Pubblichiamo la terza parte del saggio di saggio di Anna Boccuti, dell’Università di Torino, che analizza le consonanze fra lo scrittore argentino e il nostro Dino Buzzati nel quadro della letteratura di genere “fantastico” nel Rio de la Plata e in Italia. Qui la prima parte del saggio. Qui la seconda.
4. Il fantastico come maschera della sconfitta
Le differenze tra l’universo di Buzzati e quello di Cortázar appaiono ora più chiare.
In Buzzati la consapevolezza dell’opposizione fra razionale e irrazionale, ordine e disordine non svanisce mai, così come mai svanisce nei protagonisti la coscienza della propria appartenenza alla realtà “razionale”. Per questo, è sempre viva la speranza di un ritorno all’ordine, come i pur timidi tentativi dei protagonisti di opporsi al caos dimostrano.
Ciò che viene costantemente problematizzato invece è la natura di quest’ordine razionale a cui essi saldamente si ancorano, che rivela, alla fine, tutta la sua carica irrazionale. In Buzzati permane una coscienza vigile – a cui, in questo caso, dà voce il narratore impersonale – che osserva e accompagna il dibattersi dei protagonisti: quell’atmosfera di scacco esistenziale di sapore kafkiano così ricorrente nel fantastico buzzatiano scaturisce dalla presenza di questa coscienza che non si abbandona al caos. I protagonisti, infatti, benché costretti a piegarsi all’assurdo, sono sempre consapevoli che ciò che sta succedendo viola le leggi della logica.
Tutto il contrario in Cortázar, che porta all’estremo le posizioni di Buzzati: i protagonisti, nel finale, sono essi stessi il “luogo” in cui si manifesta l’irrazionale. Il narratore in prima persona racconta il collasso dell’ordine – un ordine irrazionale che sembra suggerire la possibilità di un disordine del razionale – ma senza scandalo e senza disperazione, senza rimpianti e senza speranze di ritorno.
Entrambi narrano dunque, attraverso il fantastico, delle verità indicibili e indecidibili, come abbiamo visto, grazie alle ambiguità insinuate dalle reticenze e le ellissi del testo. In Buzzati questi silenzi trasmettono la mancata comprensione degli eventi da parte dei protagonisti e sono, quindi, comunicati al lettore, il quale, disponendo esattamente della stessa quantità di informazione dei personaggi, ne condivide anche domande, incertezze, angosce. Si tratta, come abbiamo visto, di un silenzio dichiarato, di un vuoto avvertito dal narratore ed espresso con il linguaggio, ma non all’interno linguaggio, nelle sue stesse trame.
In Cortázar ci imbattiamo in diversi tipi di silenzi: quelli del narratore che non vuole parlare e quelli del narratore che non ha nulla da dire perché la realtà fantastica gli sembra naturale. Quest’ultimo non ritiene necessario fornire spiegazioni semplicemente perché non c’è bisogno di spiegare ciò che è abituale, quotidiano. Tocca allora al lettore, e non più a un’istanza situata all’interno del testo, contemplare la costernazione dei protagonisti.
Emerge a questo punto nitidamente la differenza sostanziale tra Buzzati e Cortázar: mentre nel primo sopravvive una visione verticale dell’opposizione tra la realtà naturale e quella soprannaturale, che in alcuni racconti si traduce nella realtà attraverso l’evento misterioso o prodigioso, in Cortázar non c’è traccia di questa fiducia in un ordine superiore o divino. (Penso, ad esempio, a racconti come “Autorimessa Erebus”, o ancora “Il mantello”, in cui l’elemento irrazionale viene ricondotto immediatamente alla sfera del soprannaturale, come nel fantastico ottocentesco: nel primo caso al diavolo, nell’altro alla morte. Lo straordinario, dunque, non appartiene allo stesso piano della realtà ordinaria, che non è pertanto minacciata dal suo interno.) Per questo motivo, l’opposizione tra la realtà e la dimensione incognita contigua ad essa, è organizzata orizzontalmente, esprimendo così la drammatica condizione di solitudine e sconfitta dell’individuo dinanzi all’ignoto, al caos, all’assurdo.
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