Harry Parker (1983), figlio di un generale inglese che è stato vicecomandante delle forze Nato in Afghanistan, si è arruolato a sua volta nell’esercito britannico a 23 anni e ha prestato servizio col grado di capitano nel 2007 in Iraq e nel 2009 in Afghanistan, dove in seguito all’esplosione di un ordigno ha perso entrambe le gambe.
Nel 2016 è uscito in Gran Bretagna il suo primo romanzo, Anatomy of a Soldier, che è stato accolto come uno dei casi letterari dell’anno: ha esordito al n. 5 nella classifica dei best seller del Times, David Collard, critico del Times Literary Supplement, l’ha definito «uno dei migliori romanzi d’esordio che vi capiterà mai di leggere», e l’Observer ha segnalato Parker come uno degli «8 volti nuovi della narrativa inglese». Con il titolo Anatomia di un soldato, il romanzo uscirà a novembre nella collana Big Sur.
Nel pezzo che segue, comparso originariamente sul blog dell’editore Faber & Faber, Harry Parker riflette sull’esito del recente referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’articolo viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e dell’editore.
di Harry Parker
traduzione di Martina Testa
Non mi capita spesso di piangere. La mia tipica impassibilità british non me lo permette. L’ultima volta che ho pianto per aver perso qualcosa è stato sette anni fa. Ero nell’esercito e c’erano di mezzo troppa morte e troppe ferite. Ho pianto in privato.
Sabato scorso, con mio grande shock, mi sono ritrovato a piangere di nuovo per una sensazione simile. Ero su un treno e guardavo il mondo che mi scorreva tambureggiando accanto. I campi e le siepi. I caravan mezzo arrugginiti e le strade coi muri di mattoni rossi. Le macchine in attesa agli incroci. Per quanto mi sforzassi di mettere a fuoco, davanti a tutto ciò c’era un velo di foschia e non riuscivo a vedere il mio paese. Stavo piangendo, ero uno straniero nel posto che chiamo casa.
Non mi ero mai reso conto che i miei sentimenti per il Regno Unito avessero tutto questo peso.
Una nuova visione del Regno Unito
Ho sempre nutrito un dubbio assillante sul mio rapporto con questo paese. Era qualcosa di verde e bello, era chiedere scusa quando qualcuno mi urtava, sorridere agli sconosciuti, fare la fila senza perdere la pazienza, evitare di guardare negli occhi la gente in metropolitana. Era fare il tifo per Mo Farah mentre correva sulla pista dell’Olympic Stadium.
Era un sentimento del tutto ingenuo, certo. Nel profondo del cuore lo sapevo. Era cieco all’ineguaglianza e a certe ridicole strutture di classe, all’egoismo radicato in tutti noi, alla complicata realtà di chi fatica a integrarsi in un sistema capitalistico. Ma seduto su quel treno, due giorni dopo che avevamo preso la decisione di uscire dall’Unione Europea, non riuscivo più a provare nessun tipo di legame con il posto in cui vivo: da due giorni tentavo di vedere il mio paese e non ci riuscivo. Ero stordito. Una perdita mi aveva condotto nuovamente alle lacrime.
La mia tristezza aveva poco a che fare con il potenziale danno economico che avremmo subito, o con la scissione da un’organizzazione macchinosa che a conti fatti ha rappresentato più che altro una forza positiva. La tristezza nasceva dalla sensazione di aver sbagliato a giudicare la nostra anima.
Ero orgoglioso di provenire da un paese che era libero e giusto. Una società aperta, accogliente e progressista. Molti degli elettori che hanno votato Leave diranno che possiamo ancora essere tutte queste cose – sì, forse – ma è sembrato che il voto ruotasse fondamentalmente attorno a una questione di controllo dei confini, di limitazione dell’accesso, di «noi» contro «loro», e a un senso di nazionalismo. Per come la vedo io, abbiamo fatto un passo indietro: correnti di opinione analoghe a queste hanno portato ad alcuni degli episodi più funesti della storia umana.
L’isolamento non è la risposta
C’è chi dice che possiamo riprenderci il paese, i posti di lavoro perduti. Che saremo più sicuri e più forti, che abbiamo scelto solo una maggiore capacità di autogovernarci e di decidere a chi permettere l’ingresso. Ma prendere le distanze da un mondo che sta diventando sempre più interconnesso non è la risposta. L’isolamento può renderci più sicuri sul breve periodo, ma è un’illusione. Correre il rischio di essere aperti e inclusivi, abbracciare la globalizzazione e la diversità: è questo che ci rende più sicuri e prosperi.
La sicurezza non la creano la polizia, i soldati e i controlli alle frontiere. La creano la coesione, l’istruzione e l’uguaglianza: la nostra società ormai è globale, e allontanarci da questa idea può solo nuocere a tutto ciò che garantisce la sicurezza a lungo termine.
Nonostante questo, non ce l’ho con gli elettori che hanno votato Leave. Durante i miei anni nell’esercito ho prestato servizio in paesi in cui la democrazia è solo un sogno. Ho visto gente disposta a morire per conquistarla. Capisco che ci sono troppe persone che si sentono emarginate e desiderano un cambiamento, che dopo la crisi finanziaria il divario fra ricchi e poveri si è allargato. So che c’è gente che si sente tradita. Essendo un trentenne londinese, appartengo per forza di cose a una fascia demografica più propensa a votare Remain, ma anche se sono profondamente deluso dal risultato, so che ripetere la votazione significherebbe minare le basi della nostra stessa democrazia.
Ce l’ho però con i politici che hanno usato il referendum per i loro scopi immediati e non hanno saputo coinvolgerci in nessun tipo di ragionamento argomentato. Ammassare insieme una serie di problemi – tutti mostruosamente complessi, e che diventano ancor più complessi nel loro intrecciarsi – e ridurli a una sola decisione binaria: è stato questo il disastro. Si sottolinea spesso il deficit di democrazia che esiste nelle istituzioni europee – e io per primo riconosco che sono tutt’altro che perfette – ma esiste un deficit molto più vicino a noi, una mancanza di leadership e un rapporto fra i media e l’elettorato che ormai è perverso e guasto.
Un gesto masochista
È passata una settimana e sto ricominciando a vedere il mio paese. Faccio la fila, chiedo scusa e ignoro la gente sulla metro. Ma non riesco a smettere di pensare che il Regno Unito abbia commesso un gesto di masochismo equivalente al darsi una coltellata in un occhio. E non lo dico per via del crollo dei mercati e della paura che diventiamo tutti più poveri. Questo non mi sembra così importante, e chissà, magari separato dall’Unione Europea il Regno Unito prospererà, magari governarci da soli sarà meglio.
Quello che mi mette tristezza è il danno fatto all’anima del paese, al suo nucleo morale. Ci siamo cavati un occhio da soli. Adesso sembriamo più brutti al resto del mondo, ci vediamo peggio, e la nostra vista è diventata un po’ più unidimensionale.
© Harry Parker, 2016. Tutti i diritti riservati.
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