Germaine Greer

La significativa scomparsa di Germaine Greer

Carmen Winant BIGSUR, Ritratti, Società

Pubblichiamo un ritratto di Germaine Greer, autrice di uno dei testi fondanti della critica femminista contemporanea, L’eunuco femmina. L’articolo è apparso su Cabinet, n. 57, autunno 2015. Ringraziamo l’autrice e la testata.

di Carmen Winant
traduzione di Sebastiano Nigro

Una delle caratteristiche più rilevanti della rivoluzione femminista degli anni Sessanta e Settanta è stata la capacità di creare scalpore. Prendiamo l’indimenticabile «Dialogo sulla liberazione delle donne», una conferenza che si svolse a New York nel 1971. Quattro delegate furono invitate a intervenire in una discussione moderata da Norman Mailer, che aveva appena pubblicato Il prigioniero del sesso, un libro decisamente poco femminista. Presentato come un «dibattito», l’incontro si risolse – come è documentato in Town Bloody Hall del cineasta D.A. Pennebaker – in qualcosa di molto più simile a una sommossa. Il pubblico numeroso divenne irrequieto ancora prima che il dibattito iniziasse; una disturbatrice gridò sovrastando il baccano: «La liberazione delle donne tradisce i poveri! Norman Mailer tradisce i poveri!» Gli spettatori, tra cui Betty Friedan e una pacata Susan Sontag, erano venuti per sentir parlare della rivoluzione in atto. Erano venuti per vedere Norman Mailer attaccare ed essere attaccato pubblicamente dalle femministe in merito alla politica della sessualità. Ma soprattutto erano venuti per vedere Germaine Greer.

Era favolosa: avvolta in una giacca di pelliccia nera e in un vestito lungo, stiloso, senza maniche, la trentaduenne Greer era alta più di un metro e ottanta, con i lineamenti spigolosi, quasi ossuti, e una folta chioma di capelli neri vaporosi. Sul palco il suo stile era non tanto quello di una performance quanto di una controllata seduzione. Nonostante i modi pacati, che mettevano in soggezione gli altri relatori, le risposte di Germaine Greer a Mailer e al pubblico erano talmente affilate che si stenta a credere che fossero improvvisate sul momento. A un certo punto se la prende con un signore che aveva chiesto che tipo di sesso potesse aspettarsi nell’era del femminismo, cosa «volevano le donne», rispondendogli senza esitazione (e abbastanza in malo modo): «È meglio che ti rilassi. Qualunque cosa vogliano le donne, tesoro, non è cosa tua». Sfrontata, indomabile, carismatica, Germaine Greer era la femminista più importante del mondo. Oggi, pochi ricordano il suo nome.

Era nata a Melbourne nel gennaio del 1939, durante un’ondata di caldo da record (quella settimana vennero sfiorati i 40° di media) e subito dopo gli Incendi del Venerdì Nero, quando andarono in fumo oltre due milioni di ettari di foresta australiana. Crebbe nei quartieri residenziali, frequentò scuole private cattoliche e, stando a tutte le testimonianze, era intelligentissima. Secondo il suo libro del 1990 Daddy, We Hardly Knew You, un’opera discontinua ma a tratti commovente, il padre era un veterano della seconda guerra mondiale, un rottame umano tormentato dall’ansia che picchiava la moglie ed era assente con i figli. Nel libro si allude anche agli abusi sofferti per mano della madre, che Christine Wallace, la biografa della Greer, ha descritto come «una forza che incuteva terrore». Nel 1954 Germaine Greer aveva sedici anni, era già alta un metro e ottanta e aveva una relazione con una sua compagna di classe. All’età di diciassette anni, quando s’iscrisse all’Università di Melbourne, dimostrava – sono ancora parole di Christine Wallace – una «arroganza intellettuale» e una tendenza a prevaricare gli altri durante le discussioni. Iniziò a portare gonne lunghe, a frequentare corsi di recitazione, a uscire con un professore di filosofia (in seguito l’avrebbe descritta come la storia d’amore più importante della sua vita) e a studiare Byron. A vent’anni si vantava di essere un’anarco-comunista autodidatta.

Fu soltanto quando si trasferì in Inghilterra, nel 1964, per conseguire il dottorato in Teatro elisabettiano a Cambridge, che scoprì la sua vocazione rivoluzionaria e iniziò a corteggiare la notorietà. Tra le sue diverse attività: recitare sul palcoscenico, dove adottava il nome d’arte Rose Blight; condurre in tv, insieme al deejay Kenny Everett, il programma comico Nice Time; firmare rubriche satiriche di giardinaggio con lo pseudonimo di Dr. G.; interpretare la parte della donna tentatrice nel cortometraggio Darling, Do You Love Me?; e cofondare la rivista radicale pro-pornografia Suck. (La stessa Greer apparve nuda sulle pagine della rivista, così come su quelle di Oz, un altro periodico controculturale di Londra; alcune foto, più comiche che oscene, girano ancora in rete.) Si sposò con un operaio edile e divorziò dopo tre settimane.

Influenzata presumibilmente dalla quasi contemporanea protesta delle New York Radical Women al concorso di Miss America, giudicò il reggiseno «un’invenzione ridicola» e si pronunciò apertamente contro la monogamia; per l’allora trentenne Germaine Greer, entrambe erano espressioni di una società profondamente patriarcale che era disperatamente necessario sovvertire. Chi l’ha conosciuta racconta che era divertente, straordinariamente sveglia e sboccata, capace di usare vocaboli quali «leccamela», «figlio di puttana» e «succhiacazzi» mentre partecipava a dibattiti sul potere del sesso. (Sarebbe stata arrestata nel 1972 per aver utilizzato un linguaggio simile durante una conferenza in Nuova Zelanda.) La Greer era ferocemente intransigente riguardo alle sue opinioni, il suo modo di parlare e di padroneggiare il suo corpo. Aveva, parafrasando Mailer, il dono di una personalità impossibile.

L’eunuco femmina, il primo libro della Greer e nodo centrale della sua carriera, fu pubblicato nel 1970. Fece scalpore, esaurendo la prima tiratura nel giro di pochi mesi e facendo affermare la Greer come una voce di primo piano nella liberazione delle donne e come intellettuale di calibro internazionale. Più di altri libri che uscirono all’incirca nello stesso periodo, come La politica del sesso di Kate Millett, pubblicato nel 1969, o La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone, anch’esso pubblicato nel 1970, L’eunuco femmina era scritto per essere letto dalle donne che non erano intellettuali ed erano al di fuori del movimento. Secondo la Greer, il femminismo era, e doveva essere, per tutti. Era un libro rivolto alle donne, non un libro per donne. Articolato in brevi sezioni, intitolate «Genere», «Forme», «Capelli», «Sesso» e «L’utero maligno», descrive le modalità in cui il sessismo è stato istituzionalizzato nella vita di tutte le donne, dai prodotti per i capelli allo status di casalinga. Così, anche quando le idee della Greer erano di per sé rischiose o astratte, il suo stile di scrittura colloquiale e spesso sboccato l’aiutava a comunicare con le donne comuni. Il passo del libro più frequentemente citato offre un ottimo spunto: «Se pensi di essere una donna emancipata, devi prendere in considerazione l’idea di assaggiare il tuo sangue mestruale – se ti fa schifo, hai ancora tanta strada da fare».

La strategia funzionava. L’eunuco raggiunse una diffusione incredibile, bruciando le prime due ristampe e finendo per essere tradotto in undici lingue. Del libro si discuteva nei talk show della notte e nei salotti della classe media. Non è mai andato fuori catalogo. L’anno successivo alla sua pubblicazione, Gloria Steinem e Letty Pogrebin fondarono la rivista Ms.; ponendosi sui binari della Greer, le femministe trovarono un modo per popolarizzare e diffondere il loro messaggio nel grande pubblico.

Sebbene i suoi temi spaziassero dal consumismo alle mestruazioni, L’eunuco aveva un singolo argomento al suo nucleo: la tesi che l’oppressione di genere è onnipervasiva. Sosteneva che le donne erano sistematicamente soggiogate al potere e alla volontà degli uomini e troppo intimorite, educate o inconsapevoli per reagire e rivendicare l’autorità sulle proprie vite. «Ciò che molte donne scambiano per felicità è di fatto rassegnazione», diceva a una giornalista australiana nell’anno della pubblicazione dell’Eunuco. Ancora più significativamente, sosteneva la tesi che questo sessismo, radicato così in profondità, non era il prodotto della paura, ma dell’ostilità. Era un’idea insidiosa che avrebbe ispirato il discorso teoretico femminista, e in seguito quello omosessuale, negli anni a venire. In un oggi celebre passo del libro, affermava: «Le donne non hanno idea di quanto gli uomini le odino». Questa struttura sociale, sosteneva la Greer nel testo, reprimeva la sessualità delle donne e le separava dalla loro libido – da qui il titolo del libro, un concetto ricavato in origine dal titolo di un capitolo di Anima in ghiacco della Pantera Nera Eldridge Cleaver, «Allegoria dell’eunuco nero». Spogliate della loro sessualità, le donne non erano autonome, ma piuttosto arrendevoli, umiliate e, in alcuni casi, schiavizzate. Prive di una loro volontà, erano arrivate a essere odiate non soltanto dagli uomini ma anche da sé stesse. «Finché in quanto donna non riuscirà a cacciare questo falso spettro dalla propria immaginazione e da quella del suo uomo», scriveva la Greer, «continuerà a scusarsi e a nascondersi […] paralizzata e spaventata». Questa idea, che il potere non fosse legato solo al guadagnare soldi e ottenere un predominio fisico, ma all’appropriarsi dei desideri sessuali di un individuo, era completamente originale. Solo sette anni prima, nel suo libro La mistica della femminilità, Betty Friedan aveva scritto dell’inquietudine della casalinga americana come del «problema che non ha un nome». L’eunuco femmina, per il titolo e per il proposito, affermava semplicemente il contrario. Le parole della Greer tagliavano come bisturi; leggendole ritorna alla mente perché la rivoluzione sessuale era chiamata guerra.

Era una tesi coraggiosa per tempi coraggiosi, e la Greer incontrò lodi e critiche in egual misura. Entrambe le reazioni la condussero a diventare il volto pubblico della liberazione delle donne, un ruolo che ricoprì con piacere. La Greer viaggiò in tutto il mondo, dove veniva fotografata, teneva conferenze, concedeva interviste e partecipava a dibattiti. A differenza di altre femministe radicali come Andrea Dworkin, Robin Morgan, Susan Brownmiller, Sheila Jeffreys o Mary Daly, iniziò a diventare velocemente un nome familiare, determinata a far passare il proprio messaggio attraverso canali allo stesso tempo letterari e popolari. La sua contemporanea Gloria Steinem fu forse l’unica altra figura nel movimento a diventare una personalità pubblica, apparendo sulle copertine di Newsweek nel 1971, McCall’s nel 1972 e People nel 1974. La Greer senza dubbio ricercava l’attenzione dei media; fino a che punto lo facesse perché riteneva necessario presentarsi come l’ambasciatrice della sua causa, o al contrario per il semplice desiderio della celebrità personale in sé per sé, rimane poco chiaro.

Alcuni mesi dopo l’uscita del libro, la ABC (Australian Broadcasting Corporation) realizzò un breve documentario sul viaggio di ritorno della Greer a Melbourne, trasmesso sulla televisione nazionale. In una scena particolarmente impattante, un gruppo di studentesse adolescenti del posto descrive come il libro aveva aiutato a risollevare il loro senso di autostima. Una ragazza con le trecce afferma: «Ci stanno preparando a prendere il posto di una comune casalinga». Il testo della Greer, dice, le ha aperto gli occhi sul tentativo della società di farle «il lavaggio del cervello» per trasformarla in una donna sottomessa. La stessa Greer veniva intervistata nel film, mentre stava appoggiata con le spalle a un muro e fumava una sigaretta. Fredda e sicura di sé, sembra fatta apposta per condurre una rivoluzione delle donne moderne.

L’anno seguente, nel 1971, la Greer era ritratta sulla copertina di Life sdraiata sulla panchina di un parco sotto il titolo imprudente: «La femminista impertinente che piace perfino agli uomini». (Un lettore scrisse prontamente al direttore: «Dato che vi state occupando così seriamente delle minoranze oppresse, resto in attesa dell’articolo integrativo: “Gli impertinenti militanti neri che piacciono perfino ai bianchi”».) La rivista – con fotografie che ritraevano la Greer mentre gridava durante una manifestazione; mentre rideva a una festa, seduta a terra e abbracciata a un ragazzo dai capelli lunghi; mentre trasportava un fascio di rami in campagna – cercava di tracciare un ritratto olistico, seppur edulcorato, della giovane pioniera del femminismo. Fatta eccezione per la dichiarazione della Greer «le donne non dovrebbero mai sposarsi», l’articolo era scialbo; soprattutto se confrontato con i titoli dei suoi pezzi «Io sono una puttana» e «Benvenuti nella tempesta di merda», che aveva scritto lo stesso anno, rispettivamente, per le riviste Suck e Oz. Nel giro di pochi mesi, la Greer fu intervistata da Playboy e scrisse un racconto per Harper’s, incentrato su George McGovern, il candidato democratico alle presidenziali. In copertina, il nome dell’autrice era scritto a caratteri molto più grandi di quelli dell’oggetto dell’articolo.

In un dibattito del 1973 sulla mozione «Questa università sostiene il Movimento per la liberazione delle donne», nella sua Cambridge, la Greer si confrontava con il conservatore statunitense William F. Buckley. A differenza del linguaggio del suo libro, il dibattito si tenne su toni decisamente intellettuali – «Non parlerò a questo pubblico come vorrei parlare a quelle nostre sorelle che stanno lavorando in fabbrica», confessava la Greer – ricordando ai suoi colleghi che non era solo una radicale, ma una radicale con un dottorato. Prevalse così nettamente che lo stesso Buckley scrisse nella sua autobiografia Firing Line: «[la Greer] mi surclassò… Nulla di ciò che dissi – e al ricordo ancora mi vergogno per essermi comportato così miseramente – riuscì a fare la minima impressione o ad apportare un contributo al dibattito. Aveva dalla sua la maggior parte della platea». Ad ammettere la sconfitta era un uomo che aveva una carriera di dibattiti alle spalle, durante la quale aveva affrontato noti intellettuali dalle idee progressiste, fra gli altri, Gore Vidal, Noam Chomsky e James Baldwin, sullo stesso palco di Cambridge.

Si dice che negli anni la Greer abbia avuto delle storie con Warren Beatty, Federico Fellini, Martin Amis e, pensate un po’, con il suo avversario abituale Norman Mailer. Era popolare in tutti i sensi del termine. Descritta dalla sua biografa come dotata della «gioventù, il carisma, la sfrontatezza e la padronanza dei media» per guidare il movimento, la Greer è riuscita sia a radicalizzare sia a rendere più glamour la liberazione delle donne. Nella sua scia, tantissime donne si sono identificate nel femminismo e hanno organizzato collettivi nelle loro comunità. La rivoluzione aveva finalmente preso sostanza attraverso quel genere di responsabilità condivisa per cui aveva lottato con tanta veemenza. E poi, di punto in bianco, la Greer smise di essere rilevante.

Forse qualcuno se lo aspettava che sarebbe accaduto. Per prima cosa, L’eunuco femmina aveva i suoi punti deboli. Non proponeva delle soluzioni concrete alle questioni che sollevava, causando insoddisfazione all’interno delle fila. La Greer non faceva alcun cenno nel testo all’aborto o ai diritti riproduttivi, non riuscendo a prevedere ciò che molti hanno riconosciuto come il punto cruciale del femminismo dei quattro decenni a venire: «Roe contro Wade»[1] sarebbe stata tradotta in legge solo quattro anni dopo la pubblicazione dell’Eunuco. Come molti leader della seconda ondata, la Greer considerava solo il genere come origine dell’oppressione delle donne, non riuscendo a riconoscere come le donne povere o non bianche potessero essere oppresse da altre forme di patriarcato socializzato. E, nonostante le sue precoci e progressiste opinioni sui diritti degli omosessuali, la Greer era, e continua a essere, fortemente transfobica. Nell’Eunuco, ad esempio, accenna alla storia di un uomo che vuole diventare donna, ascrivendo tale impulso all’identificazione con la sottomissione femminile e al desiderio di provarla. Questa mentalità si faceva particolarmente insistente nel suo libro del 1999 La donna intera, in cui, in un capitolo intitolato «Signore per finta», condanna l’accettazione dei transessuali da parte della società, scrivendo: «L’ostinazione che uomini diventati donne siano accettati come donne è l’espressione istituzionalizzata dell’erronea convinzione che le donne siano degli uomini difettosi».

Altre posizioni controverse nell’Eunuco includevano la proposta che le famiglie crescano i propri figli in comune, l’affermazione che il testosterone «è un veleno potentissimo», e che perfino «le più basilari credenze circa la normalità femminile» dovrebbero essere messe al bando. È verosimile che la Greer fosse deliberatamente provocatoria; il movimento aveva bisogno di scompostezza e veemenza. Ma queste provocazioni, non importa se strategiche, non sempre vanno a genio. Espressioni come «checche femminili» e «negri professionisti», che fanno la loro comparsa nel testo in diversi punti, sembrano poco accorte e dispregiative. Alla fine, questo genere di radicalismo provocatorio, che aveva agli inizi spinto la Greer sotto le luci della ribalta, è stato la rovina della sua popolarità. Dai primi anni Ottanta, L’eunuco ha iniziato a essere considerato per lo più iperbolico e datato.

La Greer era, su alcune posizioni rilevanti, sempre in disaccordo con sé stessa e con il suo gruppo di appartenenza. Condannava le donne che permettevano agli uomini di determinare il loro aspetto, ma lei stessa posava nuda sulle pagine di riviste pro-sessualità. Si depilava le sopracciglia nonostante l’appello alle donne che non valeva la pena di consumare energie «per farsi carine poiché è un segno di insoddisfazione nei confronti del proprio corpo», e si presentava generalmente come un’icona sexy. (La sua sensualità era, senza dubbio, parte del suo fascino carismatico.) Si dice che la Greer abbia avuto una relazione con Norman Mailer, che era notoriamente contro la contraccezione, contro l’aborto, omofobico e, a detta di molti, antifemminista; soprannominato «porco maschilista» dalla scrittrice Kate Millett, non era sotto alcuni aspetti il tipo di uomo di cui parlava la Greer quando scriveva che «gli uomini odiano le donne»? E, nonostante il suo disgusto per la pubblicità che non può controllare – la Greer non concede interviste in nessuna circostanza e definisce la sua biografa non autorizzata «un batterio carnivoro» (posso solo immaginare che possa pensare di questo pezzo) – nel 2005, dopo aver pubblicato altri dodici libri e insegnato in numerose università, la Greer compariva tra i partecipanti all’edizione australiana del Grande Fratello, un reality televisivo demenziale che consiste nel rinchiudere i concorrenti in una casa e nel filmarli per tutto il tempo. Se davvero il personale è politico, come avevano sostenuto ai suoi tempi le femministe della seconda ondata, è difficile riconciliare le scelte della Greer con le sue idee.

È ancora più rilevante che ci siano delle reali contraddizioni filosofiche all’interno dei dogmi inveterati della Greer. Nel suo libro del 1984 Sex and Destiny, la Greer – una donna che ha sostenuto la tesi persuasiva che l’origine della dipendenza delle donne risieda nell’aver alienato la loro potenziale sessualità – consigliava la castità come un metodo auspicabile per prevenire nascite indesiderate e per «preservare le energie». Nella Donna intera, che anche a giudizio di molti tra i suoi seguaci più fedeli era un testo troppo estremo, la Greer criticava, tra le altre cose, la contraccezione («Un’intromissione maschile nel concepimento e nella nascita»), i controlli medici per il tumore all’utero e al seno («Molte volte sono più indicati per distruggere la pace nella mente di una donna, che per salvarle la vita»), l’aborto («Il sistema medico maschile e il potere giudiziario maschile»), e gli sforzi dell’Occidente per contrastare le mutazioni genitali femminili in Africa («Un attacco all’identità culturale»). Per una persona che indirettamente ha contribuito ad aprire la strada per questi progressi nella salute delle donne – riproduttivi, sessuali e non solo – si tratta di una serie di posizioni contraddittorie, che alla fine porta a chiedersi se la Greer non sia sempre stata più interessata alla provocazione piuttosto che alla solidarietà.

Più di chiunque altra tra le paladine del femminismo, Germaine Greer era, ed è, piena di contraddizioni. A differenza della sua pari Gloria Steinem – un personaggio che, come qualunque buon politico, era di rado incoerente nelle sue azioni o nella sua retorica, e per questi motivi è sopravvissuto ben più a lungo – la Greer era estremamente imprevedibile, si comportava come una femminista che, come lei stessa ha detto, «non rappresenta nessuna organizzazione». Mentre la Steinem fondava la Ms. Foundation for Women, la Feminist Majority Foundation, il National Women’s Political Caucus, la Women’s Action Alliance, Choice USA e la Coalition of Labor Union Women, la Greer era un lupo solitario. (Era una firma regolare di Oz e di Suck, e avrebbe fondato il Tulsa Studies in Women’s Literature, ma non ha mai fatto parte di collettivi particolarmente influenti o inclusivi.) È una posizione che ha permesso alla Greer di parlare a nome di sé stessa, ma alla fine l’ha resa vulnerabile di fronte agli attacchi. Anni dopo, questo atteggiamento avrebbe portato Helen Lewis, vice-direttrice del New Statesman, a definire la Greer come «l’incendiaria» del movimento. In altre parole, la liberazione delle donne aveva bisogno della retorica provocatoria di qualcuno che volesse bruciare tutto – compreso, molto probabilmente, sé stessa.

Sebbene la sua celebrità iniziò a calare con decisione nei tardi anni Settanta, la Greer non è scomparsa completamente dalle scene e rimane una figura intellettuale vagamente pubblica. Ha insegnato presso diverse istituzioni, come l’università di Tulsa in Oklahoma, il Newnham College, Cambridge e l’università di Warwick. Continua a scrivere libri che spaziano per argomento dalla menopausa ai diritti civili degli aborigeni alla vita di Anne Hathaway, la moglie di Shakespeare. Il suo ultimo libro, White Beach, che tratta della salvaguardia della foresta pluviale, è del 2014. Con regolarità, la Greer firma articoli per riviste e periodici britannici come il Guardian e il Sunday Times. «Sulla rabbia», del 2008, è stato trasformato in un libricino. Ha scritto raccolte di poesie e si è allargata alla critica d’arte. Come una semi-celebrità, la Greer è apparsa in numerosi programmi televisivi oltre al Grande Fratello, tipo Extras (nel 2006) e The Female of the Species (sempre nel 2006), scelte che ricordano i tentativi attoriali sullo schermo che avevano preceduto i suoi libri.

Nessun testo o cambiamento di posizione culturale compiuto dalla Greer si è avvicinato a raggiungere l’influenza e l’attrattiva dell’Eunuco. È un compito arduo; fatta eccezione per l’enciclopedico scritto collettivo Our Bodies, Ourselves, pubblicato nel 1971, nessun altro libro di quella decade ha apportato una così accurata lettura della temperie culturale. Non è soltanto un lungo momento di crisi; gli studi della Greer, i suoi interessi giornalistici e critici si sono decisamente allontanati dallo spirito del tempo attuale, a cui una volta aveva contribuito a dare forma in maniera così perspicace. «La Greer che stavo leggendo era così diversa da quella che ricordavo e apprezzavo», ha scritto Margaret Talbot a proposito della Donna intera in un saggio apparso nel 2014 sul New Yorker. È un sentimento condiviso da quasi tutte le femministe di quella generazione.

La possibilità di riabilitare l’immagine pubblica della Greer non è, a questo punto, interessante e nemmeno praticabile. Rimane invece interessante la questione di quanto la sua irrilevanza riveli dello stato delle attuali politiche di genere, o del femminismo così come lo conosciamo. Come in qualunque movimento, chi è spinto fuori dalla porta è rilevante quanto chi è ammesso dentro. Se accettiamo che la Greer sia di intralcio, esattamente per cosa crediamo sia di intralcio?

È un tema a cui è difficile avvicinarsi, e ancora più dare una soluzione. Come le nostre popstar donne prontamente dimostrano, il femminismo contemporaneo è una faccenda disorganizzata, intricata e spesso sconcertante. Pensiamo a Katy Perry che, in occasione del recente discorso di ringraziamento per l’assegnazione del titolo di Donna dell’anno per Billboard, dichiara di non essere una femminista nonostante affermi di «credere nella forza delle donne»; o a Madonna che, come è noto, preferisce definirsi una «umanista», piuttosto che una femminista. O si pensi a Selena Gomez che ha accusato la collega Lorde di non essere «molto femminista» nel criticare i suoi testi come sessisti e retrogradi. «Non è femminismo. Lorde non sostiene le altre donne». La Gomez deve aver confuso il femminismo con un pigiama party. Ad ogni modo, sono tempi confusi per la liberazione delle donne.

Se lo consideriamo come un sintomo, lo stato marginale della Greer mostra alcune evidenti caratteristiche dell’attuale femminismo popolare: sostiene la salute riproduttiva delle donne come interesse centrale; è legato con il diritto all’autodeterminazione di genere; non privilegia il piacere sessuale tanto quanto il potere sessuale, credendo nella libertà della donna di esercitare il sesso e la sessualità come un mezzo di autorità e intervento. E, caratteristica meno ovvia: è riluttante ad accettare leadership coraggiose o fissarsi su posizioni potenzialmente divisive all’interno della cultura (il movimento ha di recente disapprovato le prese di posizione della Greer, sì, ma anche il suo stesso radicalismo divisivo). Al momento quanto di più simile a una leader popolare potrebbe essere Sheryl Sandberg, la direttrice operativa di Facebook, le cui continue campagne scoraggiano l’uso di etichettare le ragazze ambiziose come «dispotiche». È una causa virtuosa, anche se un po’ conservativa e molto elitaria. Il successo della strategia del «Facciamoci avanti» della Sandberg dimostra, semmai, che le femministe del momento desidererebbero co-occupare posizioni che L’eunuco femmina assumeva come fondamentalmente incompatibili – essere allo stesso tempo sia rispettose sia liberate. È possibile? La Greer presumibilmente direbbe di no, ed è difficile non essere d’accordo.

Germaine Greer non aveva ragione o torto, ma entrambe le cose, e di più: era una forza produttivamente distruttiva, votata all’abbattimento del dominio maschile. Ha rappresentato le profondi contraddizioni dei suoi tempi. A differenza di alcune femministe della seconda ondata più caute, prudenti e verosimilmente efficaci, non sosteneva una singola causa e le sue azioni e le sue opinioni spesso entravano in conflitto. È diventato di moda screditare la Greer come la zia pazza della liberazione delle donne, ma non se lo merita. I primi anni Settanta avevano bisogno di una radicale senza peli sulla lingua, impenitente, che non avesse paura di dare la scossa al movimento. (Erano i tempi in cui, ricordiamoci, le donne non potevano accendere un mutuo se un uomo non garantiva per loro.) La Talbot, sempre sul New Yorker, confessava di avere nostalgia della «sfacciataggine della Greer». Accoppiata alla sua intelligenza, era, forse, la fonte della sua potenza.

Se la Greer è indiscutibilmente in disaccordo con gli obiettivi e la retorica dell’intricato e spesso fumoso femminismo di oggi, la liberazione delle donne come la conosciamo non esisterebbe neanche se non ci fosse stata la sua audacia. Come ha scritto Helen Lewis in un omaggio, «una donna più delicata, più dolce e più accondiscendente non avrebbe potuto scrivere L’eunuco femmina. Le femministe di oggi non dovrebbero edulcorare la sua eredità trasformandola in qualcosa di più accettabile – in particolare quando il movimento pretende ancora così spesso che le pioniere siano anche delle sante». Dobbiamo opporci allo screditamento di Germaine Greer, che avrebbe fallito se non fosse stata sprezzante, imperfetta, intrattabile e, per usare le parole della Lewis, «poco sorella». Selena Gomez, prendi nota. La Greer è stata il catalizzatore. Ricordiamocelo quando, giustamente, le diciamo di togliersi dai piedi.

© Carmen Winant, 2015. Tutti i diritti riservati.

[1] È una contestata sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America del 1973 che rappresenta uno dei principali precedenti riguardo alla legislazione sull’aborto. [n.d.t.]

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