Questo pezzo è uscito originariamente su The Millions e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della testata.
di Odie Lindsey
traduzione di Milena Sanfilippo
Un pacco dono della Any Soldier non era affatto un capolavoro di accuratezza. Si trattava, piuttosto, di una scatola di cartone piena di buone intenzioni, cioè barattoli Chef Boyardee e Dinty Moore, avanzati da qualche dispensa o raccolti con una colletta in chiesa. Sembrava progettato per far stare bene sia il mittente che il destinatario, in un modo tiepido e rassicurante.
Andava bene così. Era bello.
Tuttavia… Senza offesa, ma quando un reparto s’imbatteva in un pacco Any Soldier aperto, di solito passava oltre senza neanche degnarlo di un’occhiata. Scommettevamo che dentro non ci fosse più nulla di decente, perché già preso o barattato, ed eravamo troppo stanchi per reggere una delusione.
Però un pacco Any Soldier ancora chiuso conservava un suo valore. Non importa con quanto accanimento cercassi di uccidere la speranza (un’imposizione del lavoro), ma non potevi fare a meno di avvertire il suo barlume riaccendersi di fronte a un pacco non ancora saccheggiato. Se riuscivi a essere il primo, e l’unico, «Any Soldier».
Mi è successo solo una volta. Il risultato? Ho scoperto la narrativa grazie a una scatola contenente libri di Kurt Vonnegut, Operazione Desert Storm 1991.
La scena era questa: sabbia, una tenda, clima soffocante, il colpo di un’esplosione, un piccolo pacco ancora chiuso e io. Un soldato semplice di diciannove anni in un accampamento nel vuoto del deserto. Un ragazzo che a casa si era messo nei guai abbastanza da rischiare il suo futuro, ma che aveva avuto il privilegio di tirarsi fuori dai suddetti guai. Un ragazzo il cui padre e nonno avevano espletato due mandati nelle rispettive guerre. Un ragazzo bianco del Sud che era entrato in una scuola pubblica grazie a un’intelligenza di base e voti sotto la media questi ultimi accompagnati da un asterisco*: si era unito alla Riserva Militare.
* Era un Bravo Ragazzo che aveva trovato il modo di superare una battuta d’arresto servendo il suo paese. (All’epoca del mio arruolamento, l’era di George H.W. Bush, l’esercito non faceva controlli sulle sostanze chimiche che ero così idiota da ingerire.)
Ma il punto qui era quel pacco Any Soldier. Sigillato. Senza mittente. Mi guardai intorno come per evitare una trappola, poi mi accovacciai sul pavimento sabbioso della tenda e mi ci fiondai. Strappando la striscia di nastro da imballaggio in cima alla scatola, mi aspettavo una ricompensa fatta di SpaghettiOs o Cheerios o, a Dio piacendo, di Jolly Rancher.
Non c’era niente lì dentro. Niente, tranne libri. Lessi Comica finale quasi per obbligo, sia perché era in cima alla pila, sia perché in copertina c’era il disegno di un clown. L’allusione del titolo alla goffa violenza fisica si sposava con i leitmotiv del romanzo: «E così via» e «Hic». Benché impiegate come brevi battute finali, queste espressioni aggiungevano accenti ritmici e ricorrenti di satira sociale. «Hic», in particolare, rimandava alla futilità di ogni singola situazione, inclusa la mia. Diventò il suono che indicava la ridicola, disperata (siamo fottuti!) condizione al campo: ad esempio, missili SCUD, Saddam, gas nervino… Hic!
Qualche giorno dopo, dal momento che nessuno aveva rovistato nel pacco aperto, lo presi e lo stivai nella sabbia sotto la mia brandina. Quindi lessi Ghiaccio-nove e Piano meccanico, prima di passare ai due testi di cui avevo sentito già parlare, Mattatoio n. 5 e La colazione dei campioni. Il primo era la storia esplicita e devastante di un veterano, Billy Pilgrim, che rivive la sua vita avanti e indietro nel tempo: dalla guerra al dopoguerra, poi di nuovo alla guerra.
Eppure fu La colazione dei campioni a catturarmi, a farmi pensare al processo di scrittura in sé. Nello specifico, m’innamorai del «disegno di un buco di culo» a pagina due, descrizione accompagnata da un’illustrazione somigliante a un asterisco:
*
Oltre agli scarabocchi, ignoravo che si potesse costruire un racconto con frammenti non lineari o utilizzare un linguaggio esplicito e dirompente come «Il giorno dell’Armistizio era sacro. Il giorno dei Veterani no».
Cristo, pensai, questo è scrivere?
Un pensiero ingenuo. La colazione dei campioni era rimasto per un anno nella lista dei best-seller ancora prima che io compissi tre anni. C’era una ragione se anche un non lettore incallito come me conosceva il nome di Vonnegut.
In effetti, solo ora mi rendo conto di quanto questo suoni puerile e/o ignorante. Pazienza. Hic. Perché in quel deserto, alla vigilia dell’attacco via terra, mentre i jet Warthog e i missili tattici squarciavano il cielo e la Guardia Repubblicana si radunava a brevissima distanza dal nostro compound, la complessità e l’umorismo di La colazione dei campioni, la sua vena polemica, il suo tempismo, i suoi buchi di culo a forma di asterisco furono una rivoluzione. Una salvezza, persino.
Sembra sia questo il libro in cui Vonnegut ha iniziato a usare l’espressione «e così via», essendo stato pubblicato molto prima di Comica finale (io avevo letto i libri in ordine casuale). Queste poche sillabe scatenarono una tempesta di sabbia devastante. Indicando sia rassegnazione che protesta, e riecheggiando il disumanizzato carattere passivo-aggressivo della guerra, l’espressione «e così via» rappresentava tutto quello che io e i miei commilitoni stavamo attraversando, e che avremmo attraversato.
Per quanto riguarda i personaggi, appresi che Kilgore Trout poteva ritornare in altre opere: Dio la benedica, Mr. Rosewater, La colazione dei campioni e altrove; che la sua biografia poteva cambiare, così come il suo aspetto fisico. Che la stessa presenza di Trout poteva o meno avere qualcosa a che vedere col narratore di Mattatoio n. 5, figurarsi con Vonnegut stesso. In altre parole, un personaggio non doveva apparire, agire, pensare e perfino esistere sempre allo stesso modo, tanto meno restare nella stessa storia o in qualsiasi altra storia.
Le regole, per citare Comica finale, hanno la consistenza di una «scoreggia di passero».
Così, leggendo Vonnegut nel deserto, familiarizzai con i personaggi, la lingua, l’ambientazione, la satira, la narrativa, la struttura, i leitmotiv e un buco di culo a forma di asterisco. Giurai di tornare a casa vivo, e di mettermi a scrivere.
Nonostante la mia vita avesse compiuto qualche passo verso le lettere, mi ci volle un’altra Guerra del Golfo per andare fino in fondo. Questa volta la scena era ambientata in un corso di laurea specialistica a Chicago, dopo l’undici settembre. Avevo 32 anni. Oltre a seguire laboratori e lezioni di letteratura, rovistavo in biblioteca alla ricerca dei testi fondamentali che avevo evitato al liceo e al college. Lessi «Colline come elefanti bianchi» e scrissi una storia strappalacrime su una coppia i cui dialoghi strascicati erano sempre intrisi di disperazione. Dopo aver letto Jay Mac e altri, tirai fuori un paio di romanzi incredibilmente mediocri con giovani uomini feriti per protagonisti. Firmavo le lettere che spedivo ai miei amici con l’espressione «Così va la vita» – il tormentone di Mattatoio n. 5, ripetuto più di cento volte nel romanzo – senza citare la fonte.
Stavo lavorando per diventare uno scrittore. Lavoravo sodo a dirla tutta, ma perlopiù ero ancora un imitatore. Forse era giusto così, dal momento che quella che seguì fu una specie di déja-vu alla Billy Pilgrim: la chiamata per una nuova guerra nel vecchio deserto – Iraq – contro il vecchio nemico – Saddam Hussein – dichiarata dal nuovo presidente Bush. Avevo di nuovo diciannove anni, solo che non era più così. Ero lo spettatore della mia stessa memoria.
Questa volta, anziché presentarmi per il reclutamento, marciai lungo le strade sganciando slogan e pamphlets. Un pomeriggio, seguii un’enorme protesta che ospitava come relatore un senatore afroamericano. (Fu l’unico politico abbastanza coraggioso da opporsi all’invasione dell’Iraq del 2003, e lo amavo per questo. La sua lungimiranza lo ha aiutato a diventare presidente.)
Eppure proprio come nelle storie di Vonnegut, rese assurde dai loro refrain, i nostri sforzi risultarono inutili. La guerra scoppiò lo stesso. Persi il controllo. Me ne rimasi steso sul pavimento del mio minuscolo appartamento per giorni: saltavo lezioni, lavoro, pasti, sonno e guardavo la guerra alla televisione. Hic. Scrivevo anche, finalmente, furiosamente, riversando sulla pagina la mia depressione ad ogni ora di notiziario di guerra. Come in una replica, guardavo e allo stesso tempo ricordavo la sabbia e i soldati, Saddam e Bush. Ricordai le lezioni imparate quando ero il soldato qualunque che aveva trovato Vonnegut o, forse, era stato Vonnegut a trovare me.
A un certo punto, il notiziario mostrò per un attimo la foto di Shoshana Johnson, una giovane soldatessa afroamericana. Colpita alle gambe, fu tra i primi soldati catturati dagli iracheni.
Lei era partita per la guerra, io per una ricerca attraverso l’umorismo, il dolore, il sarcasmo, la critica, la polemica. Oscenità. Violenza. Manie. Solo che io non volevo scrivere di me. Volevo scrivere di quei soldati le cui storie di guerra non avevano meritato la stessa copertura mediatica (e/o della nostra relazione con la copertura mediatica stessa). Inoltre, avevo bisogno di esplorare la cultura della guerra, questa spirale pilgrimesca, questa ripetizione vonneguttiana, esplorare come e perché, dannazione, continuiamo a perpetuarla. Volevo scrivere la mia versione di un buco di culo a forma di asterisco. Volevo tirare fuori le emozioni del campo di battaglia e lasciarle cadere dritte nelle vostre cucine, negli uffici, negli autolavaggi. Volevo portare la guerra dentro casa.
A volte mi pento di non avere mai destinato quei libri di Vonnegut a un nuovo Any Soldier. Dal 1992, li ho solo spostati di mensola in mensola, dall’università al lavoro, dal matrimonio al divorzio, per tutto il paese. Due volte, hanno passato un anno nel garage di un amico mentre attraversavo il pianeta. Comica finale e Mattatoio, come talismani. La mia storia di guerra, i miei ricordi, scritti da qualcun altro – accade quasi sempre così con le storie di guerra, a quanto pare. Billy Pilgrim ritorna, proprio come George Bush, come fecero mio nonno e mio padre e come ho fatto io. Come hanno fatto Shoshana Johnson e le migliaia di giovani soldati in televisione. Soldati Qualunque, Any Soldiers, ogni volta chiusi dentro una storia.
© Odie Lindsey, 2016. Tutti i diritti riservati.
Gli scritti di Odie Lindsey appaiono in Best American Short Stories, Iowa Review, Guernica, Columbia, Forty Stories: New Writing from Harper Perennial e altrove. Lindsey è un veterano di guerra; la sua raccolta di racconti, We Come to Our Senses, è stata recentemente pubblicata da W.W. Norton.
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