Proseguiamo il discorso sull’identità latinoamericana aperto con i testi di Juan Villoro (Iguane e dinosauri e Itinerari extraterrestri ) pubblicando un intervento di Fabrizio Lorusso già comparso l’anno scorso su Carmilla. Ringraziamo l’autore e la testata.
di Fabrizio Lorusso
L’America Latina rappresenta un’area geografica e culturale storicamente determinata ma dai contorni sfumati e cambianti. Quando ci riferiamo a questa zona del mondo come a un concetto che conforma identità comuni e si contrappone all’altra America, quella anglosassone fondata sull’ideologia della missione, della frontiera e dei WASP (White Anglo-Saxons Protestant), stiamo parlando di una tipica identità sopra-nazionale che, come tutte le nazioni, è un’invenzione ossia, parafrasando Benedict Anderson, una “comunità politica immaginata” grazie alla quale ogni membro di una comunità geografica e culturale crede di appartenere a un gruppo sociale, storico e spesso anche etnico ben definito e “nazionale”. La sua identità reale qui non importa. È fondamentale il processo di creazione di quelle idiosincrasie, tradizioni ed eredità che lo legano al gruppo di riferimento e che lo sottomettono all’ideologia dell’appartenenza. Basti pensare all’Unione Europea e al lavoro di convincimento e propaganda teso a suscitare e risvegliare un’identità comune alle nuove generazioni di tutto il continente. Tornando alla nostra America, alcune definizioni hanno cercato d’inglobare il concetto che oggi abbiamo di questa regione del mondo ma erano semanticamente più limitate e ideologicamente orientate. Mi spiego.
Parlare di “Ispanoamerica” significava di fatto escludere il Brasile, la Guyana Francese, il Suriname (ex territorio olandese), la Guyana (ex colonia inglese) e molte isole dei Caraibi in cui non si parlava e non si parla spagnolo né v’era stata la presenza di quella potenza coloniale europea. In spagnolo esiste addirittura la parola “Lusoamerica” che descrive le ex colonie portoghesi in America, cioè il Brasile, paese che è 90 volte più esteso della sua ex madre patria e in cui tale definizione non ha avuto grande successo.
Il termine “Iberoamerica” era più ampio dato che il riferimento era agli ex possedimenti dei regni della penisola iberica e quindi includeva anche il Brasile, parte dell’impero portoghese fino al 1822, ma restava comunque una connotazione coloniale poco apprezzata da questo lato dell’Atlantico.
Quindi “America Latina” sembra essere il nome più adatto e con un compromesso semantico si ricomprendono nel pentolone le ex colonie spagnole, francesi (come Haiti), portoghesi e gli attuali territori francesi d’oltremare come le isole caraibiche di Guadalupe e Martinica e la Guyana francese. A questo punto resterebbero fuori “solamente” le isole non latine dei Caraibi come per esempio la Giamaica e le Virgin Islands, il Suriname, la Guyana, le Islas Malvinas o Falkland (isole del Regno Unito rivendicate dall’Argentina). Nessuno è perfetto.
Siccome il dottorato che sto (forse?) concludendo a Città del Messico si chiama “Studi Latino Americani” e dire semplicemente “Americanistica” appare riduttivo, mi sono dovuto interrogare sull’origine di suddetta terminologia ripetutamente. L’espressione “latino americanismo” fu utilizzata per la prima volta alla metà del secolo XIX, precisamente nel 1836, dall’intellettuale e viaggiatore francese Michel Chevalier che raccolse in un libro le sue cronache giornalistiche e tracciò la separazione tra un’America “protestante e anglosassone” ed una “cattolica e latina”. (Fiorivano gli argomenti a favore di un impero “latino” nelle Americhe per aumentare la presenza della Francia nel mondo e contenere “l’impero anglosassone protestante”.) Secondo il nostro, quest’ultima si sarebbe potuta tranquillamente accomodare nella sfera d’influenza della Francia, unica potenza internazionale anche lei cattolica e latina di quell’epoca.
In realtà alcune ricerche recenti circa l’origine del nome e del concetto di America Latina dimostrano che la sua “invenzione” viene dagli stessi latino americani e si può attribuire al frate dominicano Francisco Muñoz del Monte, ai cileni Santiago Arcos e Francisco Bilbao e al colombiano María Torres Caicedo, i quali usarono il termine a partire dal 1850 con un contenuto ideologico differente: l’America Latina non era più vista come un nome imposto da interessi esterni delle potenze coloniali bensì come un nome coniato dagli stessi abitanti della regione che sottintendeva un processo d’emancipazione ideologica e politica.
Malgrado le sue origini antiche, fu solo dalla prima metà del secolo XX che l’ideale latino americanista cominciò ad avere un’importanza come flusso reale e ideologico di risposta rispetto al panamericanismo, utopia d’unificazione continentale dall’Alaska alla Pampa promossa spesso a colpi di cannone dagli Stati Uniti, la potenza egemone dell’emisfero occidentale e di lì a poco del mondo intero.
L’affermazione della latinità e della differenza rispetto all’altra America anglosassone, insieme all’idea di una cultura comune condivisa dai popoli situati a sud del Rio Bravo, dal Messico all’Argentina includendo anche il Brasile e le isole dei Caraibi, sono stati gli assi del dibattito storiografico e filosofico sull’identità latino americana il cui mito fondante fu il sogno coltivato da Simón Bolívar di creare un’unica nazione dagli Stati sorti dopo le guerre d’indipendenza contro la Spagna all’inizio dell’Ottocento (Nota. In molti paesi delll’America Latina il 2010 è statodedicato alle celebrazioni del bicentenario delle lotte per l’indipendenza i cui inizi, salvo il caso precoce di Haiti, risalgono proprio al 1810).
Spesso i nazionalismi dei moderni paesi della regione e i progetti di unione a livello politico e commerciale prendono spunto da questo sogno, basti pensare al nome ufficiale adottato nel 1999 dal Venezuela, che con l’approvazione di una nuova costituzione politica è diventata la Repubblica Bolivariana de Venezuela per volontà dei costituenti e del presidente Hugo Chavez, il quale difende un’ideologia integrazionista incarnata dall’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe) contrapposta alla proposta egemonica statunitense di tipo “panamericano” rappresentata negli ultimi anni dall’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe, progetto d’integrazione commerciale ormai fallito e portato avanti da accordi bilaterali tra gli USA e ciascun paese dell’America Latina volta per volta). Allo stesso modo l’atteggiamento anti-statunitense manifesto in certe componenti del latino americanismo emerge dal pensiero del patriota cubano José Martí (1853-1895. Giornalista e combattente, deceduto nel tentativo di liberare Cuba dagli spagnoli e dall’ingerenza americana che si sarebbe fatta sentire nel 1898 con la Guerra Ispano-Americana) che è diventato uno dei precursori e paladini più conosciuti dell’idea di un’America Latina diametralmente opposta a quella del nord in cui lo stesso Martì aveva vissuto. Anche il colombiano José María Torres Caicedo (1830-1889) viene ricordato come uno dei padri dell’americanismo latino militante in quanto aveva proposto una “Liga Latino-Americana” già nel 1861: nella sua visione “non vi fu mai in America dall’indipendenza in poi, una questione che richiedesse più coscienza, più controllo, più analisi chiara e minuziosa del fatto che siano stati proprio gli Stati Uniti potenti, stipati di prodotti invendibili e determinati ad ampliare i loro domini in America, a rivolgere un invito alle nazioni americane meno potenti, legate ai popoli europei da un commercio libero e proficuo, affinché queste si associno con loro in una lega contro l’Europa e chiudano le porte ai trattati con il resto del mondo. Dalla tirannia della Spagna seppe salvarsi l’America ispanica e ora, dopo aver visto con occhi giudiziosi i precedenti, le cause e i fattori dell’invito, è d’uopo dire, perché è la verità, che è arrivata per l’America ispanica l’ora di dichiarare la sua seconda indipendenza”.
C’è anche chi ha cercato di stabilire un parallelo improbabile tra Martí e Theodore Roosevelt (presidente USA dal 1901 al 1909, promotore della politica aggressiva e interventista del Big Stick o Grosso Bastone in America Latina, però, come Barack Obama, vincitore di un Nobel per la pace, non preventivo, nel 1906 per la soluzione del conflitto russo-giapponese) i quali “condividevano una fede nella centralità delle considerazioni politiche ed economiche nel governo e nelle relazioni tra i governi, nella necessità storica della liberazione delle nazioni del Nuovo Mondo, nell’attaccamento alla tradizione, nella visione globale delle loro rispettive nazioni e dei loro doveri specifici verso le Americhe” e ancora “credevano al ruolo attivo del governo nella società e nell’economia per proteggersi dagli interessi egoistici di pochi”. Ciononostante, commentando le proposte di unione monetaria avanzate durante il Primo Vertice Panamericano del 1889, Martí riaffermò la solidarietà sub-regionale contro il panamericanismo, l’ideologia unificatrice degli USA basata sul commercio e la moneta, visto che “chi dice unione economica, dice unione politica. Il popolo che vende, comanda. Il popolo che compra, ubbidisce. Bisogna equilibrare il commercio per assicurare la libertà”. Frasi vecchie ma sempreverdi.
È solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’America Latina viene riconosciuta dal “grande pubblico” e dalle istituzioni a livello internazionale come un attore politico rilevante e si dota di organi regionali importanti d’ispirazione latino americanista e in parte alternativi al sistema panamericano creato con la OSA (Organizzazione degli Stati Americani sotto l’egida statunitense) come la CEPAL (Comision Economica para America Latina y el Caribe della ONU, del 1948), la Unión de Universidades de América Latina (UDUAL) nel 1949, la Asociación Latinoamericana de Libre Comercio nel 1961, il Parlamento Latinoamericano nel 1964, La Comisión Económica de Coordinación Latinoamericana nel 1964 e il Sistema Económico Latinoamericano (SELA) nel 1975, oltre agli accordi d’integrazione commerciale, militare ed energetica recenti come l’ALBA, il Mercosur, il Banco del Sur e l’UNASUR. La produzione accademica e statistica ufficiale della CEPAL, insieme al lavoro dei suoi economisti e sociologi come Anibal Pinto, Raul Prebisch, F.H. Cardoso e tanti altri, ha dato negli ultimi 60 anni una grande spinta alla “causa” latino americanista e a una teoria sociale latino americana riconosciuta dai centri dei paesi industrializzati.
Concludo. Scrivendo questo breve saggio mi sono imbattuto così quasi per caso in un’intervista di Ana Delicado allo scrittore e giornalista uruguaiano Eduardo Galeano, da 40 anni autore del celebre e sanguigno romanzo Le vene aperte dell’America Latina, intitolata “La paura di vivere è peggiore di quella di morire” e vorrei riportarne un estratto dato che tratta proprio il tema della mia onorata dissertazione.
Ana: Come definisci l’America Latina?
E.G: È una terra d’incontro di molte diversità: culturali, religiose, di tradizioni e anche di paure e impotenza. Siamo diversi nella speranza e nella disperazione.
Ana: Che incidenza ha questa varietà oggigiorno?
E.G: In questi ultimi anni c’è un processo di rinascimento latino americano in cui queste terre del mondo cominciano a scoprire sé stesse in tutta la loro diversità. La cosiddetta scoperta dell’America è stata in realtà una copertura d’una realtà varia. Questo è l’arcobaleno terrestre che è stato mutilato da alcuni secoli di razzismo, maschilismo e militarismo. Ci hanno lasciati accecati da noi stessi. È necessario recuperare la diversità per celebrare il fatto che siamo qualcosa in più di quello che ci hanno detto che siamo.
Ana: Questa diversità può essere un ostacolo per l’integrazione?
E.G: Credo di no. Un’unità basata sull’unanimità è una falsa unità che non ha destino. L’unica unità degna di fede è quella che esiste nella diversità e la contraddizione delle sue parti. C’è una triste eredità dello stalinismo e di quello che chiamarono socialismo reale nel ventesimo secolo che ha tradito la speranza di milioni di persone giustamente perché ha imposto quel criterio, cioè che l’unità è l’unanimità. Si confuse la politica con la religione. Si applicarono criteri che erano d’uso ai tempi della Santa Inquisizione quando tutte le discrepanze erano eresie degne di punizione. Questo è una negazione della vita. È una specie di cecità che ti impedisce di muoverti perché il motore della storia umana è la contraddizione.
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