudini individuali di chi lo maneggi: da un lato, infatti, si può assecondare supinamente la consuetudine leggendo di fila tutti i capitoli fino al 56 («ove», come siamo avvertiti nella tavola d’orientamento che precede il testo, «tre evidentissimi asterischi equivalgono alla parola Fine») dall’altro si può cominciare il romanzo dal capitolo 73 per poi seguire l’ordine indicato a pié pagina d’ogni capitolo. Ma è un ordine  ancipite, solo apparente: e se si leggesse tutto il libro in modo lineare senza però fermarsi al capitolo 56, trascurando gli «evidentissimi asterischi» e proseguendo cocciutamente fino all’ultimo, il 155? O se ci si affidasse all’arbitrio del momento e si leggessero i capitoli in una sequenza ogni volta differente, dimenticandosi, tra l’altro, di non tralasciarne alcuno? Davanti all’esperienza della scrittura di Rayuela il lettore è assalito dagli stessi dubbi, attanagliato dalle stesse incertezze  che vivono i personaggi di Cortázar e a cui, per evitare che l’ effetto di straniamento si esaurisca nei complicati rotismi del meccanismo formale, è affidato il senso stesso del romanzo. In Cabrera Infante, invece, pur screziata da numerose digressioni e forzature grafiche (anticipando l’anarchia di Exorcismos de Esti(l)o, del 1976, pagine costellate di bizzarri anagrammi e assurdi elenchi di PRO-E-CONTRO NOMI di Autori di opereidi, Filosofferti e Pintauri si alternano a pagine bianche e pagine scritte al contrario che diventano leggibili solo se riflesse in uno specchio, come nei quaderni di Leonardo da Vinci), è comunque sempre intuibile una certa linearità. Quello tracciato da  Tre tristi Tigri è un arcobaleno a tinte fosche che sorge dalla morte di Bustrófedon e precipita inesorabilmente nella pentola della deflagrazione autoptica della parola (alla fine ci aspetta un epilogo che si chiude con un apoftegma quasi beckettiano nel tono e nelle cadenze: «non ne posso più fruga che ti frugo che ti frugo ecco la scimmia con un coltello che mi fruga e mi tira fuori le budella l’intestino per vedere che colore ha non ne posso più»), mentre l’andamento a spirale, labirintico, ossessivo, di Rayuela è destinato a risolversi in un implosione della pagina scritta che nell’eterno-ritorno finisce per annientarsi. Una simile disparità strutturale deriva, in parte, dal peso specifico del secondo elemento di rilievo comparativo tra i due romanzi: l’uso che i due scrittori fanno della cultura. Per i protagonisti di Cortázar, giovani esuli argentini a Parigi, la cultura – anche quella popolare, convertita, come ha osservato Emir Rodríguez Monegal, in categoria fenomenologica ed esistenzialista – è comunque un bene raffinato, tenacemente conquistato e altamente selettivo. Al contrario, la cultura dei personaggi di Cabrera Infante è la cultura filosofica che illumina le redazioni dei periodici latinoamericani dell’epoca: una cultura autenticamente popular, acquisita nei cinema e dalla televisione comprata a rate, la cultura musicale del juke box, dei night club e della canzone popolare. Non vi sono più distinzioni di grado in Tre tristi Tigri, tutto volge al sogno. Una miriade di citazioni si dissolvono l’una nell’altra, tornano ai citanti come boomerang (ne è un esempio il capitolo intitolato “Bachanale”) e non trascurano nessuno: dai nomi più prestigiosi della cultura dell’epoca ai padrini personali, tutti sono oggetto di frenetiche parodie ed ogni cosa è surclassata in una dimensione essa stessa autoparodistica. Questo differente ricorso alla cultura spiega anche – ecco il terzo punto – la diversità linguistica dei due romanzi: se infatti in entrambi protagonista assoluto è pur sempre il linguaggio, in Rayuela si tratta comunque di un linguaggio cólto, una scrittura-palinsesto che deriva sia da quella di Borges che da quella di Arlt ed è inequivocabilmente la lingua del cronopio Cortázar. In Tre tristi Tigri, invece, si realizza una mescolanza di segno diametralmente opposto: lo scopo di Cabrera Infante è quello di ricreare un linguaggio che non sia quello d’autore (o di un solo autore), ma di una determinata zona della città, della società cubana in un determinato periodo. Una sorta di koinè o lingua franca che è la parlata del gruppo, il gergo notturno cui si allude nell’Avvertenza al testo:

Questo libro è scritto in cubano. Cioè è scritto nei differenti dialetti spagnoli che si parlano a Cuba, e la scrittura non è che un tentativo di afferrare al volo, come si usa dire, la voce umana. Le diverse forme del cubano si fondono, o almeno io credo, in un unico linguaggio letterario. Vi predomina, tuttavia, la parlata degli abitanti dell’Avana, e in particolare il gergo notturno, il quale, come in tutte le grandi città, tende ad essere un idioma segreto. Rendere questo linguaggio non è stato cosa facile, ed alcune pagine dovrebbero essere ascoltate piuttosto che lette, e non sarebbe una cattiva idea leggerle ad alta voce.

Tre tristi Tigri è tutto parlato e scritto dai suoi personaggi, che anche quando scrivono tendono a riprodurre la lingua parlato in un esercizio che non è meramente calligrafico ma forza i cardini di un realismo ipocrita ed incapiente. In Rayuela, scritto da differenti e distanti latitudini linguistiche (una volta il narratore parla direttamente come osservatore obliquo e onnipotente, una volta parla Oliveira, un’altra ancora la narrazione è sostenuta dalle annotazioni e dagli interventi di Morelli oppure sono trascritte senza commento alcune citazioni), accade esattamente l’inverso: anche quando parlano i personaggi tendono a redigere i propri discorsi. L’idea di essere e di stare al mondo che Cortázar va delineando nei loro comportamenti sono la sua particolare visione e noi non potremmo né sentirla né vederla se non grazie alla sensibilità che vi si esprime. Insomma, Rayuela, un collage di testi scritti, è tanto un libro per l’occhio quanto Tre tristi Tigri, una raccolta di testi parlati, è un libro per l’orecchio: laddove Cabrera Infante inventa una parlata, Cortázar inventa una scrittura.

Fin qui, suffragate dalla contingenza culturale, dalla prossimità geografica, dal flusso degli umori sociali e da quant’altro venisse da obiettare ad una mentalità deterministica, la comune ossessione stilistica e la convergenza tematica di due libri – l’educazione sentimentale di una generazione under the volcano, l’immedesimazione con una città e il presagio della fine imminente – sarebbero ancora sostenibili, da un punto di vista logico, in termini di mera coincidenza. Ma il vero punto di contatto tra i romanzi è nella medesima presenza che aleggia con le sue sciarade  in ogni pagina ed è l’autentico centro motore, causa prima e massimo effetto delle molteplici vicende che vi si intrecciano e le ingarbugliano: il Fantasma del Padre. Un archetipo che in Rayuela assume i contorni sbiaditi dello scrittore Morelli e regge sulle sue spalle e con il suo esempio tutto il peso di un’opera «la cui legittima prima esecuzione doveva essere forse il più completo fra i silenzi» (sembra Beckett, aussi). Sempre alluso e citato, dato che «l’unica cosa chiara in tutto ciò che ha scritto il vecchio è che se continuiamo a servirci del linguaggio in chiave ordinaria, con i suoi scopi ordinari, moriremo senza aver saputo il vero nome del giorno», Morelli assurge prima di tutto a maestro di vita condivisa: «è nella pratica», dice Oliveira, «che il vecchio indica a se stesso e a noi la via d’uscita. A che cosa serve uno scrittore se non per distruggere la letteratura?» Il logos evangelico si incarna di nuovo in un maniaco delle citazioni  per cui «lo scrivere unicamente estetico è un sotterfugio e una bugia, che finisce per suscitare il lettore-femmina, quello che non vuole problemi ma soluzioni, o falsi problemi altrui che gli permettono di soffrire comodamente in poltrona, senza compromettersi in un dramma che dovrebbe essere anche il suo» (un po’ come il lettore che, per Debenedetti, fino all’avvento di Joyce e Proust se ne stava «in poltrona, pantofole ai piedi e plaid sulle gambe, con la tranquilla bonaria sicurezza di sentirsi raccontare una storia, magari drammatica, anzi quasi sempre drammatica, che permettesse tuttavia di dimenticare i propri guai, di fronte allo spettacolo, fortunatamente immaginario, dei guai degli altri»). Uno scrittore il cui ritratto potrebbe benissimo essere, a posteriori, l’epitaffio dello stesso Cortázar:

Non pareva proporsi una teoria […] però da tutto ciò che aveva scritto si deduceva, con un’efficacia assai maggiore di quella di qualsiasi enunciato o qualsiasi analisi, la corrosione profonda di un mondo denunciato quale falso, l’attacco per accumulazione e non per distruzione, l’ironia quasi diabolica intuibile nel successo dei grandi pezzi di bravura, gli episodi rigorosamente costruiti, l’apparente sensazione di felicità letteraria che da anni costituiva la sua fama fra i lettori di racconti e di romanzi. Un mondo sontuosamente orchestrato si risolveva, per gli olfatti fini, nel nulla; però il mistero cominciava proprio lì perché mentre si indovinava il nihilismo totale dell’opera, un’intuizione più pacata poteva intravedere che […] l’autodistruzione virtuale di ogni frammento del libro era come una ricerca del metallo nobile in mezzo ai saldi.

Ed è proprio l’autore di Bestiario che ci indica la strada da seguire per arrivare a Lezama Lima (come titola in uno dei pezzi più belli confluiti in quell’insolito diorama che è Il giro del giorno in ottanta mondi) a quell’inclassificabile  achievement romanzesco che è Paradiso:

Paradiso è come il mare […] dopo un iniziale momento di sorpresa, capisco il gesto della mia mano quando prende lo spesso volume per sfogliarlo un’altra volta; questo non è un libro da leggere come si leggono i libri, è un oggetto con recto e verso, peso e densità, odore e sapore, un centro di vibrazione che non si lascia raggiungere nel suo nucleo più intimo se non lo si avvicina con qualcosa che abbia le caratteristiche del tatto, che cerchi di penetrarvi per osmosi e per magia simpatica

Quando nel 1966 – e perciò ad un anno di distanza da Tre tristi Tigri e a tre da Rayuela -, José Lezama Lima – nato nel 1910 nel “campamento de Columbia”, a Marianao – dà alle stampe Paradiso (in italiano nell’originale), al di fuori di Cuba il suo nome è pressoché sconosciuto. «Dell’ignoranza non mi stupisco: neppure io conoscevo Lezama Lima fino a dodici anni fa», scrive Cortázar sulle pagine di “UNION”, «e fu necessario che Ricardo Vigón, a Parigi, mi parlasse di Oppiano Licario che “Orígenes” aveva appena pubblicato e che adesso conclude Paradiso, ammesso che qualcosa possa concluderlo». Oppiano Licario, dunque. Sono passati pochi mesi dalla pubblicazione di Paradiso e Cortázar  non può sapere che Lezama Lima coltivava il progetto di dare seguito alla propria personalissima cosmologia con un intero volume dedicato a questo personaggio. E del resto, lo stesso scrittore cubano morirà senza riuscire a completarne la stesura (Oppiano Licario apparirà postumo a un anno dalla morte, nel 1977), ma nell’accostarlo (oltre che alla Morte di Virgilio di Hermann Broch e a Locus Solus di Raymond Roussel) all’ incompiuto per eccellenza – il musiliano Uomo senza qualità -, il capostipite dei cronopios intuisce perfettamente le infinite potenzialità della scrittura di Lezama Lima. Nel poeta che da giovane si era imbevuto di studi storico-teologici ed intrattenuto con i testi più significativi del misticismo orientale, nel lettore onnivoro di Góngora, Quevedo, San Juan, Lautréamont, Valéry, Claudel e Rilke, la parola tende all’epifania dell’in(de)finito. In lui ogni elemento procede e si assimila all’altro per intuizione, asistematicamente: nell’evocazione, tempo storico e tempo immaginario si sovrappongono affrancandosi, il primo, dalla sua deperibilità e realizzandosi, il secondo, nella transustanziazione diretta delle cose, nell’articolazione del segno sillabico e sonoro che le rappresenta e insieme le trasfigura. All’opposto della sintassi documentaria, la sua parola è il luogo e l’organo di una metempsicosi malinconica ed incantevole. Il più barocco tra gli scrittori sudamericani (di un barocchismo ingenuo rispetto a quello “istituzionale” di un Carpentier) è in realtà un “teologo negativo”. Il suo proustismo di facciata (la memoria, il ricordo, la digressione infinita) non è che un tentativo di colmare il vuoto (ma, si sa, tutto mettere equivale a tutto togliere). In questo senso è emblematico che in lui il Padre non sia morto, come il Bustrófedon di Cabrera Infante, o presente-assenza, come il Morelli di Cortázar, ma appaia come una brezza che fa vibrare i fogli nell’emisfero notturno dell’ombra, in quella zona indeterminabile tra il conscio e l’inconscio. Sono tre significativi momenti dell’ apprendistato esistenziale del Meister José Cemí – essoprotagonista – del romanzo e il primo è già carico del massimo coefficiente simbolico: nel VI capitolo, sul letto di morte, il padre del giovane Cemí chiama al suo capezzale un cubano che ha conosciuto quel giorno stesso e di cui non sa nemmeno il nome. «Caro amico,» gli dice,«non so come lei si chiami, ma sto per morire e non ho nessuno vicino a me […] ho un figlio, lo conosca, cerchi di insegnargli qualcosa di ciò che lei ha imparato viaggiando, soffrendo, leggendo». «Mi chiamo Oppiano Licario» gli risponde l’uomo e scompare dalla scena. Oppiano Licario, appunto. Dieci anni dopo il misterioso personaggio riappare di nuovo come «un uomo alto, dai capelli nerissimi» e nel volgere di poche righe scompare di nuovo «perdendosi nella bruma del freddo di novembre. L’intermediario, colui che contrasta l’ananké, abbandonava il campo alle potenze della distruzione». Tornerà, l’esoprotagonista Oppiano, solo dopo un’altra decade, quando Cemí gli restituisce le monete antiche che ha smarrito su un autobus. È il gesto che aspettava da più di vent’anni, come scrive in un biglietto recapitato a Cemí e che vale la pena di trascrivere:

Oppiano Licario la ringrazia per la restituzione delle monete. Ho atteso questo fatto per più di vent’anni. Venga a trovarmi, in Via Espada 615. poiché la collezione di monete era molto antica, voglio celebrare la sua restituzione con una bottiglia estratta dalle rovine di Pompei. Io ho atteso vent’anni; lei guadagnerebbe nel tempo altri vent’anni. Perfetta equivalenza per il destino di ciascuno di noi. Non si stupisca della forma del mio ringraziamento. Nella vita di entrambi è successo qualcosa di semplicemente importante. L’aspetto, affinché lei non debba aspettare. Ho conosciuto suo zio Alberto, ho visto morire suo padre. Sono passati vent’anni dal primo incontro, dieci dal secondo, e in questo tempo per lei e per me sono successe cose importantissime,in questo tempo s’è generata la causale delle variazioni che terminano nell’inferno di un autobus dove il suo gesto ha chiuso un circolo. All’ombra di quel circolo io posso ormai morire.

«Ogni possibilità del sistema poetico», scrive Lezama Lima nell’Autoritratto poetico pubblicato nel 1970 in Confluencias, «è stata messa in moto affinché Cemí non manchi all’appuntamento con Licario, l’Icaro, il novello esploratore dell’ impossibile». Ma quando è pronto per la sabiduría, per la conoscenza, l’alunno scopre che è proprio nel preparare questa disposizione d’animo che consiste la lectio magistralis del maestro. Come ha osservato Angelo Morino, Licario «si delinea come assenza della risposta ricercata». La luce che si disvela nel lutto è così accecante che impedisce di vedere il cuore del bagliore. Letto in prospettiva, l’ultimo capitolo di Paradiso – apparso dapprima su “Orígenes” (nella testata della rivista da lui fondata e diretta c’è tutta l’ossessione di Lezama Lima per i primordi) – non è che un aperçu di quello che diventerà il romanzo Oppiano Licario, l’infinita interrogazione di un enigma. Da questo momento, impregnata dell’aroma pungente di puros, ogni pagina di Lezama Lima sarà un’invocazione al mondo primigenio e astorico che si nasconde dietro Oppiano Licario, ogni sua sillaba si leverà come una preghiera tattile, sensibile, iniziatica. Nel suo cammino á rebours sulle orme di Dante i dettagli topografici di Rayuela e Tre tristi Tigri finiscono in un luogo che è tutti i luoghi e il linguaggio degli angeli e degli uomini sostituisce quello multiplo e plurilingue senza mai scadere nel culturalismo. «A Lezama Lima non interessano i caratteri», nota Cortázar, «gli interessa il mistero completo dell’essere umano […] ecco perché i personaggi in cui l’autore ha profuso il maggior impegno vivono, agiscono, pensano, parlano in accordo con una poetica totale». Se Cabrera Infante e Cortázar risolvono l’Edipo anche attraverso la cannibalizzazione della figura paterna e la identificazione in un alter ego che è al tempo stesso padre e figlio, in una dimensione ancora, in parte, conflittuale, in Paradiso il Fantasma del Padre origina una mitopoiesi che travolge le epoche. Dall’autobiografia Lezama Lima passa alla creazione di una figura complementare, psicanaliticamente incensurata. Per dirla con Lacan, Oppiano Licario è il «padre primordiale, il padre di prima dell’interdetto dell’incesto, di prima dell’apparizione della Legge, dell’ordine delle strutture dell’alleanza e della parentela, in una parola, di prima della cultura ». La voce rotonda e piena da cui nasce l’eco è quella della Letteratura che – ora è Lezama Lima che parla – «come uno specchio captla radiazione delle idee, la colonna dell’autodistruzione della conoscenza si eleva con l’agilità della fiamma, si riflette nello specchio e lascia la sua iscrizione ».

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