Juan Carlos Onetti

L’impossibile Onetti

Jorge Edwards Juan Carlos Onetti, SUR

Pubblichiamo oggi un saggio di Jorge Edwards, scrittore cileno, su Juan Carlos Onetti e la sua opera.

di Jorge Edwards
traduzione di Raul Schenardi

Il tempo ha trasformato l’importante scrittore uruguayano in un classico. La creazione di uno spazio immaginario, di una città di provincia inconfondibile eppure inesistente, come Santa María, lo lega a William Faulkner, un romanziere che lui ammirava.

In Cile l’eco del mito di Juan Carlos Onetti cominciò ad arrivare nei primi anni Cinquanta. Onetti era l’irsuto, il marginale, il duro e tenero di una letteratura latinoamericana di cui ancora non si parlava. Era in un certo senso la possibilità, non ancora in atto, di una letteratura dell’intero continente, o una delle possibilità più importanti: un precursore oscuro, che pochissimi erano in grado d’indovinare. Quando Ricardo Latchman fu ambasciatore del Cile a Montevideo, alla fine degli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, si impegnò a mandarci, con entusiasmo e passione straordinari, notizie di Onetti e degli altri scrittori uruguayani: Mario Benedetti, Idea Vilariño, Carlos Martínez Moreno, Emir Rodríguez Monegal, Angel Rama e qualche altro. Fin dall’inizio Onetti era il mito, gli altri scrittori e critici, per così dire, «normali». Poi, vicino a Onetti, c’era un altro fenomeno letterario non meno stravagante e quasi ancor più segreto: quello di Felisberto Hernández. Onetti rappresentava la gravità, il pathos, le forze oscure; Felisberto Hernández la lievità, la grazia, la fantasia aerea.

Le notizie letterarie che ricevevamo allora dal resto del mondo latinoamericano erano sempre isolate, parziali. Seppi dei romanzi di Alejo Carpentier grazie a una traduzione francese e ne parlai al Café Miraflores o in qualche posto del genere. Acario Cotapos, che aveva conosciuto Carpentier nei suoi anni di bohème a Parigi, fra le due guerre mondiali, mi contestò con un’energia degna di miglior causa. Sostenne che ero completamente fuori strada, Carpentier non era un romanziere, era un musicologo! In quegli stessi anni qualcuno – un familiare – mi disse che Alvaro Yáñez, o Pilo Yáñez, che già si firmava Juan Emar, ogni tanto “si sentiva orso” e si metteva a letto per settimane e addirittura per mesi. Juan Carlos Onetti, l’irsuto, potrebbe aver detto la stessa cosa. Secondo svariate testimonianze, visse buona parte della sua vita a letto. Mi hanno raccontato che in una lunga intervista rispose alle domande stando a letto, quasi stravaccato sui cuscini, con in mano un bicchiere di whisky.

Nel 1969, durante un congresso di scrittori a Viña del Mar, qualcuno, alle due del pomeriggio, mi disse di avvisarlo che stava per partire l’autobus che avrebbe condotto gli invitati a un pranzo a Isla Negra, a casa di Neruda. A quell’ora che per gli altri era tarda, Onetti era ancora nella sua stanza, molto tranquillo, in vestaglia, davanti al vassoio della colazione. Non fece neanche la mossa di vestirsi per unirsi al gruppo di quello storico pranzo. A me fu chiaro che non valeva la pena di insistere. Secondo i miei ricordi di quell’incontro, Onetti aveva un modo curioso di lasciar cadere le sue opinioni. Si fermava mentre ci dirigevamo verso gli ascensori, o verso la sua stanza, e parlava di fianco, come se parlare fosse una pausa, una sorta di tregua. Inoltre, forse senza rendersene conto, per un’abitudine inveterata, ma anche en passant, di striscio, citava la Bibbia.

Vicinanze e ricordi
Nel leggerlo e rileggerlo oggi, dopo tanti lunghi anni, le presenze di Louis Ferdinand Céline e William Faulkner mi appaiono evidenti, ovvie e potenti, forse insieme a un tocco di Franz Kafka e un altro di Albert Camus o di Jean-Paul Sartre, ma nella sua opera narrativa è sorprendente la forza degli elementi popolari della sua epoca: il cinema degli anni Trenta e Quaranta, soprattutto nel versante poliziesco e noir, la canzone francese, con Charles Trenet, Maurice Chevalier e Edith Piaf, il tango di Gardel, naturalmente, e gli ambienti dei bassifondi e del mondo ippico, con tutte le loro leggende, le conoscenze approfondite, la memoria e il dramma.

Ora, in maniera retrospettiva, considero che Juan Carlos Onetti, nato a Montevideo nel 1909, vale a dire un uomo un po’ più giovane di Borges e un po’ più vecchio di Nicanor Parra o degli scrittori della corrente surrealista cilena, si trovò di fronte un panorama contraddittorio nella narrativa del continente. Non era un orizzonte troppo diverso da quello della mia generazione, ma lui dovette affrontarlo prima e con meno punti di riferimento. C’era una prosa narrativa ufficiale, consacrata: quella del criollismo o regionalismo, che nella regione del Río de la Plata aveva dato risultati notevoli come i racconti di Horacio Quiroga o il Don Segundo Sombra di Ricardo Güiraldes. Eppure, alcuni racconti di Quiroga, testi come «La gallina degollada», per esempio, prendevano già altre direzioni. E d’altra parte c’era la prosa avanguardista di Vicente Huidobro o di Macedonio Fernández, quella di Martín Adán in Perù o quella di brasiliani come Mario de Andrade. Fin dai suoi primi lavori Onetti evitò entrambe le alternative, il criollismo e l’avanguardia pura, e scelse di affrontare di petto le tematiche di Montevideo e Buenos Aires.

Scartò la letteratura del primo giorno della creazione, tema che si era imposto come obbligatorio dagli anni del nostro pseudoromanticismo, e fu forse il primo a scoprire la possibile bellezza della degradazione, dell’oscurità, del decadimento della città e dei suoi abitanti. In altre parole, la novità della prosa di Onetti consistette in un paradosso: la sua visione di ciò che era vecchio, eroso dal trascorrere del tempo, tema urbano che si insinuava in alcuni poemi della raccolta nerudiana Residenza nella terra (in «Walking around», per esempio).

Oggi possiamo sorridere nel vedere l’appassionata difesa delle proprie tematiche che Onetti dovette sostenere nei primi anni. Fu un saggista interessante, vibrante, che spiegava le proprie scelte estetiche nelle pagine della rivista di Montevideo Marcha, uno dei più importanti organi della nuova letteratura in America Latina. In Cile non abbiamo avuto riviste che fossero vere fucine di polemiche e punti d’appoggio di un determinato modo di scrivere, come fu Marcha a Montevideo e l’assai diversa Sur di Buenos Aires.

Un luogo mitico
Il passaggio a una scrittura narrativa contemporanea che si occupava dei nostri mondi, soprattutto da una prospettiva urbana, fu presto seguito da Onetti dalla creazione di uno spazio letterario personale. Non c’è dubbio che la letttura di Faulkner lo abbia aiutato a scoprire questa possibilità.

Yoknapatawpha, la contea immaginaria dell’opera di Faulkner, coesiste con luoghi reali. È una regione fittizia intercalata nella mappa del Sud degli Stati Uniti. Memphis si trova a nord della contea, all’inizio del delta del Mississippi, lo scenario di tutta l’opera di Faulkner, e New Orleans a sud. La Santa María di Onetti, che compare già chiaramente in un romanzo del 1950, La vita breve, compie la stessa funzione della contea immaginaria dell’autore di Luce d’agosto. È una città di provincia, uno spazio chiuso, occupato da una serie di personaggi romanzeschi, ed è anche un universo romanzesco situato nelle vicinanze di luoghi reali come Buenos Aires e Montevideo. Onetti poté crescere come scrittore, con la necessaria libertà creativa, con l’indispensabile elemento ludico, a partire dall’invenzione di Santa María, quella città di provincia con una piazza, un fiume e il suo porto fluviale, con un quartiere svizzero. È la metafora di qualsiasi città dell’America del Sud, con il suo carattere provinciale, con la sua vicinanza a qualche porto, con i suoi quartieri di immigrati. Trovo il germe di questa creazione spaziale, perlomeno nella mia rilettura odierna, nel racconto «Ritorno al Sud» [tratto dalla raccolta Triste come lei, ndr]. Il testo si pare con la menzione di una «zona straniera che iniziava in calle Rivadavia, e a partire dal carnevale del 1938». Poi scopriremo che la moglie del personaggio principale, zio Horacio, lo abbandonò verso quella data e andò a vivere in quella zona della città. La sofferenza provocata dalla gelosia, con tutta la sua ambivalenza, è uno dei motori dell’opera di Onetti. Quando zio Horacio, nel racconto, si decide a trasferirsi dal luogo in cui ha sempre vissuto in quella zona di Buenos Aires dove si è insediata Perlas, fra toreri e suonatori di chitarra, in un ambiente dove si rievoca spesso la guerra civile spagnola, i parenti pensano che si sia ripreso. La malattia del personaggio, a quanto pare, non era mortale. Il testo però, con una crudeltà che possiamo già definire precisamente «onettiana», dimostra l’esatto contrario. Percorrere quelle vie tabù, per zio Horacio, è stato come attraversare il fiume dei morti. Arriva a un caffè tipico di calle Rivadavia, cerca un tavolino e poco dopo crolla sulla sedia, come se il trasferimento fosse un destino cercato e definitivo.

C’è un racconto di Borges in cui il narratore dice che il sud, uno dei grandi spazi immaginari, mitici, della narrativa borgesiana, comincia non appena si attraversa una via del quartiere Palermo di Buenos Aires. Se non sbaglio, si tratta appunto di «Il sud», un racconto nel quale il protagonista, alla fine del suo viaggio, incontra la morte. Lo schema di «Ritorno al Sud», il racconto di Juan Carlos Onetti, è curiosamente simile, malgrado la grande diversità di atmosfera, tono e profilo dei personaggi. La scoperta degli spazi fittizi, in Onetti e, per quello che abbiamo visto, nel caso di Borges, equivarrebbe a un incontro con il destino. Sembra una coincidenza del tutto casuale, ma un’analisi dettagliata potrebbe evidenziare tratti costanti in tutta la narrativa del Río de la Plata. Si può sempre trovare un momento di separazione, un viaggio improvviso e in apparenza gratuito, un incontro con il destino, con la fine di tutto. Il meccanismo narrativo è già visibile nel Martín Fierro. È evidente in molti racconti di Horacio Quiroga. Per esempio, in «La picada». Potremmo rintracciarlo anche nel finale di alcune storie di Rayuela [Il gioco del mondo] di Julio Cortázar. Il «Ritorno al Sud» di Onetti, dove si descrive un gesto di apparente salute, è un ingresso nel quartiere dei morti.

Nel romanzo iniziale del ciclo di Santa María, La vita breve, i personaggi che vivono in quella città fittizia, il medico Díaz Grey, Elena Sala, suo marito, con le sue storie, i suoi incontri e gli abbandoni, i suoi spostamenti continui e a volte minori, fanno le veci della finzione all’interno della finzione. Sono finzioni al quadrato. Per questo motivo non è strano che Brausen, il personaggio principale, con alcuni tratti autobiografici, stia scrivendo un copione cinematografico con cui spera di uscire dalla povertà e per il quale utilizzerà le vite e le peripezie di quel trio nello scenario di Santa María. Tutto finisce per fallire, nei racconti e nei romanzi di Juan Carlos Onetti, ma negli episodi di Santa María spira un’aria più fresca, più libera, più ludica, anche quando i giochi della sua opera sono comunque distruttivi e mortali.

La rilettura
Leggere o rileggere Onetti di questi tempi è un esercizio interessante, più istruttivo di quello che si potrebbe supporre a prima vista. La sua opera però è vicina a noi, ma è già, nell’accezione più ampia e letterale del termine, classica. Nessuno oggi scriverebbe come Onetti, tranne che come gesto deliberato di distacco da una presunta normalità editoriale. Gli editori, del resto, sarebbero i primi a opporsi e persino a scandalizzarsi. Onetti scrive con una lentezza, con una penetrazione in situazioni apparentemente secondarie, con una mancanza di concessioni, con un compiacimento nei dettagli che oggi nessuno pratica né si attenta a praticare. È anacronistico e al tempo stesso, e per ciò stesso, esemplare. Non si può scrivere come Juan Carlos Onetti, ma insieme, se si ha un’autentica ambizione letteraria, non si può scrivere diversamente, con un altro atteggiamento di fronte alla scrittura. Nella prospettiva odierna, Onetti, l’impossibile, l’irsuto, è una delle incarnazioni valide della letteratura fra noi, nella nostra regione e nella nostra epoca. È difficilissimo seguirlo, ma essere contro di lui è impossibile, per quanto ciò possa dispiacere ai rappresentanti del mercato librario. Onetti ci conduce in territori sudici, moralmente infetti, inquietanti, ma ineludibili. Due suoi racconti, «L’inferno tanto temuto» e «Il volto della disgrazia», sono capolavori [entrambi i racconti sono tratti da Triste come lei, ndr]. Hanno qualcosa di antico, che è stato scartato dalla nostra postmodernità o dalla nostra pseudomodernità, ma potrebbero servire come punto di partenza, per esempio, per il cinema più d’avanguardia dei nostri giorni. Le foto oscene di «L’inferno tanto temuto», per esempio, potrebbero introdurre scene occorse durante la seduta fotografica. Si tratterebbe di sequenze terribili e temibili. Mentre le pagine dedicate alla ragazza di «Il volto della disgrazia», che alla fine del racconto sappiamo essere sorda, sono tra quelle più plastiche, più visuali e intense della nostra letteratura. Il problema è che pochi guardano, pochi leggono con attenzione, pochi pensano con idee personali, senza schemi e slogan altrui.

Una volta Vicente Huidobro ha parlato degli «schiavi dello slogan». Anche Juan Carlos Onetti avrebbe potuto usare questa espressione. Di fatto lo fece, ma in un altro modo: attraverso un ritmo, una successione di metafore e una scrittura inconfondibile. Passava dalle nature morte ben disegnate alle miniature impeccabili, dai dialoghi di giornalisti mortalmente affezionati al gin e alle corse di cavalli a momenti cupi, abissali, di grande drammaticità, da narrazione noir. Le oscurità di Céline, la sordidezza degli angoli sperduti della grande città, non andavano lontano. Onetti, l’irsuto, l’impossibile, il villano, è uno dei nostri classici più inquietanti e più suggestivi.

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