Abbiamo da poco pubblicato C’è vita sulla Terra?, raccolta di esilaranti cronache di Juan Villoro. Ne pubblichiamo oggi un estratto. Buona lettura!
di Juan Villoro
traduzione di Maria Cristina Secci
Senza cadere in un determinismo che va a esclusivo beneficio delle agenzie di viaggio, ritengo che il messicano preferisca essere un turista piuttosto che un emigrante. Anche se ci lamentiamo delle piaghe che risalgono a quando Tezcatlipoca vagava nel deserto con il suo specchio fumante, raramente pensiamo di andarcene per sempre. José María Pérez Gay ha catturato questo dilemma dell’esilio volontario nel titolo di un romanzo: La difícil costumbre de estar lejos (La difficile abitudine di stare lontano).
Dopo aver vissuto per tre anni a Barcellona, amici che non lascerebbero Città del Messico neanche per sposare Nicole Kidman mi guardano come se non avessi superato l’antidoping. Quale tipo di tossina mi ha fatto tornare? La domanda scaturisce a tavola al momento del dolce, una volta esauriti gli argomenti ovvi e prima che sgorghino i vibranti pettegolezzi che incoronano il pranzo.
La gastrosofia non ha studiato a sufficienza questa zona blanda delle relazioni sociali, la pausa in cui qualcuno deve giustificare perché si trova a tavola. A poco serve dire che la vita in Messico concede i piaceri complementari di lamentarsi del paese e desiderare di andarsene all’estero. Una volta a Barcellona, perdi l’illusione di andartene a Barcellona. L’argomento viene normalmente introdotto da uno sguardo accigliato che significa: «Ti è andata male, vero?» Se la misura del successo è il tempo di emigrazione, bisogna riconoscere che ogni ritorno equivale a una sconfitta.
Durante gli incontri di valutazione della vita nazionale, giunge il momento della pietà – all’ultima cucchiaiata di flan –, quando gli amici cominciano a criticarsi perché tu ti renda conto di quanto è assurdo stare di nuovo con loro. Questa circostanza ti diverte «alla messicana» (lo sproposito risulta comico, così come l’offesa cortese, l’irresponsabilità originale, il doppio senso felicemente indecifrabile). Torni a casa e scopri che anche l’insonnia ha la sua ora del dolce: «Perché sono tornato?»
Per fortuna, il destino si esprime in forma narrativa e genera storie che traducono le virtù del ritorno. Passai i miei primi giorni a Città del Messico a casa di mia madre. Ogni tanto, qualcuno gridava fuori dalla porta: «Vendete lenti d’ingrandimento?» Mi sorprese la reiterata confusione fino a quando mia madre disse: «Ti sei già dimenticato di quanto sia strano il Messico». Per tre esemplari anni, lei aveva conservato i nostri mobili nel suo salotto, sicché la conversazione si svolgeva in uno scenario che assomigliava a un bazar ottomano. Sì, il Messico era strano.
Dopo alcuni giorni, portai mia figlia a dar da mangiare agli scoiattoli dei Vivai di Coyoacán e riuscii in una goffaggine che posso solo qualificare come «molto intellettuale»: un frammento di buccia di nocciolina mi si conficcò nell’occhio.
Mia madre mi trovò che ero alle prese con un lavaggio brutale. «Non preoccuparti», la stupenda frase che ripete da oltre mezzo secolo fu seguita da un’altra sorprendente: «C’è una mia amica oculista nella salumeria qui accanto». Mia madre chiese a Eufemia di sostituire la dottoressa nella fila per il prosciutto di tacchino e di approfittarne per comprare della mortadella. Eufemia è riuscita a far sì che tre decadi della nostra famiglia orbitassero attorno alla sua lealtà e alle ricette che ha portato da Oaxaca.
Nonostante la torcia da esploratore di mia madre, mancavano gli strumenti per una visita appropriata. L’oculista non vedeva bene. Fu il momento dell’epifania: «Ho una lente d’ingrandimento», disse mia madre. Si diresse verso uno degli scatoloni della sala, srotolò un tappeto e potemmo ammirare il brillare incerto di centinaia di lenti. «Ho anche dei telescopi», aggiunse. Mi esaminarono con un piccolo telescopio coreano. L’amica di mia madre intervenne con la perizia dei grandi medici: mi toccò solo una volta, quando la preda era a portata di mano, e rifiutò di essere pagata. Il sollievo era superato solo dallo stupore che una particella così piccola potesse provocare tanto scompiglio. dopo pochi minuti, un’altra vicina, padrona ufficiosa del negro, un cane semirandagio a cui mia madre dava da mangiare, bussò alla porta per vedere come andava il mio occhio.
Il pezzetto di guscio obbligò mia madre a parlare delle sue lenti d’ingrandimento. Sì, le vendeva. Perché lo teneva segreto? Ci sono argomenti di cui si parla in famiglia e argomenti di cui si parla solo al di fuori della famiglia. Da quanto venni a sapere quel giorno, uno di questi è il commercio di lenti. non insistetti. dopo tutto, le mie scatole e i miei mobili nella sala conferivano normalità al mucchio di lenti e telescopi. Chiesi a mia madre il permesso di raccontare l’aneddoto. Le sembrò la forma perfetta del segreto: «Tanto nessuno ti crede!»
Niente mi sembrò più logico o appagante che stare lì. Dove mai mi avrebbero soccorso in quel modo? Qualche minuto dopo bussarono alla porta. Due donne con indosso degli scialli volevano delle lenti d’ingrandimento. Ricordai che anche le volte precedenti, quando avevo aperto la porta e mi avevano chiesto delle lenti, avevo notato persone difficilmente associabili a questo strumento. Non sembravano gioiellieri, né filatelici, né detective in impermeabile. Erano signore che chiedevano lenti come avrebbero potuto chiedere del prezzemolo. Una nuova usanza popolare le portava a indagare il mondo da vicino? «Cosa ci fanno con le lenti?», chiesi a mia madre. «Suppongo che guardino delle cose», mi disse, «gli occhi non si usano per questo?» Avvertii una fitta nel punto in cui si era conficcato il guscio della nocciolina: non ero autorizzato a contraddirla.
Nel pomeriggio vidi mia madre fare i conti con Eufemia. Si portavano il foglio vicino agli occhi per vedere i numeri. Chiesi perché non usassero una lente. «Noi vendiamo lenti», disse mia madre in tono di ovvietà. Rimasi lì come davanti a una lente d’ingrandimento che rendeva la normalità meravigliosamente indecifrabile.
Ero tornato.
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