Chi scrive i nostri libri, il secondo volume delle lettere di Julio Cortázar è in libreria. In occasione della presentazione del libro – questa sera alla Casa Argentina di Roma – pubblichiamo oggi la prefazione di Francesco Piccolo.
«Pensieri ossessivi di uno stalker di Cortázar»
di Francesco Piccolo
Se si ama uno scrittore, come io amo Cortázar, come voi presumibilmente amate Cortázar per aver acquistato questo libro e averlo aperto con il desiderio di cominciarlo, si diventa degli stalker letterari. Lo si segue, insegue, pedina, spia; si rovista nelle carte, si osservano i disegnini e gli appunti. Si ricostruiscono relazioni sentimentali e professionali, si giudica il carattere, si azzarda perfino un’osservazione irriverente sulla qualità o verità del suo amore per qualcuno o qualcuna.
Se si ama uno scrittore, si leggono le sue lettere. Se non lo avete già fatto (sospetto di sì) e volete diventare degli stalker professionisti di Cortázar, vi verrà sicuramente il desiderio di leggere anche Carta carbone, la prima raccolta delle sue lettere, dedicata a una selezione di corrispondenza con amici scrittori.
Se non siete fissati per le lettere dei vostri scrittori preferiti, per i racconti incompiuti; o per i soggetti mai realizzati dei vostri registi preferiti (se non guardate con morbosa passione ogni fotogramma degli extra dei dvd), non siete degli stalker. Se non siete degli stalker, o non volete diventarlo, allora lasciate perdere questo libro, tornate alla produzione delle opere narrative di Cortázar, amatele e accontentatevi. Ma attenzione, in questo modo vi succederà quello che è successo ad alcune ragazze per le strade di Buenos Aires: camminerete con un libro di Cortázar sotto il braccio, vi fermerete davanti a una vetrina di una libreria per guardare le ultime novità, e non vi accorgerete che quello «spilungone» accanto a voi è Julio Cortázar in persona, che avrebbe la tentazione di dirvi qualcosa ma non la dirà, e quindi voi avrete in mano l’opera senza accorgervi della vicinanza fisica con l’autore.
Sia ben chiaro: si può amare l’opera di uno scrittore senza avere nessun interesse per la sua vita, i suoi amori e perfino per la costruzione di quell’opera. Cioè, per le lettere. Ma significa non essere – non voler essere uno stalker. È legittimo, ma incomprensibile.
In letteratura, lo stalker non soltanto è ammesso, ma è ben accolto.
Bisogna considerare alcune cose. La prima, è che le lettere di uno scrittore, tutte, ma in special modo quelle editoriali o che comunque hanno a che fare con la letteratura, si dividono in due grandi blocchi cronologici.
Il primo blocco è quello dell’aspirante scrittore, quell’essere umano fragile e ostinato che vuole a tutti i costi avere a che fare con l’esprimersi, e il suo grado di ostinazione è tanto più alto quanto maggiore è il suo talento. Il primo blocco quindi, la prima parte della vita di uno scrittore che diventerà, metti, Julio Cortázar, è frenetico, entusiasta, autenticoperché piuttosto inconsapevole. Certo, ci sarà l’idea, accanto a quel giovane che lascia l’insegnamento o attraversa case e città, di diventare un giorno qualcuno – un sentimento generico che corrisponde a quelli che nel letto la mattina si ripassano il discorso dell’Oscar o la conferenza stampa dopo aver segnato il gol decisivo ai Mondiali. Una questione che riguarda tutti, ma che non è necessariamente legata alla realtà dei fatti. Nella sostanza l’inconsapevolezza non viene scalfita se non per un sogno generico che casomai si intravede (o si vede, come capita in qualche lettera delle prime pagine). Però la sostanza umana è fatta di scetticismo di fondo, e quindi la testa di uno scrittore in attesa del giudizio di un amico, di un collega, di un editore o di qualsiasi altro lettore, è timorosa e speranzosa. Quindi la concentrazione di richieste e risposte e di scenografia dell’attesa è totale. Cortázar è completamente immerso nella sua rete di relazioni letterarie, copia racconti, spiega i cronopios, annuncia un libro un po’ più lungo (Rayuela).
Il secondo blocco è quando uno scrittore è diventato uno scrittore. Il tempo in cui Julio Cortázar è già, su per giù, Julio Cortázar – o qualcosa del genere.
«Semplicemente sono più vecchio, e scopro cose che succedono intorno a me e che contano più delle pure invenzioni», annuncia in una di queste lettere. In qualche modo sta spiegando la sua trasformazione di scrittore, ma allo stesso tempo sta anche dicendo un’altra cosa, conscia o inconscia che sia: i sogni di gioventù si sono realizzati, quest’uomo che vive felicemente lontano da Buenos Aires adesso è diventato davvero Julio Cortázar, nonostante tenti di ribellarsi: «Mi dici che ormai sono già un classico, ma ti sbagli. Nessuno è classico se non lo vuole. I professori possono appioppargli quest’etichetta, ma lui (e i suoi libri) ci sputano sopra. Io sono sempre lo stesso sconcertato cronopio che cammina guardando le bave del diavolo per aria, e che dopo aver fatto ventimila chilometri scopre di non aver tolto il freno a mano».
È qui che lo stalker è particolarmente eccitato. In questo tempo in cui il rapporto tra l’essenza più vicina a quel ragazzo sognatore – un’essenza che uno scrittore, anzi qualsiasi essere umano, deve sempre cercare di conservare nella percentuale più alta possibile – è messa a confronto, in contatto quotidiano (in lotta quotidiana) con la parte matura e consapevole di sé e anche del proprio valore. Ed è un tempo in cui – lo stalker sa giudicare e comprendere anche la vanità – le lettere sono scritte, quando si è lucidi e non distratti o incazzati, avendo coscienza che saranno lette forse un giorno da qualcun altro. Per esempio, e appunto: dagli stalker che ora siamo noi.
Sia chiaro. Anche Julio Cortázar è stato stalker di qualcuno. Non c’è dubbio. Anche da qui nasce la consapevolezza di come comportarsi, di cosa sono le speranze e le delusioni. Perfino di cosa significhi coltivare il sogno di fare della scrittura il proprio mestiere. Ogni scrittore, presumibilmente, è stato stalker di un altro scrittore. Perché dentro la corrispondenza d’amore, d’amicizia, professionale e editoriale, ha rintracciato (a ragione o a torto, che importa?) le combinazioni genetiche che lo rincuoravano, che lo facevano sentire parte di quel mondo di cui avrebbe voluto far parte; e che lo rafforzavano nella convinzione che ne avrebbe un giorno fatto parte.
Prendete la nascita dei cronopios. Forse il regalo più bello di queste lettere editoriali è assistere al fatto incontrovertibile, e allo stesso tempo del tutto insensato, dei cronopios che diventano qualcosa di concreto, un corpo solido della letteratura, pur nascendo da un’invenzione dell’autore. All’improvviso, in queste pagine che scandiscono il cammino di Cortázar, appaiono le descrizioni dei raccontini chearrivano all’autore come una scarica di meteoriti, e cominciano a occupare anche tutte le lettere che scrive. A diventare un suo modo di definire sé stesso, gli amici più cari, o a intuire la qualità di una persona (un editore, per esempio) che non si conosce. Ho capito che lei è un cronopio, dice Cortázar, l’ho capito subito.
Noi sappiamo che è questa invenzione cortazariana che ci ha sedotti, ed è probabilmente il motivo principale per cui siamo diventati suoi stalker. E un’altra delle scoperte straordinarie che si fanno leggendo le lettere è che la sua invenzione è trattata con convinzione ma in modo ironico, quasi come un mezzo per trovare spinta creativa, che spingesse a venir fuori una gran quantità di piccoli racconti. Un’altra ancora (in rapida sequenza) è che sia gli altri sia lo stesso Cortázar mirano a tamponare questo fiume di racconti. Lui stesso dice che si è ripromesso di smetterla («I cronopios mi venivano in mente per strada, sulla metro, nei caffè: cronopios da tutte le parti, sempre a infilarsi in certi casini tremendi, e sempre deliziosi e raggianti di simpatia. Proprio per combattere quella facilità mi sono imposto un limite: settembre 1952. Ho scritto l’ultimo racconto e basta»); anzi ha smesso, e poi aggiunge che ne ha scritto un altro solo, appena dopo aver smesso, che uscirà dopo pochi giorni su una rivista.
I cronopios sono per Cortázar come le sigarette per Zeno Cosini. E infatti per smettere poi mette in campo un progetto più «lungo», così lo definisce. E così via, un libro dopo l’altro, con il tormentato Rayuela che manda agli editori con la nota decisiva del pianto di commozione di sua moglie, quando lo ha letto. La visione tutta in fila del cammino creativo di Cortázar, del domino che intreccia i lavori precedenti e quelli successivi. Questo raccontano le lettere scelte qui, a disposizione degli stalker di Cortázar che non trovano pace e vogliono sempre di più, sempre di più.
Cosa sono le lettere editoriali per uno scrittore? È come quando un allenatore di calcio, o un calciatore, o comunque un dirigente sportivo, smette di stare al bar a chiacchierare e ad ascoltare i commenti dei tifosi o degli amici, e torna negli spogliatoi. Insieme alla squadra, insieme alle persone con le quali condivide la realizzazione concreta del lavoro, ciò a cui si riferiscono le chiacchiere – ciò che le alimenta.
Quello che è stato detto lì fuori, e che ha una sua possibile verità di cui tenere conto, qui dentro viene trasformato in un linguaggio condiviso con codici veloci, viene tecnicizzato in un modo voluttuoso. Parlare di come mettere in sequenza i racconti, o di dove collocare il numero che indica la pagina – se in alto o in basso, a destra o a sinistra; attendere un giudizio su un libro spedito dall’altra parte del mondo, fare le note al traduttore di una lingua sconosciuta, raccontare un progetto che forse non si realizzerà mai, chiedere con insistenza le ultime bozze per controllare che sia stato fatto tutto secondo la propria volontà: ecco cosa è la pratica quotidiana di questo mito letterario che si chiama letteratura.
Ed è il luogo dove uno scrittore – che non può smettere di essere scrittore nemmeno durante il sonno – vuole stare. In pratica, dagli spogliatoi non si vorrebbe uscire mai più. Né per andare in campo a giocare, né per allontanarsi, lì fuori. Si vorrebbe restare lì, a chiacchierare. Di ciò che si è fatto e ciò che si farà. Gli spogliatoi sono il luogo giusto, il liquido amniotico dove si chiacchiera e chiacchiera e chiacchiera: si progetta, si fa finta di essere molto più avanti di quanto si è realmente in un lavoro, si ascolta e si parla, si consumano vendette, si elargisce generosità senza sottolineature.
«Io scrivo poco. Le mie Storie di cronopios e di famas hanno ripugnato Baudi, Daniel (che me lo ha detto col guanto bianco) e Aurora. Le trovano “moralizzanti”. È possibile, sebbene non fosse mia intenzione. Ciò che mi dispiace è che non esprimano (vale a dire, che i raccontini non trasmettano con efficacia) altre qualità e intenti che erano ciò che contava e conta davvero per me».
Gli spogliatoi sono il luogo dove chi ha sufficiente forza per sopportare le delusioni verrà premiato un giorno dal fatto che i suoi stalker leggeranno le parole di quella delusione come un preludio alla grandezza. Un fatto che potrebbe anche essere vero, ma che nel momento della delusione è inimmaginabile. Così, se lo stalker soddisfatto dalle lettere editoriali uscisse con questo libro sotto il braccio e camminasse per le strade e si fermasse a osservare la vetrina di una libreria, lo spilungone stavolta una frase avrebbe il coraggio di dirla, ed è esattamente quella che ognuno di noi cortazariani vorrebbe sentirsi dire.
Direbbe: «anche tu sei un cronopio».
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