Questo pezzo è uscito originariamente sul Guardian e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.
di Geoff Dyer
traduzione di Martina Ricciardi
Esiste una lunga e illustre tradizione di aspiranti scrittori che quando incontrano il loro idolo scoprono che, in realtà, ha i piedi di argilla. E a volte non solo i piedi – anche le gambe, il petto e la testa – così la delusione contamina il giudizio sull’opera, addirittura, sull’autore stesso. Io, invece, sono stato molto fortunato, perché il primo grande scrittore che ho conosciuto – lo scrittore che ammiravo più di ogni altro – si è rivelato una persona meravigliosa. Da allora, in più di trent’anni, non c’è mai stato modo di mettere in discussione l’amore che provo per quei libri o per l’uomo che li ha scritti.
Era il 1984. John Berger, che aveva stravolto e arricchito il mio concetto di libro, era a Londra per la pubblicazione di E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto. Lo intervistai per il Marxism Today. Aveva 58 anni, l’età che ho io adesso. L’intervista andò bene, ma quando finì lui sembrava sollevato – adesso, disse, possiamo andare a parlare come si deve in un pub.
È stato il momento clou della mia vita. I miei coetanei avevano un lavoro, una carriera – alcuni anche una casa – io, invece, ero in un pub con John Berger. Insistette perché gli mandassi un mio scritto – non l’intervista, di quella non gliene fregava niente, voleva leggere qualcosa di mio. Mi rispose entusiasta. Mi incoraggiava sempre. Ma un rapporto non si può basare sulla riverenza, così ben presto diventammo amici.
Il successo e le lodi di cui godeva grazie alla sua attività di scrittore lo tennero alla larga dalle vanità più grette e gli permisero di concentrarsi sulla cosa a cui teneva di più: i rapporti personali basati sull’uguaglianza. Ecco perché era un collega solerte e un amico prezioso per moltissime persone di qualsiasi estrazione sociale, provenienti da qualsiasi parte del mondo. La sua generosità, la sua capacità di dare, non aveva limiti. E questo non lo faceva solo rimanere giovane, ma si combinava con una sorta di pessimismo negativo che gli permetteva di affrontare e superare tutti gli ostacoli della storia. In un saggio su Leopardi dichiarò che «viviamo in un mondo che non ci permette di costruire qualcosa che si avvicini al paradiso in terra ma, al contrario, viviamo in un mondo la cui natura è molto più vicina all’inferno; che differenza farebbe per le nostre scelte politiche o morali? Saremmo comunque obbligati ad accettare gli stessi obblighi e a partecipare alla stessa lotta, proprio come stiamo già facendo; forse anche il nostro senso di solidarietà con gli sfruttati e i sofferenti sarebbe più forte. Cambierebbero solo l’enormità delle nostre speranze e, infine, l’amarezza delle nostre delusioni».
L’opera di Berger era autorevole e molto apprezzata, e tuttavia, sia dal punto di vista dei temi che della forma, la sua portata resta piuttosto difficile da valutare. Questione di sguardi è l’equivalente bergeriano di The Köln Concert, di Keith Jarrett: un lavoro virtuoso che, a volte, va a rimpiazzare o a distrarci dal corpus più ampio rispetto al quale costituisce solo un’introduzione. Nel 1969 pubblicò Art and Revolution e lo definì «l’opera che meglio descrive quello che, secondo me, è il metodo critico», ma in realtà è nei numerosi scritti più brevi che ha dato il meglio di sé come critico d’arte. (Tom Overton ha raccolto questi scritti nel libro Portraits, con lo scopo di offrire una visione cronologica della storia dell’arte.)
Nessuno ha mai eguagliato Berger e la sua capacità di farci guardare i quadri o le fotografie in maniera «più profonda», come scriveva Rilke in una lettera su Cézanne. Basti pensare al saggio «Turner e la bottega del barbiere» in cui ci invita a considerare alcuni degli ultimi quadri del pittore alla luce delle cose che il giovane vedeva nella bottega del padre: «acqua, schiuma, vapore, metallo luccicante, specchi appannati, catini e bacili bianchi in cui il liquido saponoso viene mosso dal pennello del barbiere e sul cui fondo vanno a depositarsi i residui» [traduzione di Maria Nadotti].
La scrittura di Berger è pregna di un’immensa erudizione ma, come per D.H. Lawrence, tutto doveva passare al giudizio dei suoi sensi. Non ebbe il bisogno di un’istruzione – una volta criticò aspramente un pensatore che, quando voleva sapere qualcosa, apriva un libro – ma, fino all’ultimo, fece affidamento su quello che aveva imparato alla scuola d’arte, durante le ore di disegno. Gli bastava guardare a lungo e intensamente qualcosa per carpirne i segreti; in caso non ci riuscisse, spiegava perché l’essenza di quell’oggetto risiedeva proprio nell’inafferrabilità dei suoi misteri. E questo non vale solo per i suoi scritti d’arte, ma anche per gli studi documentaristici (su un dottore di campagna in A Fortunate Man e sui lavoratori migranti in Un settimo uomo), i romanzi, la trilogia contadina Into Their Labours e i moltissimi lavori che non possono essere etichettati. In qualsiasi forma o genere, i suoi libri sono stracolmi di considerazioni così precise e sottili da diventare dei veri e propri concetti – e viceversa. «Il momento in cui inizia un brano musicale offre un indizio per capire la natura di tutta l’arte», scrive nel saggio «The Moment of Cubism». In Qui, dove ci incontriamo immagina come sarebbe stato «viaggiare da solo tra Kalisz e Kielce centocinquant’anni fa. Tra i due nomi ce ne sarebbe stato sempre un terzo – il nome del tuo cavallo».
L’ultima volta che ci siamo visti eravamo a Londra, nel 2015, poco prima di Natale. Eravamo in cinque: io, mia moglie, John (allora aveva 89 anni), la scrittrice Nella Bielski (che andava per gli ottanta) e la pittrice Yvonne Barlow (91), con cui era stato insieme da ragazzo. Io le ho chiesto, in tono scherzoso: «Allora, com’era John a diciassette anni?» «Era come lo vedi adesso», ha risposto, come se fosse successo il giorno prima. «Era sempre gentile». Tutto quello che gli interessava, scrisse una volta, erano le cose che aveva in comune con gli altri. Era uno scrittore e un pensatore brillante; ma quello che a Yvonne è rimasto impresso era la sua eterna gentilezza.
Il film Walk Me Home, di cui è stato sceneggiatore e attore, era, a detta sua, «un casino», ma c’è una frase pronunciata da Berger a cui penso sempre e che cito a memoria: «Quando muoio, voglio essere seppellito in una terra che non appartiene a nessuno». In una terra, cioè, che appartiene a tutti noi.
© Geoff Dyer, 2017. Tutti i diritti riservati.
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