In cerca di scrittori strani

redazione Autori, César Aira, SUR

Dopo Juan Carlos Onetti, Horacio Quiroga e Felisberto Hernández, presentiamo un giovane scrittore uruguayano ancora inedito in Italia, Gabriel Peveroni, poeta, romanziere e drammaturgo. Fra i libri di poesia: Princesa deseada (Editorial Graffiti 1991), Poemas religiosos (Editorial Graffiti 1993), El bordado eterno (Feria del libro 1995) e McMorphine (Artefacto 2006). Fra i romanzi ricordiamo La cura (Alfaguara 1997), El exilio según Nicolás (Alfaguara 2004), Tobogán blanco (Hum 2009). Fra le opere teatrali: Sarajevo esquina Montevideo (2003), El hueco (2004), Berlín (2007), Luna roja (2006), Exterminio (2008), Groenlandia (2008; rappresentata a New York), Shangai (2011). Sul suo blog (http://peveroni.blogspot.com/) si possono scaricare i testi delle opere teatrali. Pubblichiamo una breve intervista di Gabriella Saba uscita tempo fa su «Il Sole 24ore» e un breve testo di Peveroni su un’intervista mancata a César Aira.

In cerca di scrittori strani
di Gabriel Peveroni
traduzione di Raul Schenardi

César Aira mi disse di sì. Alle 5 in punto andai a cercarlo al Radisson. Un pomeriggio di febbraio del 2008, trenta gradi all’ombra a Montevideo City. Attraversammo Plaza Independencia e le prime parole che gli rivolsi furono a proposito di La liebre, il suo romanzo non tanto pacifico ambientato in una Patagonia allucinante, popolata di indigeni folli che non smettono un istante di combattere e di scoprire fratelli gemelli. Non ottenni alcuna risposta. Aira non era in vena di elogi. O soffriva molto il caldo. Non so. A quel punto mi riservai per un’altra occasione i commenti sull’apocalisse che si scatena in El misterio de Rosario o sulla luminosità di Parménides. Lasciai perdere anche le osservazioni sugli intriganti fisioculturisti di La guerra de los gimnasios, e non gli chiesi nemmeno se aveva già scritto un’altra avventura di Barbaverde. Optai per starmene zitto. Arrivammo al Tasende, in una via laterale della piazza. Ordinammo caffè. Cercai d’impostare una conversazione simpatica, ma l’impresa si rivelò sempre più difficile.
La possibilità di un’intervista svanì del tutto quando César Aira disse che non era questione di vanità, semplicemente non gli piacevano le interviste. «In ogni caso, la farei per la mia vanità» risposi, quasi esaltato, cercando di strappargli un accenno di sorriso. Niente. Gli dissi che facevo collezione di interviste, e che avrei continuato a battermi per avere successo nell’impresa. Gli ricordai che nel mio elenco personale di successi annoveravo Charly García. Mi guardò con una faccia che voleva dire: se insisti comincio a infastidirmi. Montevideo per lui voleva dire vacanza e – in ogni caso – ricerca di scrittori strani. Gli ricordai che Mario Levrero era morto e non c’era più granché da scoprire. E che tra i suoi discepoli si salvava solo Pablo Casacuberta. Si annotò il nome. E poi doveva leggere Héctor Galmés, morto nei primi anni Ottanta e strano quanto Levrero. Si segnò anche quest’altro nome. Andai avanti a parlare per un po’. César Aira continuava a scrivere nomi sul blocnotes. Sembrava che l’intervistato fossi io. Ordinammo una pizza bianca, specialità della casa, la migliore di Montevideo. Gli spiegai che il palazzo che vedevamo dalla finestra del vecchio bar era il Palazzo di Giustizia – iniziato negli anni Sessanta e mai terminato – e siccome la struttura era così brutta che infastidiva i proprietari del Radisson – sempre tanto fighetti, preoccupati per la loro clientela a cinque stelle, non come César Aira – l’avevano coperta di vetri specchiati. Il grande simulacro di Montevideo per eccellenza. Aggiunsi che due anni prima Hugo Chavez in persona aveva alloggiato al Radisson e aveva chiesto cosa fosse quella cosa orrenda. Lo zar del Venezuela aveva scucito un mucchio di petrodollari per ultimare finalmente l’edificio, a condizione che vi fosse installato non il Palazzo di Giustizia, ma un modernissimo Palazzo del Governo (così è più comodo quando viene a farci visita, perché la sede attuale del governo dista 4 km dal Radisson). Continuai a parlare per un po’ con César Aira. L’unica cosa che riuscii a tirargli fuori, riguardo alla sua ampia opera letteraria, fu che la galleria d’arte Belleza y Felicidad di Buenos Aires si chiama così perché Fernanda Laguna – la musa a cui Aira ha dedicato il suo divertentissimo romanzo Yo era una chica moderna – aveva letto quelle due parole in un suo vecchio romanzo. Parlammo un po’ di Dani Umpi (giovane musicista e scrittore underground uruguayano; ndt) ed ebbi la conferma che si ammiravano reciprocamente. Non parlammo di Roberto Bolaño. Quando lo nominai ebbi l’impressione che Aira non parli molto volentieri di Dio.
Mentre tornavamo al Radisson, arrivati in mezzo alla piazza, indicai a César Aira il Palacio Salvo. «Lì c’è il mio ufficio» gli dissi. Non specificai di cosa. Né a lui né a me importava il dettaglio. Il caldo aumentò, e questo non era logico, perché erano già le sette di sera e il sole era più basso sull’orizzonte. Ma dopo che ho letto La liebre non mi preoccupo più per gli scompensi spazio-temporali. Quella sera c’era la tradizionale sfilata di carnevale e gli suggerii di fare una passeggiata, ma disse che preferiva vederla in tv. Ci salutammo. Tutti e due sapevamo che non era stata una grande chiacchierata, ma lui si portò via qualche informazione.

I libri che sta leggendo Aira:
Dodecamerón di Carlos Rehermann (Hum Editor).
Trilogía involuntaria di Mario Levrero (Sudamericana/Mondadori).
Die Reiven. Manual de Literatura Uruwasha di Pablo Trochon (Corelato Editores).
Final en borrador di Héctor Galmés (Banda Oriental).
Esta máquina roja di Pablo Casacuberta (Trilce).

Di seguito vi proponiamo un articolo di Gabriella Saba uscito sul Sole 24 Ore. È una presentazione di Gabriel Peveroni e della sua attività di animatore dentro la cultura giovanile di Montevideo.
Qui per scaricare l’articolo.

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