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Il giro del giorno in ottanta mondi di Julio Cortázar

Raul Schenardi Recensioni, SUR

In attesa che Julio Cortázar entri nel catalogo Sur, rileggiamo uno dei suoi libri più curiosi, Il giro del giorno in ottanta mondi, pubblicato nel 2006 da Alet nella traduzione di Eleonora Mogavero. La recensione uscì a suo tempo su «Pulp».

di Raul Schenardi

«Ricordo una conversazione con Julio Cortázar in un bistrot parigino, a metà degli anni ‘60, un periodo nel quale ci vedevamo abbastanza spesso. La casa editrice Siglo XXI gli aveva chiesto da tempo un libro, e lui girava intorno a un’idea che gli sfuggiva. Finché quel giorno l’acciuffò. Era eccitato e contento: “Un viaggio intorno al mondo, come quello di Phileas Fogg [il protagonista di Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne], ma senza muovermi dalla mia scrivania. Un libro pazzo, da fuori di testa, fatto di ritagli e avanzi, come un grande collage”. Avrebbe ripreso progetti abbandonati a metà strada, riscattato testi sperduti in riviste effimere, scritto articoli, profili o pastiches ispirati ai dischi, alle foto o agli oggetti che aveva intorno a sé… Quando Il giro del giorno in ottanta mondi comparve, nel 1967, nella sua genialità anarchica era anche involontariamente sedizioso poiché spezzava le frontiere fra i generi, un misto di humour e serietà, di poesia, gioco, pittura, politica e follia nel quale scoppiettavano, con allegria e insolenza, la curiosità universale e lo spirito da adolescente di quel cinquantenne che era allora Cortázar, e la sua voracità cosmopolita, la sua generosità e il suo candore.» Così sciveva Manuel Vargas Llosa a proposito del libro dello scrittore argentino pubblicato ora per la prima volta in Italia dalla casa editrice Alet nella bella traduzione di Eleonora Mogavero.

Se Cortázar è ormai universalmente apprezzato per le raccolte di racconti, ma non da tutti come romanziere, adesso è finalmente possibile conoscere un altro versante della sua produzione letteraria, che frequentò soprattutto negli ultimi anni di vita, incurante delle critiche e sorretto, fra gli altri, dal giudizio dell’illustre connazionale Adolfo Bioy Casares: «Se qualcuno pubblica una miscellanea, il commento di solito è: “A Tizio si è già prosciugata l’immaginazione. Sta pubblicando fumetti e avanzi che trova nei cassetti”. Quando uscì Il giro del giorno in ottanta mondi qualche ammiratore di Cortázar lamentò che si vedesse costretto a pubblicare una cosa del genere. Per me è uno dei suoi libri più piacevoli».

Scommetto che il libro sarà sicuramente gradito a chi ha già fatto l’esperienza della scrittura di Cortázar. In queste pagine, infatti, tornano alcune delle sue creazioni più riuscite (i cronopios immortalati in Storie di cronopios e di fama, Polanco, Calac e Morelli, personaggi di Il gioco del mondo), rivivono alcune sue passioni, dal jazz alla boxe alla letteratura, e vengono ripresi certi temi prediletti, primo fra tutti quello del «gioco», che è anche una delle chiavi di lettura di tutta la sua opera.

«Che fortuna eccezionale quella di essere un sudamericano e soprattutto un argentino e non sentirsi obbligati a scrivere sul serio, a essere serio, a sedersi davanti alla macchina per scrivere con le scarpe ben lucidate e una sepolcrale nozione della gravità dell’istante. Tra le frasi che, in modo premonitorio, ho più amato nella mia infanzia, c’è quella di un compagno di classe: “Che ridere, tutti piangevano!”.» Come ha osservato Tomás Eloy Martínez, quando Cortázar fece irruzione nella letteratura argentina, quest’ultima era «gravata dalla solennità a causa di un’ingiunzione di Borges, per il quale essere argentini significava essere pudichi e reticenti. Cortázar era lì per contraddirlo e installare nella letteratura l’idea che sia possibile giocare con il linguaggio e con la realtà, non prendersi sul serio». Tanto da incorniciare una frase di «quella pulce prodigiosa di nome Man Ray»: «Se riuscissimo a sradicare la parola serio dal nostro vocabolario, si aggiusterebbero tante cose». (Basta riflettere un istante sulla frequenza con cui l’aggettivo compare nei sermoni dei politici nostrani per essere incondizionatamente d’accordo.)

E sul fatto che Cortázar fosse un «giocherellone» non ci sono dubbi. Alle testimonianze dei suoi amici in tal senso si aggiungono alcuni episodi raccontati nel libro, come l’incursione notturna in un ministero di Helsinki, quando lavorava come traduttore per organismi internazionali: «Nel riattraversare la grande sala vidi uno schedario su una scrivania e lo aprii: tutte le schede erano bianche. Io avevo un pennarello blu, e prima di andarmene disegnai cinque o sei labirinti e li aggiunsi alle altre schede; mi diverte immaginare che un giorno una finlandese sbalordita avrà trovato i miei disegni e che forse c’è un procedimento in corso, funzionari che interrogano, segretari costernati». D’altra parte, va da sé che per Cortázar l’elemento ludico non deve essere inteso nel senso più banale del termine, ma come «una visione nella quale le cose smettono di avere le loro funzioni stabilite per assumere spesso funzioni molto diverse, inventate», come dichiarò in una famosa intervista. L’elemento ludico opera infatti la rottura del continuum, una delle sue bestie nere: «Ogni ordine stabilito fa quadrato davanti al sospetto di una rottura e mette le sue forze peggiori al servizio della continuità».

E vale anche per questo libro l’appello alla nascita di un «lettore trasversale» che Cortázar rivolgeva in uno dei testi più lunghi e ispirati della raccolta, dedicato allo scrittore cubano José Lezama Lima e al suo torrenziale romanzo Paradiso: «Oggi si parla molto di scienze trasversali, ma il lettore trasversale ci metterà un bel po’ a fare la sua comparsa e Paradiso, fendente diagonale con essenze e presenze, conoscerà la resistenza che gli oppone il fascio delle idee ricevute». Vale del resto anche l’avvertenza di Borges contenuta nel Prologo a un’edizione di racconti di Cortázar: «Non si può raccontare l’argomento di un testo di Cortázar; ogni testo consta di determinate parole in un determinato ordine. Se tentiamo di riassumerlo, verifichiamo che qualcosa di prezioso è andato perso.» Tanto più risulterebbe bislacca l’impresa nel caso di Il viaggio del giorno in ottanta mondi, formato da testi molto dissimili: racconti (fra cui l’esercizio di stile “alla maniera di” Kafka intitolato «Con legittimo orgoglio»), poesie, pagine di diario, ritratti di artisti, cronache di concerti jazz – dal «grandissimo cronopio» Louis Armstrong a «capitan» Thelonius Monk passando per Charlie Parker, che gli aveva già ispirato il romanzo Il persecutore – o di incontri pugilistici, commenti a notizie giornalistiche di politica e costume, riflessioni sulla letteratura e l’arte, dichiarazioni di poetica (come nel testo conclusivo, «Casella del camaleonte»), per non parlare dell’elemento straniante costituito dalle numerose foto e illustrazioni che accompagnano i testi, alla maniera di quegli almanacchi popolari che l’autore sfogliava nell’infanzia e per i quali dichiarò di provare nostalgia.

E una certa nostalgia per l’infanzia è lo spirito che aleggia su questo libro, che si rivolge indubbiamente a un lettore «colto» – per l’ampiezza e l’allusività dei riferimenti letterari –, ma solo per invitarlo ad abbandonare la sua seriosità.

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