Pubblichiamo oggi un frammento delle Risposte, il nuovo romanzo di Catherine Lacey che, in bilico fra satira e fantascienza, romanzo filosofico e storia d’amore, riflette sulla modernità e il mondo che ci circonda.
Mary è una trentenne americana in crisi: è affetta da un’infinità di dolori e disturbi psicosomatici e ha perso il lavoro; l’unico sollievo sembra venirle da una bizzarra forma di fisioterapia, vagamente new age e molto costosa. Quando un gruppo di misteriosi ricercatori le offre l’opportunità di una collaborazione ben remunerata, accetta senza pensarci due volte. Si tratta di far parte dell’«Esperimento Fidanzata», dove un divo del cinema a cui l’ipervisibilità mediatica impedisce di vivere una normale relazione di coppia sta provando a crearsene una artificialmente, circondandosi di una serie di ragazze che ne soddisfino, a turno, le diverse esigenze…
di Catherine Lacey
traduzione di Teresa Ciuffoletti
Anche se Matheson l’aveva istruita su cosa dire e come dirlo e anche se le avevano messo i vestiti giusti e insegnato ad applicare il trucco che le era stato fornito e anche se aveva fatto la meditazione guidata usando l’app sul telefono dell’EF e anche se Matheson le aveva dato lo schema dal Reparto Ricerca, Mary non sapeva come comportarsi con lui.
Erano le otto di sera di un martedì e lei si trovava nel privé segreto di un cocktail bar senza insegna nel West Village, la Casa del Savio, tutto mogano e velluto e teste di animali morti. L’illusione di esclusività faceva sì che gli avventori si sentissero privilegiati a spendere quarantatré dollari per un solo bicchiere di liquido. La stanza sul retro era quasi introvabile, l’ultima di tre porte, le altre due finte, in fondo a una viuzza accanto all’anonimo ingresso principale, e a Mary era stato detto di suonare il campanello tre volte e di aspettare un clic prima di spingere la porta, di salire su per una vertiginosa scala a chiocciola sulla destra, percorrere il corridoio e poi scendere giù per un’altra vertiginosa scala a chiocciola, attraversare un sipario di velluto blu, porgere il documento d’identità a due addetti alla sicurezza e a un direttore di sala.
Ovviamente Kurt non era ancora arrivato, prima l’avrebbe fatta aspettare almeno venti minuti (Di norma fa così, disse Matheson), e mentre aspettava da sola all’unico tavolo in quella stanza cavernosa (Il signor Sky sarà da lei a breve) Mary provò a leggere un libro ma le luci erano troppo soffuse, e benché non avesse ordinato nulla un uomo secco come un grissino vestito tutto di nero le mise davanti un bicchiere di liquido rosa pallido con una fetta di cetriolo galleggiante. Aveva gli occhi così infossati e pesti che lei a malapena riusciva a vederli.
Da parte del Savio. Un tonico di salute e vitalità, le disse.
Continuava a starsene lì in piedi, fissandola con l’intensità apatica di un bambino incollato al televisore. Gradevole e leggermente effervescente, il primo sorso placò in un batter d’occhio la sua agitazione di stomaco, e tutt’a un tratto era così semplice essere sé stessa che si sentiva un’altra persona. Mary tornò a guardare il cameriere, ancora in attesa, e non sapendo cosa dire annuì e lui annuì e scivolò via. Dopo vari minuti di vuoto lo beccò che la scrutava, metà della faccia e del corpo nascosti da una tenda bordeaux, ma ancor prima che la cosa suscitasse in lei una qualche reazione, Kurt fece il proprio ingresso dicendo: Ehilà, e la abbracciò come si fa con un amico che non si vede da una vita più che in quel modo esitante e trattenuto da estranei che si toccano per la prima volta.
Hai avuto problemi a trovare il posto?
Aveva un odore di legna bruciata ma vagamente dolciastro e un viso talmente simmetrico che quasi veniva da dubitare della sua umanità. C’era sempre una tensione nei suoi occhi, come se li tenesse puntati su una luce abbagliante e facesse di tutto per non strizzarli. Una delle linee guida di Mary diceva di imitare le sue espressioni, per cui lei si sforzò di sorridere in quel suo modo vivace, concentrandosi così intensamente da non accorgersi che il cameriere le aveva portato via il primo drink rimpiazzandolo con due bicchieri di qualcosa di limpido e bluastro, e Kurt sollevò un bicchiere per cui lei fece altrettanto, e ne annusò il contenuto per cui lo fece pure lei, e bevvero – dolce, floreale – e anche se lui chiuse gli occhi mentre sorseggiava e deglutiva, lei li tenne aperti, rimase a osservarlo.
Kurt le spiegò che in quel posto non c’era il menù, che un maestro dei cocktail su misura – il Savio – realizzava ogni singolo drink in un laboratorio segreto, creando quella che secondo lui era la bevanda azzeccata per ciascun cliente in base a metodi sconosciuti. Si parlava di telecamere nascoste; alcuni dicevano che c’era lo zampino dei camerieri; altri ancora erano convinti che fosse un sensitivo. A volte i drink erano alcolici, non tutti però, ma contenevano sempre delle tinture farmaceutiche e c’era chi insinuava che ogni tanto il Savio li condisse con una dose di peyote o psilocibina, anche se la cosa non era mai stata né dimostrata né smentita.
È l’unico posto che si sia aggiudicato una stella Michelin senza servire cibo solido, disse Kurt. Mary in quel momento non si ricordava che cos’era una stella Michelin, anche se Chandra gliel’aveva spiegato, ma in ogni caso non era importante che capisse i discorsi di Kurt. Non era tenuta ad avviare conversazioni serie di nessun tipo – per quello c’era la Fidanzata Intellettuale – né a rassicurarlo, visto che quel compito spettava alla Fidanzata Materna. Doveva soltanto ascoltarlo e reagire nel modo in cui era stata addestrata, toccandogli una mano o un ginocchio quando lui tirava fuori qualche ricordo di sua madre e toccandogli una spalla quando lui si lamentava dello stress lavorativo. Parlava il meno spesso possibile, sempre al di sotto del livello di decibel che le avevano insegnato a non superare, e senza dire mai le parole della lista nera: atmosfera, fiscale, rimarcato, micio, letteralmente, lattosio, hashtag, oplà, ’sticazzi, vomito, e tante altre. Se lui le avesse fatto una domanda su di lei, lei avrebbe dovuto rispondere nel modo più sincero e conciso possibile, ma durante la prima sessione non le chiese nulla.
Nel corso della serata fu dispiegato un esercito di liquidi, alcuni in bicchierini piccoli come un ditale, altri corti e malinconici in coppe dalla bocca larga. Facevano sentire Mary rilassata e vigile allo stesso tempo, un misterioso senso di lucidità che sembrava quasi avere origine al di fuori del suo corpo, raggiungerla come un suono, come musica.
Mia mamma una volta mi ha raccontato che quando ero piccolo mi levavo il ciuccio di bocca e piangevo, anche se ce l’avevo in mano e avrei potuto rimettermelo in bocca quando mi pareva. E invece stavo lì a guardarlo, piangendo, finché non sentivo di aver pianto abbastanza, al che me lo rimettevo in bocca e stavo bene, tutto soddisfatto. A questo punto Kurt fece una pausa a effetto, sfiorò con un dito l’orlo del bicchiere, poi alzò lo sguardo oltre la testa di Mary. Secondo me facevo in quel modo perché ho sempre voluto provare tutto quello che c’è da provare.
Proseguì con aneddoti di questo tipo, ciascuno contenente una qualche lezione su di lui, qualche dettaglio che Mary doveva sapere sul suo conto, qualche pillola di saggezza, qualche indizio. Lei continuava ad annuire, a mantenere il contatto visivo, a seguirlo con la massima attenzione come prescritto dalle linee guida.
Le venne da chiedersi – dopo quasi due ore che ascoltava e annuiva ed emetteva centinaia di mm-hm per mostrarsi partecipe – se Kurt si stesse comportando nel modo in cui gli era stato ordinato di comportarsi, o se effettivamente era fatto così. Non divagava mai, neanche una volta, dai racconti su di sé come lei aveva visto fare ad altre persone – dicendo all’improvviso: vabbè, comunque – una frase che a quanto pare tutti dicevano esattamente allo stesso modo, un modo affrettato, come se dopo essersi esposti fino a un certo punto si sentisse il bisogno di dirottare l’attenzione altrove. Mary non riusciva neanche a immaginarsi Kurt che diceva quella frase – vabbè, comunque. Sapeva che in quell’Esperimento Relazionale la priorità era che Kurt parlasse e che lei lo stesse ad ascoltare, ma era forse contro le regole dell’esperimento che fosse lui ad ascoltare? E non gli interessava per niente quello che lei aveva da dire? O forse sapeva già tutto quello che c’era da sapere dai colloqui e dall’indagine della sua storia personale e tutto il resto. Forse lei non avrebbe mai dovuto dirgli nulla e forse le andava bene così.
Anche se Mary non l’avrebbe detto dal suo comportamento, Kurt aveva atteso con trepidazione di incontrarla – una trentenne che abitava a New York e non aveva mai neanche sentito parlare di lui. Eppure non riuscì ad astenersi dal menzionare quelli che la gente considerava i punti salienti della sua carriera, bramando, suo malgrado, l’ammirazione automatica di cui generalmente godeva con qualsiasi sconosciuto. Le raccontò la storia del suo primo film, Il gioco del padre, di come aveva riscosso un enorme successo di critica e di pubblico, e di come la sua interpretazione di un adolescente che scappa di casa per andare alla ricerca dei genitori biologici a Cleveland gli aveva fruttato un Oscar e solo allora il suo vero padre, assente per tutta l’infanzia di Kurt se si escludono gli assegni di mantenimento, aveva cercato di riavvicinarsi a lui con quella lettera ridicola in cui diceva di essere quasi orgoglioso, tutto sommato, anche se la parte di Kurt era troppo elaborata e i personaggi erano quasi tutti solo parzialmente verosimili. In realtà la lettera non era così dura come se la ricordava Kurt, ma non è che fosse proprio affettuosa, e visto che lui aveva affrontato da solo il cancro e la morte della madre, a quel punto era sicuro di non aver bisogno di un padre in differita. Kurt non gli aveva mai risposto, e suo padre (adesso era morto pure lui) aveva continuato ad accontentarsi, se non a essere del tutto contento, di seguire il figlio attraverso le riviste e i film. Quando gli chiedevano del suo primo matrimonio e di suo figlio, lui diceva soltanto: Errare è umano.
Kurt si interruppe in mezzo alla storia. Si morse le labbra, tamburellò le unghie sul tavolo e sorrise lentamente. (Questa sequenza di gesti era diventata così abituale per lui, un riflesso, che ormai non se ne accorgeva neanche, era un tic che compariva nella maggior parte dei suoi personaggi, se non altro nei suoi ultimi film, e quando qualcuno gli faceva l’imitazione non mancava mai di inserirlo nello sketch. Addirittura c’era un sito che pubblicava solo gif in cui questa serie si ripeteva ininterrottamente – il morso del labbro, il tamburellare delle dita, la lenta smorfia delle labbra – e una volta Kurt era incappato in quella pagina mentre era immerso in una paranoica ricerca di sé stesso su internet, e per un po’ non era riuscito a distogliere lo sguardo da tutti quei piccoli lui che mordevano e tamburellavano e sorridevano all’infinito.)
È difficile quando gente che non hai mai visto ti riconosce e sa una serie di cose su di te, disse, e io non riuscivo mai a capire se c’era una sintonia genuina o se l’altra persona era solo in sintonia con la sua idea di me o con qualcosa che voleva da me.
Mary annuì.
Forse ti sembrerà assurdo, ma io sono stanco di tutta l’attenzione che ricevo. Davvero. Voglio essere capito e non desiderato e basta. (Kurt rimase un attimo in silenzio, ripensò alle ragazze degli inizi, orde di ragazze che saltellavano, tremavano, strillavano, ragazze con magliette con su scritto sig.ra sky, ragazze a cui per qualche motivo non dispiaceva accalcarsi spalla a spalla con tutte quelle altre Sig.re Sky mentre assaltavano la hall di qualche albergo o straripavano dalle transenne ai margini della strada, ragazze che protendevano braccia stecchite verso di lui, ragazze che sfoggiavano ombretti blu scintillanti nella speranza che lo sbrilluccichio dei loro occhi attirasse i suoi, ragazze in iperventilazione, ragazze che si riempivano di sfoghi, ragazze che si sparavano siringhette di adrenalina per non soffocare, ragazze che reggevano altre ragazze svenute, ragazze che mollavano quelle ragazze a terra per poi travolgerle. Ragazze determinate e, in qualche modo, innamorate. (Quella strana fase prima di diventare adulte: biologicamente abbastanza grandi da conoscere il desiderio, ma ancora abbastanza piccole da credere nella magia. Gli ormoni e la speranza che alimentavano la fantasia mentre loro fremevano in preda a un amore travolgente, o all’idea dell’amore, o alla fantasia di un amore futuro, o all’amore per l’idea della fantasia d’amore.) Alcune giovani donne (donne che erano rimaste bambine) avevano perfino scovato il suo indirizzo di casa e ogni tanto si piazzavano davanti al cancello a urlare il suo nome, puntando con una mira da cecchino le sue finestre che si illuminavano e si spegnevano. Ogni volta che Kurt sentiva che ce n’era una appostata là fuori provava un leggero fastidio seguito da un’ondata di piacere, piacere quando doveva chiamare Matheson per dirgli che c’era qualcuno al cancello, piacere di sapersi così desiderato, di sapere che per colpa sua qualcuno era andato un tantino fuori di testa. Era un potere pericoloso, e solo diversi anni dopo gli era venuto da chiedersi se questa cosa in qualche modo non l’avesse compromesso, innalzando così tanto la sua tolleranza per l’altrui desiderio che un amore normale non l’avrebbe mai appagato. A volte Kurt se ne stava seduto a luci spente in salotto aspettando che la polizia prelevasse la ragazza di turno e la ascoltava sgolarsi invocando il suo nome. Lo so che stai ascoltando, gli aveva urlato una volta una di loro, Lo so che mi senti!, e lui quasi si era sentito scoperto.)
La sessione stava per finire quando Kurt disse: Sarebbe il caso di parlare di quello che sta succedendo, per Mary il segnale che doveva abbassare lo sguardo, inspirare lentamente e delicatamente, prendere la sua mano più vicina con entrambe le mani, aspettare che lui appoggiasse l’altra mano sopra le sue e poi alzare lo sguardo con un’espressione tra il malinconico, lo sconvolto e l’euforico, una faccia che si era esercitata a fare per un’ora buona con Matheson il giorno prima.
Sì, disse.
Stava pensando al fatto che le avevano raccomandato di non pensare alle sue sessioni da Fidanzata Sentimentale come a un lavoro o a una parte da recitare, ma di viverle momento per momento come una meditazione, e pur sapendo che pensare alle istruzioni ricevute le impediva di eseguirle, forse quello era il massimo livello di iper-incoscienza, di intenzionale mancanza di intenzionalità che lei potesse raggiungere. Le avevano detto che la cosa più importante nel suo lavoro era seguire le istruzioni, perché le istruzioni erano state elaborate scientificamente per produrre il sentimento corretto in lei che a sua volta avrebbe prodotto il sentimento corretto in lui. Mary si era studiata il manuale con estrema attenzione, cercando di assimilare tutte le regole finché non le venivano automatiche, eppure spesso non era sicura di comportarsi correttamente, una forma di insicurezza che la accompagnava sempre.
È davvero importante, disse Kurt. Quello che stai facendo. Non credo di riuscire a spiegare appieno quanto è importante.
Mary lo guardò con un’espressione di pura aspettativa ed era da così tanto che non lo guardavano in quel modo che Kurt si sentì subito confortato, riportato indietro a un tempo in cui era più schietto, più libero, meno in vista. Si ricordò della privacy spensierata di cui godeva una volta senza rendersene conto, finché non era scomparsa, finché non aveva cominciato a subire agguati ogni tre per due da parte di perfetti sconosciuti per strada, prima che nei ristoranti volti famelici cominciassero ad aggirarsi intorno al suo tavolo dicendo: Mi permette, dicendo: Scusi, volevo solo farle un saluto. Gli rivolgevano quei sorrisi enormi – Scusi – mezzi imbarazzati, mezzi risoluti, cercando in parte di tirarsi indietro da sé stessi – Mi scuso per l’interruzione, volevo solo dirle – ma con un disperato bisogno di intervenire con quelle due o tre parole – Mi scusi ma non potevo fare a meno di parlarle perché lei, i suoi film, lei è veramente – decenni di quella gente e lui ancora non riusciva a decidere cosa provare nei loro confronti – Mi scusi ma non potevo fare a meno di parlarle e ora però non so bene cosa dire, solo che la ammiro molto, e lo so che magari le succede di continuo, ma io non potevo non dirglielo e mi scuso. Quello scusi/mi permette/scusi/mi permette, quegli sconosciuti che volevano abbracci o autografi o fotografie, una dimostrazione del fatto che a un certo punto erano esistiti accanto a lui, già un artefatto, già un ricordo. Allora piacere di averti conosciuto. Ti ringrazio di cuore. No, figurati. Passa una bella serata. Alla prossima. Ciao.
Kurt accostò una mano al viso di Mary, aperto e placido e rilassato, come da istruzioni, e siccome quella sessione si svolgeva fuori sede lei non portava i sensori facciali ma solo quelli sul corpo, che se ne stavano tiepidi sulla sua pelle, tra il vestito e la vita, tra il braccialetto e il polso, dietro alle orecchie, a registrare. Mary si ricordò che quando lui le avrebbe accostato una mano sul viso lei sarebbe dovuta restare in silenzio, mantenendo il contatto visivo e contando lentamente fino a tre prima di chiudere gli occhi e premere la guancia contro il suo palmo, nello stesso modo in cui i gatti si addossano alla mano che li accarezza, dandosi a ciò che gli è dato.
A Mary faceva ancora strano trovarsi da sola con un uomo (a parte Ed, con cui però era strano per altri versi). Sentiva crampi bizzarri e contrazioni dappertutto. Provò a imporsi di stare tranquilla, e anche se non ci riusciva mai fino in fondo fu comunque in grado di godersi, in una certa misura, lo spettacolo e la fatica dello stare con lui.
Kurt la guardò, disse: Grazie, le passò una mano tra i capelli, le diede un bacio sulla guancia e se ne andò.
Mary rimase lì seduta per un po’, con lo sguardo fisso sul tavolo e la sensazione che quel cameriere la stesse di nuovo spiando mentre scompariva fra le tende di velluto in fondo alla stanza. Era previsto che aspettasse diversi minuti prima di andarsene ogni volta che Kurt abbandonava una sessione. Kurt odiava i saluti, e a lei era stato vietato di compiere qualsiasi gesto che potesse assomigliare a un saluto, o anche solo di dare l’impressione che prima o poi se ne sarebbe andata. Ci pensò mentre camminava verso casa, al fatto che sarebbe sempre stata nei posti in cui lui entrava o da cui usciva. Al di là di tutto, quella notte dormì come non dormiva da anni, e come forse non aveva mai dormito.
© Catherine Lacey, 2017. Tutti i diritti riservati.
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