Pubblichiamo oggi una recensione di La ninfa incostante, di Guillermo Cabrera Infante, del cineasta, scrittore e giornalista spagnolo Vicente Molina Foix, ringraziando l’autore e Letras libres, la rivista su cui è comparso originariamente.
di Vicente Molina Foix
Traduzione di Raffaella Accroglianò
Estela Morris è la persona più intelligente che il protagonista e voce narrante di La ninfa incostante ha conosciuto fino al momento del loro incontro. Ma questo astuto, falso, godereccio e infine dolente narratore che risponde spesso al nome di Gecito, conosce anche la fragilità degli assoluti: “L’intelligenza […] non si manifesta solo con le parole, mentre io tutto ciò che possiedo sono parole, utili, a volte inutili. Utensili”. Questa dichiarazione arriva quando all’eccellente romanzo postumo di Guillermo Cabrera mancano poco più di venti pagine alla fine, ed è forse la più triste demarcazione dei limiti della letteratura dell’autore, il quale, nella Ninfa incostante, si muove nuovamente – com’è di regola fra gli scrittori che non sono “esploratori” ma “territoriali”, come Faulkner, Onetti, Benet, Bernhard o lui stesso – all’interno di un luogo conosciuto, e fissa qui la sua lente in modo molto chiuso e intenso. Il risultato è, rispetto all’altro grande romanzo erotico che fu L’Avana per un infante defunto, una strana e amara – anche se spesso divertente – storia d’amore da camera (“camera oscura”, diremmo, ammiccando all’autore), come se nello scriverla, in un periodo di malattia e probabilmente di premonizione della morte, Cabrera Infante avesse convocato la più impossibile delle sue ninfe per personalizzare in lei l’addio alla carne.
Probabilmente per questo Estela assurge al rango di personaggio principale della narrativa dello scrittore di Gibara, incarnando inoltre il contrappunto perfetto per mettere in risalto la dualità sempre latente nella “persona” letteraria del suo autore: la tensione fra l’elemento intellettuale e quello vitale, fra le spinte del desiderio e i dettami della mente, una tensione che lo portò a creare per quarant’anni alcune delle più influenti costruzioni concettuali della prosa in lingua spagnola del XX secolo, sostenute e contemporaneamente sfidate dall’affacciarsi di una linea d’ombra: la consapevolezza di usare la sua poderosa intelligenza nel “gesto” delle parole, per quanto ingegnose. Lo erano, certamente, ma oggi, scomparso ormai il formidabile gesticolatore, sappiamo che saranno anche durevoli.
Cercando di alleggerire o camuffare questa tensione nei suoi libri, il vitalista Cabrera propose tempo addietro – non sappiamo esattamente quando – un patto al sentenzioso Infante. Il primo si sarebbe fatto scudo (i wits sono di solito grandi timidi) dietro le battute ingegnose per proteggersi dall’usura del mondo sentimentale, lasciando al secondo, il suo alter ego sfacciatamente lascivo, le incombenze, così divertenti in tutti i romanzi di Cabrera (e particolarmente in questo) del desiderio, del corteggiamento, della seduzione e il desiderio di materializzarsi in modo lubrico come Infante. E per confermare questa intesa fra le due metà che abitano in G. Caín, il Gecito di La ninfa incostante aggiunge quanto segue alla dichiarazione con cui abbiamo iniziato la nostra recensione: “Le parole sono reali, ma quello che ci faccio è, in fin dei conti, irreale”.
La ninfa incostante è il romanzo più reale dei racconti irreali di Cabrera Infante e funziona quindi – non per il fatto di essere postumo – come l’elemento mancante nell’itinerario dell’autore anglo-cubano. I suoi lettori fedeli troveranno nelle quasi trecento pagine di questo libro paesaggi e peripezie di un territorio già visitato: siamo evidentemente nella Cuba degli ultimi tempi del dittatore Batista, in una Avana notturna e musicale nella quale si muovono, come attori di una tragicommedia che abbiamo già visto in scena, un gruppo di personaggi che intrattengono dialoghi che ci risulteranno anche familiari. Ciò che lo distingue, però, è ciò che rende cruciale il libro: da una parte l’aura quasi memorialistica, con i continui paralleli fra la vita reale dell’allora giornalista di Carteles G. Caín e il Gecito che narra all’inizio del XXI secolo, e dall’altra ricomparendo scintillante, la Estela Morris del racconto, quell’adorabile batterio che infetta sin dall’inizio il narratore, contaminando tutti i suoi desideri e le sue esperienze. Dietro il costante sfoggio di brillanti torsioni testuali (ne citiamo solamente due: le delizie e gli insegnamenti del primo bacio, che educa e muore, o l’annotazione che Estela “visto che sembrava una bambina, indossava la gonna in ogni occasione”), dietro, insisto, questa infallibile felicità nel dire, c’è il saggio fare del libro: una commovente storia di amour fou tra un devoto ma un po’ cinico uomo curioso e “il primo esemplare di donna moderna” conosciuto.
A fare il conteggio dei giochi di parole in qualsiasi opera di Cabrera Infante, per quanto sia piacevole, e lo è quasi sempre, si corre il rischio di privare i suoi puns (giochi di parole) del senso che ognuno di questi acquisisce nella trama del romanzo. Così accade in La ninfa incostante. Ridiamo con il “succo creatore” che rinvigorisce il narratore la mattina, con la scarica di botte (tunda) che il fratello riceverà nella tundra sovietica, con la variazione sul celebre detto latino, qui modificato in Fornicatio non petita, accusatio manifesta, e con quella commessa chiamata “Maria Ascellatrice”, che sotto un braccio aveva una valle senza e sotto l’altro un inclán ugualmente peloso. Chi emette simili invenzioni non ci può fare nulla (siamo nel territorio dello scrupoloso ma eccessivo Cabrera) e lo dice, in una parentesi, dopo aver descritto l’apparizione della ragazzina con la faccia molto truccata: “Lei voleva dare battaglia, anche se a me sembrò una mascara-muccia”. Imitando Melville al contrario, la loquacità dinanzi alla stringatezza, lo scrittore Gecito è l’antipodo dello scrivano Bartleby. “È che non riesco, non riesco proprio a trattenermi” esclama fra parentesi a pagina 99 di La ninfa incostante.
Un conteggio di queste invenzioni potrebbe rivelarsi come il semplice tentativo di catalogare le greguerías di un loquace ma banale istrione. Ebbene, come è già palpabile in Tre tristi tigri, Cabrera Infante è un solido costruttore di trame, nelle quali il racconto – il supremo valore del racconto – e il florilegio di un linguaggio sciolto, in piena libertà sulla parola, servono a uno sviluppo romanzesco.
In quel primo capolavoro, i ripiani o memorabili tramezzi dell’edificio (la “Storia di un bastone”, le varie morti di Trotsky) erano voluti e programmatici: era il tempo delle decostruzioni avant la lettre, e molto prima che Derrida le diffondesse. Sterne o Joyce, Flann O’Brien o Lewis Carroll sono, senza dubbio, i precursori di questo discorso così incline alle equazioni di una matematica folle. Ma non bisogna dimenticare l’altro lato più prudente, anche se non esente da fantasmagoria, del romanziere Cabrera: quello che approfitta della lettura di Twain, Isak Dinesen e Virgilio Piñera. E così il mantenimento di una linea narrativa per mezzo della spiritosità del racconto, che già era evidente fra i diversi composites di Tres tristes tigres e la galleria di ritratti femminili dell’Avana para un infante defunto, qui, essendo il racconto più focalizzato sulla storia d’amore di Estela e Gecito, acquisisce una maggiore risonanza, in episodi tanto folgoranti come quello della cantante spagnola importunata deliberatamente dalla mano del macchinista o quello concernente il personaggio dell’amico Robertico Branly e della sua famiglia di farmacisti pazzi, che occupano più di una decina di pagine di grande umorismo nella seconda metà del libro.
Evidenzio come migliore, per la finezza della costruzione, il capitolo che si sviluppa nella posada (o maison close) in cui ha luogo la prima notte d’amore dell’adolescente Estela e del marito infelice. Seguendo un tema ben elaborato in parallelo, Cabrera Infante chiosa le capriole, le contraddizioni e gli esiti della coppia habanera, in analogia con la prima notte di nozze, quella ahimé non consumata, dell’eminente vittoriano John Ruskin e della moglie Effie. John, vergine, non ce la fa dinanzi alla visione dell’inaspettato pelo pubico di sua moglie nuda, abituato com’è il grande critico d’arte ai nudi del Rinascimento, a ninfe angeliche o dee dai pubi impuberi. Gecito invece ce la fa e, come Ruskin si rifugiò dopo il fiasco in una beatitudine morbosa ma castamente infantile, il cubano ringrazia il cielo per l’esito del coito: “Kyrie eleison, kyrie erezione”. La giaculatoria sconcerta l’appena deflorata Estela, che ancora una volta non lo capisce e si spazientisce per i suoi giochi di parole, al che lui le risponde: “Prego mio padre e antico artefice, adesso e nell’ora della mia eiaculazione”.
Romanzo di sguardi avidi, di piaceri furtivi e di nostalgie della dispersione amorosa, il narratore, per quanto ci provi, non riesce a fissare stabilmente il suo oggetto del desiderio. “La consumai con gli occhi. Consumai, consommé”, nota a pagina 273.
Noi lettori sappiamo, comunque, a questo punto del romanzo, che nel breve tempo della sua relazione con Estela, Gecito non ha estratto “la sostanza di una carne commestibile”. È che la ninfa, più che incostante, per quanto risultasse suggestiva doveva essere inconsistente. Solo la rimembranza di chi l’amò le dà forma, e solamente grazie alla generosa loquacità dello scrittore lei acquisisce voce e pathos, anche se Estela, con la fugacità di un’ottima essenza gassosa, continua a dissiparsi ancora e ancora.
“Non si capisce niente di quel che dici, e se si capisce non si sa se parli sul serio o per scherzo”, recrimina lei al suo amante in uno degli incontri. La risposta di lui riproduce in tutta la sua profondità quel supremo maestro d’ironia che fu Cabrera Infante: “È il vantaggio di essere un autore comico”.
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