By Heart è una rubrica della rivista The Atlantic in cui gli scrittori parlano dei loro brani di letteratura preferiti. In questo caso Jonathan Lee, autore del Tuffo, racconta come una citazione da L’ambasciata di Cambogia di Zadie Smith l’abbia aiutato a mettere a fuoco l’importanza dell’ampiezza del suo raggio di attenzione rispetto al mondo, sia come scrittore che come lettore che come individuo.
Il pezzo pubblicato originariamente nel marzo 2017 viene qui riprodotto per gentile concessione di Joe Fassler, curatore della rubrica, e della rivista.
a cura di Joe Fassler
traduzione di Martina Testa
La letteratura è la libertà di dire qualunque cosa, l’autorità di combinare le parole in qualunque modo si desideri. Ma questa sconfinata libertà ha un rovescio della medaglia: di fronte alla pagina bianca, il numero infinito di scelte possibili può mandare lo scrittore in confusione. Quando ho parlato con Jonathan Lee, autore del Tuffo, mi ha spiegato di essersi perso dentro il proprio romanzo, inebriato dalla tentazione di descrivere all’infinito, finché alcune righe di Zadie Smith gli hanno ricordato che nessuno scrittore può raccontare tutto, e lo hanno incoraggiato ad affrontare certe scelte difficili. Abbiamo parlato di che conseguenze può avere, sul piano personale, artistico e politico, determinare il proprio raggio di azione, e della difficoltà di decidere come tracciarlo.
Jonathan Lee: C’è un breve passo che tenevo sopra la scrivania mentre scrivevo il mio romanzo Il tuffo. È tratto da un racconto di Zadie Smith intitolato «L’ambasciata della Cambogia», che ho letto per la prima volta sul New Yorker [in Italia è uscito per Mondadori nell’omonima raccolta, tradotta da Silvia Pareschi n.d.t.]. L’ho letto con una penna in mano (leggo sempre con una penna in mano, o una matita, se mi sento insicuro) e ricordo di aver sottolineato molti brani, fra cui questo:
Sicuramente ci sono dei vantaggi nel tracciare un cerchio intorno alla propria attenzione e rimanerci dentro. Ma quanto dev’essere grande questo cerchio?
Il vero significato di queste righe mi è apparso chiaro solo a distanza di tempo; là per là, sapevo solo che mi piacevano. A ripensarci, sembrano riassumere perfettamente la domanda che sta alla base del Tuffo: fino a che punto abbiamo l’obbligo, come artisti, come individui, di puntare l’attenzione su eventi che vanno oltre la nostra esperienza personale?
Il mio romanzo parla dei momenti in cui la vita privata, intima dei personaggi va a scontrarsi con la storia e gli eventi di portata collettiva – nella fattispecie, un attentato dell’IRA – ma all’epoca non me ne ero ancora reso del tutto conto. Ho attaccato la citazione di Zadie Smith sopra la scrivania dove lavoro. Stavo attraversando un periodo di smarrimento. Ero così sprofondato nella scrittura del mio romanzo che avevo smesso di farmi domande sulla storia che si svolgeva intorno a me, sulla vita che avevo intorno. Avevo creato questi personaggi, e stavo scrivendo centinaia e centinaia di pagine sulla loro vita, aggiungendone ogni giorno di nuove.
La libertà di divagare, di procedere senza una meta precisa può essere un elemento preziosissimo della scrittura letteraria. Spesso è così, credo, che ci si imbatte in ciò di cui si vuole scrivere davvero. Ma era qualche anno che lavoravo sul Tuffo, e cominciavo a preoccuparmi di essere arrivato a un punto di autocompiacimento in cui l’infinita ricerca del dettaglio stava soffocando le idee e la mia stessa libertà creativa. Penso che ci siano scrittori «micro» e scrittori «macro», e io sono uno scrittore «micro»: se descrivo una singola conversazione o una scena secondaria, nella prima stesura è facile che arrivi a venti pagine, registrando ogni minima sensazione, odore, sapore e pausa, anche se nel cosiddetto mondo reale l’evento in questione durerebbe solo cinque minuti. Uno scrittore «macro», invece, nello spazio di qualche pagina riesce a fare l’opposto: accompagnarci lungo venti o trent’anni di vita di un personaggio. Pensate allo splendido Train Dreams di Denis Johnson.
Quelle parole di Zadie Smith mi ricordavano di porre una serie di domande a me stesso, ogni volta che mi sedevo a tavolino, sullo scopo che volevo ottenere col romanzo che stavo scrivendo, a parte il fatto di andare semplicemente avanti a scriverlo. E ciò che volevo ottenere era la stessa cosa a cui secondo me Zadie Smith allude quando la sua narratrice si chiede, in «L’ambasciata della Cambogia», quanto dev’essere ampio il raggio dell’attenzione di una persona. Volevo esaminare ciò su cui ci concentriamo nell’intimità delle nostre vite ben protette, e ciò che spesso esiste all’infuori di quel raggio. Nel caso del mio romanzo, ciò che stava al di fuori del raggio di attenzione di svariati personaggi era qualcosa di piuttosto grosso: la politica in quanto tale. La storia. Il governo. L’oppressione.
Avevo deciso fin dall’inizio che nel mio romanzo volevo parlare dell’attentato avvenuto al Grand Hotel di Brighton, in Inghilterra, nel 1984: un tentativo di assassinare Margaret Thatcher e i suoi ministri. Mi piaceva l’idea di ambientare il libro principalmente all’interno dell’albergo, perché gli alberghi mi sembrano esempi interessantissimi di spazi chiusi, privati. Tutto – dai fiori all’arredamento, ai tappeti, alle lenzuola stirate, ai tendaggi, fino al personale dietro il banco della reception – è attentamente selezionato in maniera tale da collocarti, come ospite, in un ambiente privato – un ambiente che ti tenga lontano dalle fatiche, dagli stress e dal rumore del contesto esterno, dalla storia nel suo accadere, dal mondo degli eventi reali.
Il momento centrale del mio libro – quello in cui un militante dell’IRA entra nell’albergo e piazza una bomba nella stanza 629 – rappresenta, cominciavo ad accorgermene, l’irruzione del mondo esterno in quell’ambiente.
Da piccolo mi è capitato spesso di vedere foto dell’albergo di Brighton dopo l’esplosione. Per i dieci anni successivi all’attentato la gente ha continuato a parlarne, a sottolineare il fatto che la bomba ne aveva sventrato un pezzo enorme. Nelle foto più memorabili sembra che dal pezzo mancante del tetto dell’albergo, da quel gigantesco squarcio nell’edificio, esca del fumo. Ma in realtà era soprattutto polvere, la polvere impercettibile che uno non noterebbe mai, la polvere che viveva da decenni dietro e sotto le superfici accuratamente lucidate dell’albergo, nei suoi spazi nascosti. Quella notte la bomba scagliò tutto fuori, nell’aria. Prima dell’attentato, quasi tutti i personaggi del mio romanzo sono concentrati sui dettagli quotidiani della loro vita – come succede a noi, ogni giorno. Il vicedirettore dell’hotel si preoccupa della sua promozione, spera che la visita della Thatcher gli darà l’opportunità di fare uno scatto di carriera e migliorare le condizioni di vita della sua famiglia. La figlia si preoccupa della propria vita sentimentale, e del futuro dopo l’università. Questi personaggi sono intrappolati nel loro mondo, e quella miopia che tutti condividiamo mi sembrava, ogni volta che alzavo gli occhi e leggevo le parole di Zadie, rispecchiare la mia stessa miopia di scrittore: i personaggi si preoccupavano incessantemente dei dettagli della loro vita, e io mi preoccupavo incessantemente dei dettagli del mio romanzo. Quand’era l’ultima volta che avevo partecipato a una manifestazione di protesta? Quand’era l’ultima volta che avevo anche solo ascoltato più di dieci minuti di notiziario sulla National Public Radio?
La mia reazione istintiva è dire che gli scrittori non hanno nessun obbligo se non rispetto a ciò che mettono sulla pagina, i loro personaggi e le loro frasi. L’idea che uno scrittore debba sentirsi obbligato a occuparsi di politica, o a mettere in discussione l’ambiente politico in cui vive, o in cui vivono i suoi personaggi, mi sembra assurda. È la stessa reazione che ho quando ci si domanda se gli artisti debbano essere attivisti. Senz’altro la risposta è: a ciascuno il suo campo d’azione.
Ma al tempo stesso mi ritrovo in testa questa domanda assillante: come mai così pochi romanzi pubblicati negli ultimi anni in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – i due paesi in cui vivo – hanno affrontato in maniera rilevante la politica, o la libertà di espressione, o le libertà civili, o i movimenti di protesta? Non è detto che tutti i romanzi debbano avere a che fare con idee politiche, o con momenti storici politicamente significativi: su questo possiamo essere tutti d’accordo. Ma non è sorprendente che quasi nessun romanzo contemporaneo pubblicato in Occidente sembri interessato a farlo? Sono così tanti i romanzi che arrivano ogni giorno alla mia porta corredati di quarte di copertina che li dichiarano essere «storie d’amore universali» o «riflessioni senza tempo» su questo o quel tema. Spesso e volentieri sono ottimi romanzi, ma possibile che ogni romanzo debba essere così? È come se ci fosse qualcosa di vergognoso nel legare una storia a un particolare tempo o luogo o clima politico.
Quando mi arriva per posta un romanzo come quelli di Moshin Hamid o di Yaa Gyasi o di Sunil Yapa o di Hari Kunzru provo un brivido di emozione – una grande sorpresa – perché questi nomi fanno parte di un piccolissimo gruppo di scrittori pubblicati in America (e destinati al grande pubblico) che sembrano voler indagare ciò di cui parla la narratrice del racconto di Zadie Smith in quelle righe appese sopra la mia scrivania: il mondo al di fuori delle nostre comodissime vite medioborghesi. Moshin Hamid e Yaa Gyasi e Sunil Yapa e Hari Kunzru sono scrittori che secondo me mescolano la dimensione personale e quella politica in maniera interessante. Sollevano domande sul mondo senza imporci risposte. Vorrei leggere più libri come i loro.
C’è una disparità, mi sembra, fra il modo in cui vediamo la letteratura degli altri paesi e il modo in cui vediamo e giudichiamo la nostra. Quando uno scrittore come Mo Yan vince il premio Nobel, tanti scrittori, lettori e giornalisti statunitensi sembrano inalberarsi all’idea che il premio sia andato a un autore che non ha usato la sua opera, le pagine dei propri libri, per criticare il regime autoritario all’interno del quale vive. Il sottinteso sembra essere che noi – gli americani, gli occidentali – viviamo in una democrazia, e quindi possiamo scrivere di quello che ci pare perché (posizione quanto mai presuntuosa e sbagliata) per noi la politica non è un problema. La politica non ci tocca nello stesso modo. Chi scrive sotto un regime in cui la censura prende forme più evidenti è in qualche maniera più obbligato ad affrontare, nella propria opera, temi politici? Sembra che il sottinteso sia questo, ed è ben strano.
Nell’epoca di Trump forse emergerà una nuova generazione di narratori americani che nei loro libri si occuperanno di politica. Forse negli ultimi dieci o vent’anni, in Inghilterra e in America, ci siamo adagiati sullo status quo: gli Stati Uniti di Obama non sembravano chiedere a gran voce una produzione artistica politicamente impegnata nello stesso modo in cui se ne sente il bisogno ora. C’è molto da imparare, secondo me, dall’opera di romanzieri come il sudafricano Damon Galgut: scrittori che hanno passato gli ultimi dieci o vent’anni ad analizzare determinati momenti storici e a mescolare il personale e il politico senza mai assumere un tono predicatorio.
C’è anche un altro aspetto della citazione di Zadie Smith a cui ultimamente sto pensando molto: ci sono argomenti che dovrebbero rimanere off-limits per un determinato scrittore? Esistono temi – ad esempio, la schiavitù in un romanzo storico; o l’uccisione di giovani neri per mano della polizia in un romanzo più contemporaneo – che uno scrittore bianco non ha il diritto di affrontare? Uno scrittore americano ha il diritto di entrare nella testa di un profugo siriano? Cos’è che sta al di fuori del cerchio o del raggio dell’attenzione artistica di un determinato scrittore, «quanto dev’essere grande questo cerchio?»
L’idea che uno scrittore debba, nella sua arte, mantenersi nel raggio della propria esperienza diretta, della propria classe sociale, del proprio sesso o della propria razza mi sembra un’idea contraria all’empatia. Non vogliamo certo che tutti i nostri scrittori si limitino esclusivamente alla loro esperienza individuale, eppure ci sono anche aree in cui invocare la totale libertà artistica appare semplicistico. Io ho scritto dal punto di vista di una donna, e ho scritto dal punto di vista di un ottuagenario, e ho scritto dal punto di vista di un ragazzo di Belfast con una borsa piena di esplosivo in spalla. Però, se devo essere onesto, non credo che proverei mai a scrivere un romanzo dal punto di vista, per dire, di un profugo siriano. Perché? Perché mi manca la competenza, certo. E anche perché mi manca la sicurezza. C’è il problema del potere: di come è strutturata la dinamica di potere fra uno scrittore e il soggetto di cui scrive. Quel materiale va troppo oltre la mia portata. È fuori dal mio cerchio. Non sono la persona giusta per affrontarlo.
Zadie Smith non è la sola ad aver vissuto sopra la mia scrivania. Per un po’ c’è stato anche Don DeLillo, con una frase di Libra, uno dei suoi libri che preferisco: «Lo scopo della storia è farti uscire da dentro la tua pelle».
Non posso fare a meno di pensare che questo sia anche lo scopo della letteratura. L’effetto della grande letteratura è spesso quello di creare una connessione, di farci sentire meno soli, di farci mettere nei panni degli altri e scoprire i limiti della nostra immaginazione, come scrittori e come lettori. E nei momenti storici in cui le comunità si ritrovano minacciate, o vengono letteralmente dilaniate dalla violenza, la parola scritta ha un potere ancora maggiore di unire le persone: attraverso una storia, o attraverso una singola frase, una battuta spiritosa, un aneddoto o lo slogan scritto su un cartello di protesta. Le parole sono uno dei modi che abbiamo per uscire dal nostro cerchio individuale e scoprire qualcosa di diverso: le esperienze, le difficoltà, le storie private e politiche di altre persone. Le parole sono, fra le altre cose, una forma di trasporto.
Si parla spesso dei libri come di strumenti di «evasione». Ma io non voglio evadere in un vuoto insignificante. Per quello c’è già la peggiore tv. Voglio evadere per conoscere altre vite, e la loro complessità. Sono attratto dagli scrittori che possono aiutarmi a farlo.
Ultimamente penso spesso anche a un testo di Joy Williams intitolato «Uncanny the Singing That Comes from Certain Husks», uno splendido saggio sul processo della scrittura [inedito in italiano; leggibile in inglese qui, n.d.t.]. L’autrice sostiene che gli scrittori cominciano la loro carriera col desiderio di operare una qualche forma di trasfigurazione, ma che alla fine, nella migliore delle ipotesi, riescono solo a entrare in contatto con altri esseri umani. Forse basta questo. Nel suo saggio Joy Williams parla di Don DeLillo, che nella letteratura americana è uno dei più grandi osservatori delle sfumature personali e politiche, come di un «grande squalo che si muove di nascosto in mezzo a noi, sotto il frastuono e la devastazione del presente». E conclude il saggio dicendo così: «E io perché scrivo? Perché a mia volta voglio essere un grande squalo. Un altro squalo. Uno squalo diverso, in una parte diversa dell’oceano». Ben venga questo intento, e ben venga la grandezza dell’oceano.
© Joe Fassler, 2017. Tutti i diritti riservati.
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