Pubblichiamo oggi la seconda parte (seguiranno altre tre) di un capitolo del volume «All’inseguimento dell’ultima utopia. La letteratura ispanoamericana in Italia e la creazione del mito dell’America latina» di Stefano Tedeschi (Edizioni Nuova Cultura, 2005), dedicato principalmente ad alcune opere del premio Nobel Mario Vargas Llosa.
di Stefano Tedeschi
Il sistema di testi che alla fine viene fuori presenta allora alcune linee guida forti, legate alla direzione dei romanzi di García Márquez, ma con significative aggiunte e diversificazioni, dalle quali nasce un’immagine complessiva di un certo spessore. Come nei libri dello scrittore colombiano anche nella divulgazione degli altri autori ispanoamericani hanno un ruolo cruciale le immagini, siano esse quelle presenti nei testi che quelle evocate dalle presentazioni e dalle recensioni, e non solo per la natura fortemente iconica dei romanzi tradotti in questi anni. La funzione dell’immagine deve essere qui quella di mettere in moto il pubblico, di farlo reagire positivamente, di permettergli un’identificazione altrimenti difficile, data la distanza spaziale, la sostanziale ignoranza geografica e storica e la diversità della situazione sociale del lettore medio italiano.
Quelle immagini che si vengono a sovrapporre fino a costruire un paesaggio spaziale, storico e sociale verosimile emergono però essenzialmente da testi di finzione e solo la collaborazione attiva del lettore così fortemente sollecitato può farli nascere alla realtà, e da tale processo nasce l’immagine dell’America Latina in Italia, destinata, per la sua stessa natura a trasformarsi ben presto in stereotipo. Uno stereotipo legato peraltro in modo inestricabile alla rappresentazione dell’altro, di una diversità e lontananza che rimane irriducibile nonostante tutti i tentativi di addomesticamento e di banalizzazione: i lettori italiani utilizzeranno allora una serie di immagini per potersi raffigurare un’alterità altrimenti incomprensibile, per diminuire la distanza e cercare un avvicinamento a un “mondo possibile”, del quale si dovrà misurare la differenza dal referente reale, sia esso il testo originale o lo spazio concreto cui esso si riferisce.
I romanzi ispanoamericani diventano allora a pieno titolo degli “oggetti sociali”, attivati da un insieme di lettori segnati da un orizzonte d’attesa che è stato già parzialmente descritto parlando di Cent’anni di solitudine, e che Italo Calvino sintetizzava con queste parole:
Nella letteratura c’è la diffusa sensazione d’un fallimento, d’un bisogno di ricominciare da zero; non parlo della microletteratura italiana dell’ultimo ventennio la cui caduta è proporzionata al suo basso volo, ma parlo delle proposte più ambiziose del Novecento europeo che diventano ogni giorno più insoddisfacenti. E questo si verifica al livello della gioventù più intellettualmente esigente: non perché non si interessa più di letteratura (come pare avvenga oggi in Italia) ma perché se la letteratura è vissuta come ragione rivoluzionaria (come pare lo sia nella gioventù francese, a livello di massa, non di leaders) lo è come richiesta ancora da assolvere, esigenza in larga parte in bianco, pagina ancora da scrivere.
Quella gioventù andava allora a cercare le nuove proposte, le “ragioni rivoluzionarie” in libri ed autori che sembravano arrivati apposta per soddisfare quelle necessità, ma nello stesso momento in cui si apriva al mondo iniziava anche a costruire un sistema di stereotipi, di immagini astratte e schematiche considerate immanenti a quel sistema di testi.
Ogni autore, o gruppo di autori, occupa allora uno spazio ben preciso in un tale universo immaginario, e risulta portatore, nelle presentazioni editoriali, nelle traduzioni, nelle recensioni, di un ruolo da svolgere. Mario Vargas Llosa, l’autore più tradotto e di maggior successo dopo García Márquez, è strettamente legato a motivazioni politiche, come era apparso chiaro fin dalla introduzione a La città e i cani, in cui si citavano le sue parole sulla necessità della violenza e le isteriche reazioni che la pubblicazione del libro aveva suscitato in Perù, dove era stato bruciato in piazza. Mario Luzi, in un articolo per il Corriere della Sera, riprende quelle indicazioni e le collega ad una generale insofferenza generazionale:
Va detto che la mossa apparente dello scrittore assomiglia molto a quel che si dice levare il coperchio o meglio ancora vuotare il sacco; insomma a una terribile gaminerie che scopre di colpo la volgarità, il cinismo e la violenza dietro la rispettabile facciata della disciplina e della dignità militari e borghesi. Da questo punto di vista esteriore offre perfino la comodità di rientrare nel quadro generale della rabbia, della dissacrazione e, naturalmente, della protesta: e non manca certo il gusto della scandalosa frizione tra una carica di sincerità, d’insofferenza e la cartapesta degli istituti, i falsi decori di una società sottosviluppata e degradata allo stesso tempo.
La stessa sorte tocca ai due romanzi tradotti successivamente, La casa verde e Conversazione nella Cattedrale: la controcopertina della prima edizione di quest’ultimo libro, che (colpevolmente) rivela dettagli del testo che tolgono tensione al lettore, viene giocata proprio sulla valenza “politica” del romanzo: «Il fallimento di Santiago, tipico rappresentante della borghesia latinoamericana, i suoi svogliati sforzi di liberarsi del giogo del passato, illuminano con eccezionale penetrazione un’inquietante situazione collettiva di disagio”.
Le recensioni, numerose e di buona qualità, non fanno altro che sottolineare quella caratteristica ed anche due testimoni acuti come Mario Luzi e Dario Puccini, pur con tutti i distinguo e le precise analisi delle tecniche narrative e delle ascendenze letterarie, non sfuggono alla fine al collegamento “fatale e necessario” con il contesto reale. Vargas Llosa diventa allora l’enfant prodige (quello della sua giovane età è un tratto che sia le presentazioni che le recensioni non tralasciano mai), emblema del romanzo “impegnato”, e la foto che accompagna la recensione di Paese Sera ne accresce senza dubbio il fascino. Sono sufficienti due citazioni da quegli articoli per sottolineare quale valenza assumano quei libri negli anni in cui appaiono, facendo saltare le distinzioni di carattere letterario che i lettori più avveduti avvertivano; Puccini scrive infatti a proposito de La Casa Verde prima e della Conversazione poi:
Difficile stabilire un parallelo tra García Márquez e Vargas Llosa. Ogni accostamento rischierebbe di far torto o all’uno o all’altro. Ma non v’è dubbio che questi due autori quasi coetanei nascono da una stessa inquietudine generazionale e da un medesimo plesso di esigenze umane, sociali e letterarie: la volontà da un lato di superare le secche della rappresentazione naturalistica o anche piattamente realistica del mondo latinoamericano: far saltare, dall’altro, e liberare gli ingranaggi limitati della espressività di quella cultura; e infine dare alla narrazione – alla lunga narrazione delle piaghe e delle speranze politiche della società sottosviluppata – una prospettiva allegorica d’ampio respiro, una funzione di vasta parabola ideale. […]
Pare che Vargas Llosa consideri questo romanzo politico come una specie d’inevitabile sbocco del suo programma narrativo corale e «totale», del suo concetto del romanzo come il più storico tra i generi letterari e della sua teoria apocalittica del romanzo. A me sembra che esso riveli soprattutto una fedeltà a un demone assai più travolgente e a un imperativo, diciamo, assai più «categorico»: l’ineluttabilità dell’assunzione della realtà latinoamericana come fonte di rappresentazione e insieme come canone di denuncia.
E Mario Luzi, dalle colonne di un Corriere della Sera non così politicamente impegnato, si lascia andare a una chiusura struggente nella recensione de La Casa Verde:
La forza di Vargas Llosa è soprattutto una forza d’immedesimazione, senza riserve o alibi d’artista, alla sostanza umana della sua materia narrativa. Non si può certo sottintendere un’ideologia cosciente. Meno ancora si può sostenere che arrivi alla remissione delle responsabilità remote e presenti della «civilizzazione» dei bianchi. La voce che racconta di Bonifacia non ha l’accento che ha quando racconta del signor Réategui. Ma il senso della pena e dell’abiezione vibra su corde più profonde di quella dell’accusa e della discolpa in questa che è stata definita una sinfonia: e se lo è, è una sinfonia del dolore e dell’umiliazione dell’uomo.
Quella collocazione “politica” non rende però un buon servizio ai romanzi di Vargas Llosa: quando infatti la tensione del sessantotto inizia a scemare, anche l’attenzione verso quei libri comincia a diminuire; dopo le prime ristampe i suoi romanzi entrano in un cono d’ombra fino alla seconda metà degli anni ottanta: La città e i cani troverà spazio nell’Universale Economica solo nel 1976, con poche edizioni, La Casa Verde verrà ristampata nel 1980 e poi di nuovo nel 1991, Conversazione sparirà dalla circolazione fino alla fine degli anni Ottanta, recuperata dalla Rizzoli in un generale progetto di riproposta dell’autore, che continuerà poi nella seconda metà degli anni Novanta, ormai in forma riconosciuta e definitiva, con la Einaudi. Quando dunque appare Pantaleón e le visitatrici, significativamente con Bompiani e non più con Feltrinelli o Einaudi, la presentazione punterà decisamente su altre ragioni per la possibile vendita:
La prima edizione in lingua spagnola di questo romanzo è di un anno e mezzo fa: 100.000 copie. Queste 100.000 copie si esaurirono in una settimana. […] il lettore viene immerso in un paesaggio esotico e lontano che subito gli diventa familiare, attraversa svariatissime specie di linguaggi “alienati” […], compie numerose esperienze erotiche, professionali, politiche, partecipa all’impresa, concepisce simpatie e antipatie, è preso completamente nel funzionamento di un congegno epico-comico che non sbaglia un colpo.
Ma la nuova strategia editoriale non funziona: non basta il tono da “bestseller annunciato”, né la fiammante copertina rossa con titolo in giallo, o il lavoro preciso di un giovane traduttore dal grande futuro, Angelo Morino, per assicurare il successo. Il pubblico del 1975 non ha più voglia di America Latina, e Vargas Llosa viene travolto dal riflusso del boom.
Leggi la terza parte qui.
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