Come annunciato, vi presentiamo il testo dell’unica intervista che Jorge Luis Borges concesse a Néstor Sánchez nel 1969, di cui già avevamo parlato nell’approfondimento di Lautaro Ortiz pubblicato nei giorni scorsi.
«Borges uguale a Borges»
di Néstor Sánchez
traduzione di Francesca Signorello
La prima virtù di Jorge Luis Borges si evince forse non appena lo si vede entrare nell’indefinibile sala della Biblioteca Nazionale, dove accoglie tutti coloro che necessitano di un’intervista, senza alcuna eccezione. Poggia le mani su un tavolo di dimensioni irreali quasi quanto la sala, e da lì utilizza tutto il tempo che ha a disposizione: Borges non è un uomo occupato.
Poco dopo vorrà sapere in quale tipo di giornalismo dovrà imbattersi ancora una volta il suo prestigio di letterato. Certo è che Borges sentirà il bisogno di forzare questa nuova intervista fino a imprimerle le caratteristiche di un’intervista esemplare, quasi di un’entelechia, a cui sembrava rispondere da tantissimo tempo. Inoltre, la sensazione di un tempo immobile all’interno del tempo del discorso è la seconda virtù di Borges; è, tutt’al più, il clima obbligato di un’intervista identica a se stessa che lo scrittore riallestisce con un paio di movimenti sonnambolici delle mani.
Eppure, nel giro di pochi minuti, entrerà in gioco un altro suo compagno di lunga data: il buon vecchio umorismo. E sembra perfino giusto che per lui sia giusto così. Allora comincia una sorta di parabola antigiornalistica (anti-intervista giornalistica), apparentemente basata sulla diffidenza fisica verso qualsiasi interlocutore sconosciuto: «Parecchi anni fa lavorai per qualche mese al quotidiano Crítica – ricorda quasi stupito – ero il peggiore giornalista del mondo. Pensi che ho conosciuto – erano gli anni Venti – molti assassini. Certo, a quei tempi in cui il coltello era ancora diffuso, non era affatto raro incontrare persone con due morti alle spalle; erano tipi interessanti, cordiali; si potevano trascorrere ore insieme a loro e coltivare perfino un’amicizia senza che questi morti fossero mai un peso. Di certo erano migliori dei giornalisti».
NS: Quali dei due Borges risponde di solito a un’intervista?
JLB: In tutti i mezzi di comunicazione parlo per primo sempre io, ma in genere non riesco a evitare che il secondo, il Borges letterato, si intrometta. È un gran ficcanaso.
NS: Prima di riconoscersi nell’ultraismo, fu per caso influenzato da giovani quali Guillaume Apollinaire e Blaise Cendrars?
JLB: In realtà, no. Penso che nella mia opera (non c’è altro modo di chiamare quello che ho scritto), non ci sia l’influenza di nessuno. Casomai si possono trovare tracce di tutto quello che mi ha toccato da vicino, che ha significato qualcosa per lo scrittore che è in me.
NS: Secondo lei, questa mancanza di una vera contemporaneità nella sua gioventù è imputabile al fatto che le sue poesie appaiono meno interessanti rispetto ai racconti e alla narrativa breve?
JLB: Penso che non ci sia alcuna differenza sostanziale fra le mie poesie e la mia prosa. Il verso libero è una mera questione tipografica. Tutto quello che scrivo è fatto di attributi e aggettivi miei, facce diverse di uno stesso fenomeno, direi.
NS: Lei compare nell’esilarante libro di Powells, ma qualche volta ha citato, fra gli altri, Pëtr Uspenskij. Pensa di dovere molto al vero esoterismo occidentale, quello che va da Pitagora a Gurdjieff?
JLB: Anch’io, come tanti interessati al tema, ero convinto che Powells non fosse altro che un ciarlatano; ma quando lo conobbi in Europa, mi resi conto che era come me: agnostico. Non era sicuro dell’esistenza di una quarta dimensione, della trasmigrazione, della trasmissione del pensiero; insomma, di tutte quelle possibilità che vanno oltre il positivismo. Mentre facevo colazione con lui, lo trovai piuttosto simpatico e vicino ai miei dubbi, mi parlò del suo spirito borgesiano e diventammo amici. D’altra parte, posso dirle che ho sempre avuto, riguardo a questi temi, un atteggiamento di curiosità intellettuale. Mia madre era cattolica alla maniera argentina, cioè senza troppo fervore; mia nonna, protestante; e mio padre, seguace di Spenser, un libero pensatore. Il clima familiare in cui crebbi non oltrepassò mai quello di una discordia amichevole. La mia letteratura non è fantastica perché vuole stupire il lettore; tutto quello che scrivo trova una sua corrispondenza negli stati d’animo che ho avuto. È una letteratura fantastica ma non irreale. C’è perfino una mia poesia ambientata su un ponte di Constitución che potrebbe rimandare a una ricerca mistica. Io penso che si trattò soltanto di uno stato poetico, niente di più.
NS: Allora la sua passione per la metafisica non è mai andata oltre l’atteggiamento filologico?
JLB: Mai. O quantomeno mai nel modo tragico scelto da Unamuno, tanto per fare un esempio.
NS: Pensa di avere esagerato con la figura di Macedonio Fernández?
JLB: No, penso sia l’uomo più indimenticabile che abbia mai conosciuto; sono di questo stesso parere tutti gli scrittori della sua cerchia. Le farò nomi di morti e vivi: Santiago Davobe, Enrique Fernández Latour e Manuel Peyrou. Certo, la grandezza di Macedonio stava più nel dialogo che nei suoi scritti. Pensi che, pur essendo un conversatore brillante, era laconico e timido. Anche se non sconsiglio la lettura dei suoi libri, non posso certo negare che era un uomo che non vi si dedicò mai interamente. Era un genio, ma il suo strumento era il dialogo, come nel caso di Socrate (se vogliamo fare un esempio che non susciti polemiche). Macedonio era amico di Lugones, Ingenieros, J.B. Justo, Molina y Vedia e di Jorge Borges, mio padre. Eppure, dopo la sua morte, cominciarono a sbucare (come succede tutt’ora) persone di ogni tipo che sostenevano di essere state in rapporti amichevoli con lui; questo, però, non aiuta a conservare la sua memoria. Con i grandi uomini, una volta morti, succede sempre la stessa cosa.
NS: Ha mai sentito il bisogno, in un qualsiasi momento della sua vita, di cimentarsi con qualcosa che avesse un respiro più ampio rispetto a quello del racconto? Ci ha mai provato?
JLB: Mai. Mi costa già molta fatica arrivare alla fine dei miei racconti. In questo momento sto pensando più a un racconto lungo che a un romanzo, e si chiamerà El Congreso. Ovviamente questo titolo non ha nulla a che vedere con un’allusione di tipo politico.
NS: Qual è il racconto a cui è più affezionato?
JLB: Posso esitare? Dunque, c’è un racconto che si chiama L’intrusa e un altro Il sud.
NS: E quello a cui è meno affezionato?
JLB: Senza dubbio L’uomo della casa rosa; io non l’ho scritto come racconto realista, eppure tutti si impuntano a leggerlo in questo modo. Un vero duello non si fa così, un vero gradasso non parla in questo modo. Il film è migliore del racconto. In realtà, se pubblicare un libro è già di per sé un’emozione enorme, vedere un film costruito sulla base di una propria idea è un’emozione di gran lunga superiore. È come se un gruppo di fantasmi venuti fuori da una persona prendessero forma.
NS: È mai capitato che uno scrittore argentino abbia detto qualcosa di intelligente su di lei e la sua opera?
JLB: Quasi tutti quelli che hanno parlato di me e della mia opera in svariate circostanze, argentini e stranieri, si sono rivelati più intelligenti di me: o, se preferisce, più fantasiosi.
NS: In certi momenti, tra le persone della rivista «Sur», si mai è sentito solo come la sua opera?
JLB: No, mai, perché solo? La signora Vittoria Ocampo mi ha fatto l’onore di invitarmi a collaborare alla sua rivista. La rivista «Sur» è stata alquanto generosa con me, nessuno ha mai rifiutato un mio manoscritto. Non mi sono mai sentito solo; la signora Vittoria è stata molto buona con me. È partita da lei l’idea della mia candidatura a direttore della Biblioteca Nazionale, da lei e da Esther Zemborain de Torres. Quando me lo proposero, risposi che non mi avrebbero mai dato un incarico del genere, era più grande di me. Da parte mia, proposi la biblioteca di Lomas de Zamora, un posto che mi era sempre piaciuto. Eppure, il generale Lonardi in persona, mi consegnò il decreto di nomina, esattamente il 17 ottobre del 1955.
NS: Lei è stato quasi sempre consapevole del provincialismo culturale argentino e ha lasciato cadere qualche battuta al riguardo. Per esempio quella secondo cui «il genio di Joyce era puramente verbale, peccato che lo abbia sprecato nel romanzo», che ha inserito nel suo breviario di letteratura inglese, è riconducibile a questo tipo di atteggiamento?
JLB: Non è una battuta. Penso che il romanzo non necessiti di uno stile così elaborato come il suo, uno stile che pone parecchie difficoltà di lettura. Cervantes e Tolstoj furono grandi romanzieri e non ebbero bisogno di far ricorso a così tanta complessità formale.
NS: Qual è stato l’autore che ha avuto un’influenza più duratura nella sua formazione di scrittore?
JLB: Per prima cosa, devo ammettere che tutti i libri che ho letto e le persone con cui ho scambiato qualche parola hanno avuto un’influenza notevole su di me. Ma capisco anche che questa domanda richiede una definizione quasi categorica. Quindi non posso non citare Chesterton, anche se non condivido le sue opinioni religiose. Ma questo non significa che per me Chesterton sia superiore a Bernard Shaw; in un certo senso, però, io mi sento indegno di Shaw. Non si possono scegliere i propri maestri. Chesterton lo considero più imitabile.
NB: Invece, uno dei suoi libri fondamentali, Storia universale dell’infamia, trasuda dell’influenza di Marcel Schwob.
JLB: Benché l’idea portante di Vite immaginarie di Schwob mi parve stupenda fin dal primo momento, quando mi accostai al libro con una lettura attenta mi sentii, se vogliamo, deluso; lo stesso accadde a Bioy Casares, nemmeno lui riuscì ad arrivare alla fine. Eppure, nonostante questa lettura mi sia costata tanta fatica, l’idea portante del libro cominciò a interessarmi fortemente. Pensai che con quest’idea si poteva fare di meglio. L’atmosfera generale del libro di Schwob ha ispirato senza dubbio Storia universale dell’infamia.
NS: A trent’anni, mi pare, l’idea della morte ammette soltanto una domanda: qual è il senso della vita? Che succede a settant’anni?
JLB: È da un po’ di tempo che provo a scrivere una poesia su questo tema. Potrei parlarle, a grandi linee, della serenità che arriva con la vecchiaia, di questa placida rassegnazione che comprende anche la tristezza, ma in un modo completamente diverso. A trent’anni, questo sì, coltivavo disgrazie, avevo bisogno di essere ogni giorno più sfortunato, più profondamente sfortunato. Ormai tutto questo non ha più senso per me.
Dopo Borges, inaspettatamente entusiasta, parlerà di Invasión, un film in attesa di essere presentato a Buenos Aires, e che avrebbe abbozzato «proprio su questo tavolo» in collaborazione con Bioy Casares. In Invasión, tra le altre cose, viene cantata la sua milonga del condannato a morte, con il sottofondo musicale del leggendario Aníbal Troilo: «Pensi che due giorno dopo averla composta, Hugo Santiago, il regista del film, mi disse che avrebbe messo alla milonga la musica di Troilo; e io gli domandai “A quale milonga?” perché me l’ero dimenticata. Le milonghe trattano temi popolari e, dal punto di vista metrico, utilizzano l’ottosillabo; a me escono con una tale facilità che una volta composte le dimentico quasi all’istante». Quest’anno, oltre a tradurre Walt Whitman insieme alla moglie e di dare alle stampe un libro di poesie, ha in preparazione un’altra idea cinematografica: Gli altri, di taglio prettamente fantastico. L’azione è ambientata in una libreria di calle Corrientes vicino Rodríguez Peña. Borges si alza in piedi e controlla l’orologio: il mondo, sfortunatamente è reale; lui, sfortunatamente, è Borges.
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