Pubblichiamo un articolo di Roxane Gay, apparso sul numero dell’autunno 2014 della Virginia Quarterly Review. Ringraziamo l’autrice per averci concesso la possibilità di tradurre il testo.
di Roxane Gay
traduzione di Dario Matrone
Non puoi mai sapere quando o se arriverà la svolta nella tua carriera di scrittore. Scrivi e scrivi e scrivi e speri che qualcuno là fuori riconosca quello che credi di averci messo dentro, e poi scrivi e speri e aspetti ancora. Io penso che la mia svolta sia arrivata adesso. Quest’anno ho pubblicato due libri: un romanzo, An Untamed State, e una raccolta di saggi, Bad Feminist. Entrambi sono stati accolti favorevolmente dai critici. Il secondo è entrato due volte nella classifica dei bestseller del New York Times. Gli articoli su di me non fanno che ripetermi che è il mio momento, la svolta. Una parte di me riconosce che è il mio momento, mentre un’altra parte, quella più implacabile, una parte che non trova pace, è soltanto più affamata, e vuole di più.
Ho iniziato a capire la forma e la ferocia della mia ambizione quando ero all’asilo. Ad ogni bambino avevano dato un foglio di carta con sopra disegnati due bicchieri. Ci spiegarono che dovevamo colorare metà del disegno. Stavamo imparando le frazioni, credo. Ombreggiai diligentemente metà di uno dei bicchieri e tutta soddisfatta consegnai il compito alla maestra. Con un’espressione che ai tempi ancora non si usava, avrei pensato: Ho spaccato. Naturalmente non avevo spaccato un bel niente. L’esercizio consisteva nel colorare un bicchiere intero. Invece delle lodi che già mi pregustavo, presi un due, che col senno di poi sembra un po’ troppo impietoso considerando che eravamo all’asilo. Non potevo riportare a casa un voto del genere. Avevo già iniziato a pretendere il massimo da me stessa e non sapevo affrontare il fallimento.
Tornando a casa sul pullmino, infilai la prova della mia vergogna in una fessura del rivestimento di pelle rinsecchita del sedile e ritenni che la faccenda fosse sistemata. L’autista, un tipo zelante, trovò il foglio accartocciato della mia insufficienza e il giorno dopo, quando mi fece scendere davanti a casa, lo diede a mia madre. Lei non ne fu contenta. Io non fui contenta della sua scontentezza. Non volevo provare mai più quella sensazione. Giurai di migliorare. Giurai di diventare la migliore. In quanto bambina nera in questi Stati Uniti – ero figlia di immigranti haitiani – non avevo scelta: dovevo impegnarmi per diventare la migliore.
Molte persone di colore nel nostro paese probabilmente hanno vissuto l’affacciarsi di un’ambizione smodata a un’età troppo giovane, un’ambizione alimentata dall’impressione, spesso confermata dall’ignoranza, di essere un cittadino di seconda categoria e di dover lottare con le unghie e con i denti per ottenere pari considerazione e una parvenza di rispetto. Molte persone di colore, come me, ricordano il momento che per la prima volta ha dato forma alla loro ambizione, e che cosa hanno provato in quel momento.
Nel concetto di svolta spesso è sottinteso che, una volta raggiunto un certo traguardo, tutto si risolve da sé. La vita si adegua ai tuoi capricci. Non bisogna più lottare, non c’è più niente da desiderare. Non si subiscono più rifiuti. Questa è una fantasia davvero squisita che non ha alcuna somiglianza con la realtà. Eppure. Ho notato che adesso certe figure chiave della mia vita professionale rispondono alle mie email con velocità sorprendente quando prima lo facevano con calma e senza fretta. Questo mi piace.
Penso al successo, all’ambizione e all’essere neri, e al fatto che per un nero il successo porta con sé anche tante responsabilità. Niente esemplifica meglio il successo e l’ambizione dei neri del Black History Month: un mese celebrativo di cui sono arrivata ad avere il terrore, perché è il momento in cui la gente dimostra un misterioso interesse a condividere con me episodi della storia dei neri per farmi capire che loro non sono razzisti. È il mese in cui segreghiamo alcuni tra i più significativi protagonisti del nostro passato nella storia dei neri anziché integrarli pienamente nella storia americana. Ogni anno, a febbraio, prendiamo a esempio gli eroi dei diritti civili e gli innovatori, gli scrittori, gli artisti neri che hanno aperto tante possibilità a questa generazione. Diciamo: guardate cosa hanno realizzato i migliori di noi. Tiriamo fuori dal cappello W.E.B. Du Bois, che una volta ha scritto: «La razza negra, come ogni razza, sarà salvata dai suoi uomini eccezionali». Pretendiamo molto dai nostri uomini e dalle nostre donne eccezionali. Dobbiamo essere eccezionali se vogliamo essere qualcosa.
Il Black History Month è importante, fa da correttivo rispetto a tanta parte della difficile storia razziale americana. Ma nel ventunesimo secolo, relegare l’ambizione dei neri a un mese di celebrazioni sa di costrizione e di limite, più che di ispirazione.
Ta-Nehisi Coates ha pubblicato sull’Atlantic un saggio sul presidente Barack Obama e la tradizione politica nera, che ha toccato un punto su cui sono molto sensibile. A proposito dell’ascesa del presidente, Coates scrive: «Diventa un campione dell’immaginazione, dei sogni, delle possibilità dei neri». Nello stesso saggio, Coates spiega anche come questa visione basata sulla responsabilità personale sia falsa, benché purtroppo sia spesso ripetuta a pappagallo dal nostro presidente, la nostra stella più fulgida, Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti. Alla fine del suo saggio, Coates scrive: «Ma credo che la storia ricorderà anche la sua [di Obama] adesione acritica al concetto del “due volte più bravi” in un paese che ha sempre offerto ai neri, anche sotto la sua guida, la metà delle possibilità». Circa un mese dopo l’uscita di questo saggio, Obama ha annunciato l’iniziativa My Brother’s Keeper («Il custode di mio fratello»), «uno sforzo che vede coinvolti diversi ministeri e agenzie governative per migliorare in maniera misurabile i risultati attesi, a livello di istruzione e di qualità della vita, per i ragazzi e i giovani uomini di colore, allo scopo di colmare la persistente carenza di opportunità che essi si trovano ad affrontare». L’iniziativa è animata senz’altro da buone intenzioni, ma rispecchia anche l’idea che gli americani neri debbano diventare più rispettabili per contare qualcosa. Nella sua incarnazione originaria, dava anche l’impressione che contassero solo i ragazzi e i giovani di sesso maschile. In apparenza, il programma My Brother’s Keeper non fa nulla per risolvere i problemi sistemici e strutturali che affliggono i giovani di colore, per quanto ben preparati o rispettabili o personalmente responsabili siano.
Sono arrivata a capire quanto anch’io, nel corso della mia vita, abbia sposato la narrazione di questo affascinante mito della responsabilità personale e dell’eccellenza. Mi sono resa conto che dentro di me credo davvero che arriverà il paradiso in terra se soltanto lavoro – se soltanto lavoriamo – abbastanza sodo. Questo atteggiamento mi rende sempre più infaticabile: lavoro sodo, e poi lavoro ancora più sodo. Mi vergogno ad ammetterlo, ma a volte una parte di me crede che noi, come popolo, saremo salvati dai nostri uomini eccezionali, senza considerare chi potrebbe pagare il prezzo di tale salvezza, o chi verrebbe lasciato indietro.
Du Bois era esplicitamente un fautore del «Decimo Talentuoso», l’idea che ogni dieci uomini di colore uno fosse destinato alla grandezza, a diventare il valoroso leader di cui i neri avevano bisogno per elevarsi e trionfare e progredire. Si trattava di istruire e guidare questo dieci per cento di uomini in modo che diventassero i leader, l’avanguardia per il cambiamento socio-politico di cui tanto si sentiva la necessità.
Spesso tuttavia dimentichiamo chi elaborò per primo il concetto di «decimo talentuoso». L’idea iniziò a circolare negli anni Novanta dell’Ottocento, sostenuta da facoltosi liberali bianchi. Il termine in sé fu coniato da Henry Lyman Morehouse, un bianco, il quale scrisse: «Nel dibattito a proposito dell’istruzione dei negri non dobbiamo dimenticare il decimo talentuoso […]. Il decimo uomo, con doti naturali superiori alla norma, simmetricamente addestrato e altamente sviluppato, può arrivare a esercitare un’influenza più potente, a rappresentare una fonte di ispirazione più grande rispetto a tutti gli altri nove, o nove volte nove come loro». Un’affermazione vagamente ripugnante e indorata di condiscendenza, secondo cui se si concentravano gli sforzi maggiori sui migliori elementi del popolo nero, alcuni potevano essere salvati da sé stessi. A distanza di tanto tempo, crediamo ancora che possa essere vero.
Prima, durante e dopo l’epoca di Du Bois il «negro» è stato un problema che necessitava di una soluzione. Storicamente, inutile dirlo, trascuriamo con troppa facilità di esaminare le origini del problema. Sembriamo ancora in cerca della soluzione, nonostante qualcuno affermi che gli Stati Uniti stanno entrando in un’epoca post-razziale. Dimentichiamo che non si deve misurare il progresso di noi neri soltanto in base a quelli che ottengono i successi più eclatanti, ma anche in base a quelli che continuano a restare indietro.
Mentre vivo quello che alcuni definiscono il mio momento di gloria, sono nel mezzo del mio secondo tour di presentazioni. Il primo, per promuovere il romanzo, mi ha portato in tredici città, partendo da Boston. Nella mia stanza d’albergo avevo un caminetto che mi teneva i piedi belli caldi. Quel caminetto l’ho guardato con meraviglia. Mi sentivo ancora piena di energia per il mio primo evento da Brookline Booksmith. Non avevo ancora capito quanta energia ci vuole, per una persona introversa, a fingere di essere estroversa. Durante quel primo appuntamento ero nervosa, ma tenere in mano il mio libro mi ha aiutato. Guardare le parole che avevo scritto mi ha aiutato. Vedere un pubblico di lettori che mi sostenevano mi ha aiutato. I librai sono stati fantastici.
La seconda tappa era New York, una città che comunica sempre un misto di timore ed euforia. Ci sono stati due reading, al Community Bookstore e da McNally Jackson, dove ho avuto due conversazioni, rispettivamente con Sari Botton e Ruth Franklin. In entrambi i casi i posti a sedere erano esauriti, il pubblico era composto da persone molto attente, tutti compravano il mio libro e mi chiedevano di firmarglielo. La stessa esperienza si sarebbe ripetuta in ogni città. Sono uscite recensioni, per la maggior parte favorevoli, persino sul New York Times. La rivista Time ha dichiarato: «Questo sarà l’anno di Roxane Gay». Era tutto così assurdo.
E poi è uscita la mia raccolta di saggi. Le folle ai miei reading si sono moltiplicate. La gente resta in piedi ad ascoltarmi in sale dove si muore di caldo, e poi si mette in fila nello stesso caldo a volte per un’ora, a volte per due, soltanto per incontrarmi, stringermi la mano, posare per una foto, farsi firmare la copia del libro. A Los Angeles ho ricevuto una standing ovation da 450 persone, e questo riconoscimento mi ha quasi fatta cadere in ginocchio perché era tutto così inatteso e gratificante.
Altro reading, altra città, solo posti in piedi. Durante le domande del pubblico, una signora anziana ha raccontato la storia di quando non riusciva a farsi rilasciare una carta di credito perché non era sposata. Mi pare che l’anno fosse il 1969. Ho riflettuto sul suo racconto tutta la notte e non facevo altro che pensare: Che io possa essere degna degli sforzi che hai fatto per rendere la mia vita possibile.
Allo stesso reading ho conosciuto una ragazzina di diciassette anni di nome Teighlor che era venuta con sua madre. Si è seduta nelle prime file, e gli occhi non hanno smesso di brillarle un attimo. Le ho lanciato una shopper di Bad Feminist e lei l’ha tenuta stretta fra le mani. Era la prima nella fila per il firmacopie e mi ha detto che ero il suo idolo ed era assolutamente adorabile e io ho sentito un pizzicore agli angoli degli occhi perché ero troppo commossa. Non facevo altro che pensare: Che io possa essere degna del tuo rispetto e della tua ammirazione.
Allo stesso reading ho conosciuto un ragazzo di nome Robert che si era portato dietro anche sua madre. Lei ha iniziato a parlarmi in creolo così io ho risposto a tono. Erano di Haiti ed erano semplicemente estasiati di incontrare un’altra haitiana del Midwest. In libreria erano finite le copie del mio libro, ma loro volevano conoscermi lo stesso. Mi hanno chiesto scusa, come se fossero in debito con me. La loro presenza al reading è stata il dono più grande che potessero farmi. Gli ho regalato la mia copia personale del libro e gliel’ho firmata. Hanno chiesto di farsi una foto con me, e io non facevo altro che pensare: Che io possa essere degna del vostro rispetto. Che possa essere degna della storia del nostro popolo.
Ci sono stati tantissimi incontri quella sera e tutte le altre sere che mi hanno fatto pensare: Che io possa essere degna di tutto questo. E una parte di me capisce quanto ho lavorato sodo per questo, e che me lo sono, in parte, meritato.
Il mio romanzo è alla terza ristampa. La raccolta di saggi è alla quarta o quinta ristampa. È il mio momento, e il peso della mia ambizione fa sì che ancora mi domandi se ne sono degna.
Per gran parte della vita ho dato per scontato che siano stati la mia educazione borghese e i miei genitori affettuosi, istruiti, premurosi a darmi la possibilità di impegnarmi per raggiungere l’eccellenza. Quasi tutto ha giocato a mio favore, ben al di là di quelle che possono essere le mie doti naturali. Ho frequentato ottime scuole in quartieri sicuri, residenziali, popolati da persone benestanti. Ho avuto insegnanti che hanno incoraggiato il mio talento e la mia creatività. I miei genitori hanno integrato ciò che stavo imparando a scuola facendomi fare studi ulteriori. Era molto facile credere alla storia secondo cui l’eccezionalità avrebbe aiutato me e quelli come me a superare le sfide che ci troviamo ad affrontare in quanto gente di colore. Non dovevo far altro che lavorare sodo e avere forza di volontà, perché non c’era niente nella mia vita che contraddicesse questo ethos.
In tutto questo, però, c’erano alcuni indizi ricorrenti che mi ricordavano che, pur con tutti i vantaggi da cui partivo, certe infrastrutture, plasmate profondamente dall’ineguaglianza razziale, non avrebbero mai accettato di dare spazio a me o alle mie esperienze. Non sarei mai riuscita a lavorare abbastanza sodo. Non dovevo essere due volte più brava, dovevo essere quattro volte più brava, forse anche di più. È per questo che sono così implacabile. È per questo che non sono soddisfatta e presumibilmente non lo sarò mai.
Il liceo l’ho fatto in un collegio. Ero una dei pochi studenti neri, e anche rispetto a loro ero una straniera in terra straniera, una trapiantata dal Midwest nelle terre selvagge del New Hampshire. All’inizio, il nostro gruppetto di studenti neri non aveva niente in comune a parte il colore della pelle, ma era un bene che ci fosse almeno quell’affinità, perché agli occhi degli studenti bianchi eravamo degli usurpatori che calpestavano il sacro suolo a cui solo loro, con la loro pelle bianca, avevano diritto di accesso.
Durante l’ultimo anno ricevetti una lettera di ammissione a un college dell’Ivy League. Mi trovavo nell’ufficio postale del campus. Erano tutti in fibrillazione, via via che scoprivano il proprio destino. Aprii la mia lettera e sorrisi. Ero stata accettata in tutte le università per cui avevo fatto domanda, tranne una. Mi concessi un momento di silenzio per festeggiare fra me e me. Accanto a me c’era un ragazzo bianco, il classico tipo che gioca a lacrosse, il quale non era stato accettato dall’università che aveva indicato come sua prima scelta, e in cui invece io ero stata ammessa. Subito si inacidì. Fece un sorriso sarcastico e mormorò: «Tutela delle minoranze», mentre se ne andava tutto sdegnato. Avevo lavorato sodo ma non contava. In quel momento mi fu ricordato qual era il mio posto. Mi fu ricordato perché la mia ambizione non sarebbe mai stata saziata e avrebbe, invece, continuato a crescere ferocemente. Sperai che la mia ambizione crescesse fino a diventare così enorme da non lasciare neanche un angolino di spazio a quelli che non mi volevano tra loro, senza capire che la mia unità di misura non avrebbe mai dovuto essere la loro accettazione.
Al college la situazione non era molto diversa. Era il posto che mi spettava, me l’ero guadagnato, ma erano in pochi a riconoscere questo mio diritto. Non passava settimana senza che io o altri studenti di colore venissimo fermati con la richiesta di esibire il tesserino studentesco. Era più facile credere che fossimo degli intrusi piuttosto che studenti a spasso nel campus tra una lezione e l’altra. Era un piccolo affronto, ma neanche tanto piccolo.
Sia al master che al dottorato ero l’unica studentessa di colore. Ogni obiettivo che raggiungevo mi spronava soltanto a lavorare ancora più sodo per superare in velocità i mormorii di tutela delle minoranze che sentivo dietro le spalle e gli arroganti pregiudizi secondo cui non avrei mai potuto far parte legittimamente di quegli istituti di istruzione superiore (o presunta tale).
Come molti studenti di colore trascorrevo una quantità frustrante di tempo a far capire a persone di pelle bianca, ivi compresi i docenti, quanto fossero ignoranti, o a digrignare i denti quando me ne mancava la forza. Quando nei dibattiti in classe si affrontava l’argomento della razza, tutti gli sguardi si puntavano su di me in quanto esperta di negritudine o portavoce designata del mio popolo. Quando qualcuno faceva una battuta razzista, ci si aspettava che io sghignazzassi oppure che trasformassi lo spiacevole incidente in un momento istruttivo sulla differenza, la tolleranza e lo humour. Una volta un’altra dottoranda, senza accorgersi che potevo sentirla, disse a un gruppo di colleghi che di sicuro ero lì in quota minoranze etniche, e io fui costretta a far finta di niente quando nessuno la contraddisse. Purtroppo aneddoti del genere sono terribilmente comuni, al limite dell’ovvietà, per la gente di colore. Perché non si creda che sto parlando di storia antica, preciso che il dottorato l’ho preso nel dicembre 2010.
Oggi insegno alla Purdue University, dove nel semestre in cui scrivo non ho studenti con il mio stesso colore della pelle, in nessuna delle mie due classi. Non mi è ancora capitato di incrociare un altro docente nero nei corridoi del dipartimento, anche se so che qualcuno ce n’è. In precedenza ho insegnato alla Eastern Illinois University, dove nel mio dipartimento ero uno dei due docenti neri, su soltanto cinque docenti di colore in tutto. Più le cose cambiano, più restano uguali. È questo il prezzo dell’eccezionalità: sei sempre l’unico o uno dei pochi. Non ci sono porti sicuri. Non c’è nessuno specchio in cui si rifletta la tua esperienza.
Ho scritto tre libri, ho un contratto firmato per un quarto, e sto lavorando ad altri tre. Le mie cose sono state pubblicate dappertutto. Vengo invitata regolarmente a leggere e a parlare in tutto il paese. Sostengo come meglio posso le cause che più mi stanno a cuore. In quanto femminista, cerco di essere intersezionale sia con le parole che con i fatti. Quando non ci riesco, cerco di imparare dai miei errori invece di nasconderli come facevo all’asilo.
Ho ottenuto una buona dose di successo, ma non smetto mai di lavorare. Non mi fermo mai. Non sento neanche più un fremito di piacere quando raggiungo un nuovo traguardo, come mi capitava prima. Sto vivendo il mio momento di gloria, ma voglio di più. Ho bisogno di qualcosa di più. Non posso limitarmi a essere abbastanza brava perché sono inseguita dai sussurri funesti di chi dice che sono «abbastanza brava per essere una donna di colore». Me ne vergogno, ma a volte ho il dubbio che possano avere ragione, perché è così che il razzismo profondo del nostro paese riesce a far venir meno l’autostima di qualunque donna. So di essere fortunata perché, a differenza di troppe persone di colore, in tutta la mia vita ho avuto ben più di «metà delle possibilità». Spesso è insopportabile immaginare cosa significhi «metà delle possibilità» per quelli che si arrabattano in tutti i modi per sopravvivere. Io la chiamo ambizione, ma è qualcosa di molto peggiore perché non si riesce mai ad appagarla.
© Roxane Gay, 2014. Tutti i diritti riservati.
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