Anatomia di un soldato è il primo romanzo di Harry Parker: racconta le vicende di un giovane soldato inglese impegnato in una campagna militare in Medio Oriente e di due ragazzi di un villaggio locale, facendole descrivere in prima persona, capitolo dopo capitolo, dalla voce di una serie di oggetti che i protagonisti possiedono o con cui entrano in contatto. Come Tom Barnes, il soldato del romanzo, Harry Parker è stato un capitano dell’esercito britannico e ha perso entrambe le gambe nello scoppio di un ordigno improvvisato durante un’operazione.
Questa è la versione integrale dell’intervista fatta da Michele Neri a Parker in preparazione dell’articolo uscito il 14 dicembre 2016 su Vanity Fair. Viene qui riprodotta per gentile concessione dell’autore.
di Michele Neri
traduzione di Martina Testa
Michele Neri: Scrivere della tua drammatica esperienza credi che abbia cambiato il tuo modo di vederla e di accettarla?
Harry Parker: Nel momento in cui ho cominciato a scrivere il libro credo che avessi già accettato la mia menomazione, e mi fossi ripreso sul piano fisico e mentale. Penso che se avessi usato la scrittura come forma di terapia il romanzo sarebbe stato diverso, e probabilmente meno riuscito. Per me si è trattato semplicemente di un atto creativo, volevo raccontare una storia nella maniera più efficace possibile.
Ma scrivere un romanzo è anche un modo di organizzare i pensieri, di riflettere molto a fondo su un problema e risolverlo. In questo senso, scrivere mi ha dato modo di ripensare alle campagne militari a cui ho partecipato. C’è stata una differenza fra il modo in cui vedevo la guerra da soldato e quello in cui la vedo da scrittore. La guerra è un’attività disumanizzante. Dopo che una persona che conosci resta uccisa o ferita devi uscire di nuovo dalla base a pattugliare i dintorni, ed è difficile guardare le popolazioni locali senza provare un maggiore senso di diffidenza: bisogna assicurarsi che nessuno, quando si ritrova davanti al nemico, agisca spinto da un senso di vendetta. Nel libro ho inserito personaggi che erano abitanti del luogo o membri della guerriglia, e ho dovuto renderli credibili: in questo senso la scrittura è stata un processo ri-umanizzante e mi ha permesso di leggere l’esperienza che ho vissuto in maniera diversa da quando ero più giovane, tutto carico di addestramento, spavalderia e adrenalina.
MN: L’immaginazione è stata il tuo migliore alleato, durante la fase di recupero psicologico?
HP: Credo che l’immaginazione sia uno strumento potentissimo per chiunque senta che gli è stato strappato qualcosa – che sia la libertà o la sicurezza, o un’abilità fisica. L’immaginazione mi ha sempre permesso di trovare un modo per superare gli ostacoli, per intravedere nuove possibilità. Sia che dovessi affrontare i banali problemi quotidiani della riabilitazione, sia a livello più creativo, quando dopo l’incidente ho cominciato a dipingere e disegnare e poi a scrivere. L’immaginazione è il mio miglior alleato nella vita, e non solo da quando sono rimasto ferito: è qualcosa che ho sempre tenuto caro e coltivato.
MN: Hai scelto di far raccontare la storia agli oggetti per un motivo stilistico o personale?
HP: Per prima cosa si è trattato di risolvere un problema: come faccio a usare le mie esperienze senza raccontare la mia storia? Ovviamente dovevo scrivere una storia di fantasia. E poi gli oggetti mi hanno consentito di mantenere un maggiore distacco e di evitare qualche virata verso il sentimentalismo. C’era anche il fatto che non volevo entrare troppo nel discorso politico, o parlare in maniera diretta della guerra in Iraq o in Afghanistan. Gli oggetti mi hanno dato la distanza necessaria. Usare gli oggetti significava che non dovevo per forza nominare l’Afghanistan. Appena ho cominciato a raccontare la storia da questo punto di vista mi sono reso conto che potevo anche creare dei punti di vista interessanti sulla vita militare e sul processo di riabilitazione fisica. E poi ho scoperto che cominciavo a pensare agli oggetti in maniera diversa: a come vengono creati, come si muovono per il mondo, che valore hanno per la gente, di quanta ritualità e quanto significato vengono investiti.
In un certo senso la cosa più importante degli oggetti è che impongono una certa distanza fra il lettore e i personaggi. Per alcuni lettori o scrittori questa può essere una caratteristica negativa, ma per me è grazie a quella distanza che le emozioni e i sentimenti si amplificano.
MN: Sia come soldato che come scrittore di guerra, la tua esperienza ti dice che il concetto di Nemico è sempre più difficile da definire?
HP: Nello scrivere il libro, per me la cosa quasi più importante di tutte è stata raccontare la storia da entrambi i punti di vista. Credo che nella cultura popolare ci siano troppe narrazioni basate su una rigida contrapposizione noi/loro, e volevo scardinare questa lettura in bianco e nero. Da soldato pensavo sempre a chi era il nemico, e spesso mi domandavo cosa avrei fatto io se fossi stato un ragazzo nato in Iraq o in Afghanistan, da che parte avrei scelto di schierarmi. I motivi per cui mi sono arruolato nell’esercito sono stati tanti, ma avevano molto più a che fare con le prospettive economiche e la voglia di avventura che con delle convinzioni ideologiche; sono sicuro che molti di quelli contro cui combattevo avevano delle motivazioni simili.
MN: Come ti sei procurato le informazioni sulla parte della storia vista dal lato di Latif e Faridun?
HP: In un certo senso, la loro vita l’ho immaginata. Ma ho anche fatto ricerche per assicurarmi che fosse credibile. E poi avevo l’esperienza accumulata durante il periodo trascorso nell’esercito, quando uno dei miei compiti non era combattere ma capire le popolazioni in mezzo alle quali operavamo. Quindi ho passato molto tempo a studiare gli usi locali, le religioni, le tribù. Ho anche conosciuto personalmente tante persone del luogo. Ero incaricato di entrare in casa loro, parlarci e cercare di fare in modo che la mia unità agisse nella maniera più adeguata a guadagnarsi il sostegno della popolazione civile, a convincerla a stare dalla parte del governo invece che dei ribelli.
MN: Essere riuscito di nuovo a correre è stato un punto di svolta, per te?
HP: Riesco a correre, ma non corro davvero. Il mio libro è un’opera di fantasia e Tom Barnes non sono io. Ci sono molti momenti nel libro in cui ho voluto affrontare una questione che per me era stata importante, ma spesso gli eventi narrati sono del tutto immaginari. Io in realtà faccio canoa, e questa attività fisica mi fa provare alcune delle sensazioni che descrivo nel romanzo quando Tom va a correre nel parco. Ecco una delle cose più strane riguardo al libro: tutti danno per scontato che si tratti di pura autobiografia, mentre per la maggior parte sono episodi inventati.
Non c’è stato nessun punto di svolta particolare. La riabilitazione è stato un processo lungo e graduale. Nel corso del quale ci sono momenti in cui capisci che te la stai cavando bene e che forse tornerà tutto a posto, ma ti rendi anche conto che la tua vita è cambiata e non «guarirai» mai davvero. Nel romanzo, questo a Tom accade in più di un’occasione. Quando va a fare la spesa al supermercato, nel capitolo della palla di neve, e quando corre (ma anche lì, cade).
MN: Qual è stato il capitolo più difficile da scrivere e perché?
HP: Non lo so! Non ci penso in questi termini. A volte, dal punto di vista tecnico, le parti più difficili da scrivere lo erano non in quanto emotivamente intense ma perché le trovavo noiose, e allora le saltavo. E poi, tornandoci, mi rendevo sempre conto che non servivano davvero.
Spesso la gente mi dice che il capitolo della sega chirurgica dev’essere stato tosto da scrivere – probabilmente è tosto da leggere – ma è stato uno dei giorni di scrittura più emozionanti della mia vita.
© Michele Neri, 2016. Tutti i diritti riservati.
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