Pubblichiamo un’intervista a Jonathan Lethem, apparsa originariamente su Signature; ringraziamo l’autrice e la testata.
di Jennie Yabroff
traduzione di Francesco Graziosi
Per anni, chi voleva descrivere un certo tipo di scrittore – coltissimo, à la page, ossessionato dalla cultura – poteva far riferimento ai Jonathan di Brooklyn, ovvero Jonathan Safran Foer, Jonathan Ames e, soprattutto, Jonathan Lethem.
Cinque anni fa, però, Lethem ha lasciato il quartiere al quale è così intimamente legato per trasferirsi a Claremont, in California, che definisce «così a est in direzione del deserto da essere praticamente il Midwest di Los Angeles». Se la notizia vi sorprende, non siete i soli: «Prima m’infastidiva la quantità di gente che si aspetta di vedermi su un marciapiede di Brooklyn; adesso invece la cosa mi diverte», afferma.
Anche se è diventato famoso grazie al romanzo poliziesco Brooklyn senza madre, e ha ambientato i successivi La fortezza della solitudine, Chronic City e I giardini dei dissidenti a Brooklyn, a Manhattan e nel Queens, lo scrittore sostiene che il cambio di residenza non influisce più di tanto sulla sua opera: «Non sono mica una squadra di baseball».
Lui stesso, però, ammette che probabilmente non sarebbe stato capace di scrivere il racconto «Pending Vegan» senza una conoscenza diretta del Sea World, il parco marino di San Diego che il protagonista paragona a un apparato digerente. Il racconto conclude la raccolta Lucky Alan, una serie di nove storie che variano dal realismo tradizionale allo sperimentalismo sfrenato.
Lethem ci ha parlato delle differenze fra la East Coast e la West Coast, fra racconti e romanzi, e di quel che ha in serbo per il futuro.
Allora, come ti trovi nel sud della California?
Non è la prima volta che abito in California. Ho vissuto a Berkeley per una decina d’anni, dopo aver lasciato il Bennington College. Il fatto è che la California è un posto a cui pensavo e di cui volevo scrivere fin da prima di venirci. Essendo cresciuto sulla East Coast, ero ossessionato da Raymond Chandler, Ross McDonald, Philip K. Dick e Hollywood. All’inizio, quando ho lasciato il college e sono andato a Berkeley, c’entrava molto il fatto di aver letto Kerouac, la libertà di inventarsi un’identità di scrittore, di riconfigurarsi staccandosi dalle gerarchie di valori della East Coast. Trovo che un racconto come «Pending Vegan» si collochi nel solco di una scrittura che descrive la California come un’utopia fallita. Il mio primo romanzo (Concerto per archi e canguro) era ambientato a Oakland; a rileggerlo adesso, vedo me che penso alla California prima ancora di averla conosciuta di persona. «Pending Vegan» fa parte della stessa esplorazione.
Quanto ci hai messo a scrivere i racconti, e come hai deciso in che ordine disporli?
Una cosa che mi piace delle raccolte è che diventano una sorta di album fotografico di un decennio di vita e pensieri. «Lucky Alan» (il primo, che dà il titolo alla raccolta) è stata l’ultima cosa che ho scritto prima di Chronic City, una specie di rodaggio in vista del romanzo. Stavo cercando di capire come scrivere di Manhattan, e di un’amicizia maschile fra un personaggio pazzo e uno sano di mente, dal punto di vista di quest’ultimo. Perciò è il pezzo più antico della raccolta, e inaugura una certa fase della mia scrittura. Un paio li ho scritti ancora sotto l’influsso di Chronic City: «The King of Sentences» e «The Porn Critic» sono entrambi ambientati a New York, e ossessionati dal campo di distorsione che la fama crea, dall’idea di cosa significa essere fan. L’ultimo racconto, «Pending Vegan», l’ho finito appena in tempo per inserirlo nel libro.
Li ho considerati nell’ordine in cui li avevo scritti, e ho visto che c’era una logica, al punto che mi sono detto: ecco, va bene così. Avevo anche un titolo provvisorio, che il mio editore ha cassato, come succede spesso. Volevo intitolarli A Different Kind of Tension, che è anche il titolo di un disco dei Buzzcocks. Mi piaceva perché i racconti davano proprio l’idea di un gruppo. Però c’è anche la sensazione fortissima che in ciascuno di loro la realtà sia configurata in maniera del tutto diversa. Alcuni, come «Our Back Pages», sono postmoderni e gommosi, come dei cartoni animati, invece «Traveller Gone» è quasi esercizio linguistico, tipo un poema in prosa, e forse il mio preferito della raccolta è «Procedure in Plain Air», che ha un andamento alla Kafka. Tenendoli in ordine cronologico mi è sembrato che si creasse un’alternanza fra quelli più irreali e quelli meno irreali.
Quindi questi racconti li hai scritti mentre lavoravi ai romanzi?
Sì, a volte mi fermo per prendermi una pausa da un romanzo, altre volte nascono nell’intervallo fra due libri. I racconti più corposi tendo a scriverli tra un romanzo e l’altro. Adesso, per esempio, ho appena finito un romanzo che uscirà in autunno. L’ho consegnato e sto già pensando a tutta una serie di cose che vorrei fare, ma intanto magari scriverò un racconto.
Certi spunti iniziali sui personaggi si portano dietro un’idea di massima delle proporzioni che avrà la storia. Mi sarebbe molto difficile scambiare un racconto breve per l’inizio di un romanzo.
Quando comincio un romanzo è proprio perché sto pensando a quel materiale da quattro o cinque anni. Per me i romanzi prendono vita quando vari elementi, diversi e in apparenza incompatibili, stabiliscono un curioso sistema di rapporti reciproci. A un certo punto volevo scrivere di un personaggio con la sindrome di Tourette, e la storia era ferma lì. Poi ho ripensato ai polizieschi hard-boiled, e la storia era sempre ferma lì. Poi mi sono ritrasferito a Brooklyn, e a quel punto mi è uscito un detective con la sindrome di Tourette cresciuto nel mio quartiere, e la storia è diventata Brooklyn senza madre.
I racconti sono molto più ridotti e coerenti. C’è un gesto, una metafora, una struttura compositiva. I due librai che invadono lo spazio del loro eroe, in «The King of Sentences». È un solo pensiero. È tutto molto ridotto.
Qual è stato il racconto più difficile da scrivere?
Le prime stesure dei racconti mi vengono abbastanza facilmente. L’unica eccezione è stato l’ultimo («Pending Vegan»); lì ho dovuto scriverne una parte e poi fermarmi a rifletterci su, quasi come fosse un romanzo. Ne ho buttato giù un pezzo e poi mi sono bloccato. Non sapevo cosa dovesse diventare, in che misura doveva limitarsi alla gita al Sea World. Ho pensato che magari poteva uscirne una novella di sessanta pagine. Ho dovuto aspettare e stargli dietro per un po’, finché ho capito che era più che altro un’incursione veloce in compagnia della famiglia, nell’arco di quattro ore, dentro al Sea World. Al New Yorker, quando hanno letto «The Porn Critic», hanno voluto fare un sacco di modifiche. In quel racconto c’erano parecchi arzigogoli metaforici, per cui la sensibilità del protagonista lo portava a riflettere su di sé in modo elaborato, mettendo fra sé e il lettore una quantità eccessiva di lingua letteraria, e loro mi hanno aiutato a concentrarmi sulla potenza dell’aneddoto specifico che stavo narrando. Su «The Empty Room», per la Paris Review, Lorin Stein è intervenuto in maniera fortissima, mi ha sconcertato. Ci è andato pesante come un Gordon Lish, ha cassato quasi un terzo del racconto. Ho dovuto rileggerlo un po’ di volte e digerire la cosa, prima di cliccare su «accetta tutte le modifiche» e rimandarglielo. Gli altri sei sono usciti praticamente come li avevo scritti.
Questo rapporto di fiducia con i tuoi editor è la regola?
In questo senso ho una fortuna considerevole. Il mio editor Bill Thomas mi appoggia in tutto quello che voglio fare, il che è una benedizione perché io faccio cose molto diverse fra loro. Un editor che va benissimo per un mio libro potrebbe non gradirne o capirne un altro; lui invece mi comprende in tutte le mie eccentricità e incongruenze. Si accorge anche quando vado fuori strada. È bravissimo a rimettermi in carreggiata. Questo mi ha portato a pensare che probabilmente è un’ottima cosa, il fatto di avere qualcuno con delle opinioni forti a sostegno di quel che fai. Al New Yorker sono straordinari. Ti editano dodici volte, è una cosa ipnotica e spassosa. Mi hanno trattato con i guanti, ma anche con fermezza. Lorin è un amico, uno con cui c’è un lungo rapporto, perciò quando mi ha detto: «Qui abbiamo fra le mani un bel racconto, se mi lasci usare il machete», io ho risposto: «Va bene, proviamoci».
© Jennie Yabroff, 2016. Tutti i diritti riservati.
Condividi