In occasione dell’uscita di I fantasmi, di César Aira, per le Edizioni SUR, pubblichiamo un intervento dell’argentino Luciano Lamberti uscito originariamente sul n. 18 della rivista online «Fe de ratas».
di Luciano Lamberti
Traduzione di Violetta Colonnelli
La prima volta che sentii parlare di Aira me lo presentarono come “un bravo scrittore”. Uno scrittore, mi dissero, “che è a suo agio tanto nella saggistica quanto nella narrativa”.
Dopo, grazie alla mia personale esperienza, ho scoperto che Aira era qualcos’altro, anche se non avrei saputo dire cosa: qualcosa di più vicino a uno di quei mostri ibridi che il Sudamerica in generale (e l’Argentina in particolare) ogni tanto vomita, frutto di chissà quali incredibili fusioni, chissà quali miscugli che solo questo maledetto continente è capace di creare. Per chi non lo sappia:
Uno: César Aira è nato nel 1949 a Coronel Pringles, e attualmente vive a Buenos Aires facendo traduzioni [in realtà ha smesso da qualche anno; ndr.].
Due: Aira pubblica, pubblica romanzi, ogni due mesi, pubblica tre o quattro romanzi all’anno, e pubblica, Aira, per diverse case editrici: piccoli marchi, case editrici di quartiere, Tusquets.
Tre: quelli di César Aira sono romanzi imperfetti, leggermente malati, o molto malati. Romanzi il cui finale di solito lascia parecchio a desiderare. Romanzi, nella maggior parte dei casi, che in qualche punto esplicitano la teoria su cui poggiano (come nelle “traduzioni” di El Congreso de Literatura (1997) [dove il protagonista, uno scrittore e scienziato specialista in clonazioni, partecipa a un congresso letterario e per l’occasione decide di clonare Carlos Fuentes, con l’obiettivo di conquistare il mondo con un esercito di intellettuali. La clonazione da vita a scene e situazioni verosimili che lo stesso narratore chiama “possibilità di traduzioni” o “traduzioni”; ndr.]). Nouvelles che Aira scrive e pubblica, scrive e pubblica (si dice siano trentuno, ma non è un dato sicuro, pubblicate da sedici case editrici diverse [attualmente siamo sulla settantina; ndr.]), quasi come fosse un allenamento, e senza perdere tempo a correggere. Scrive e pubblica, scrive e pubblica, il maniaco Aira. Scrive e pubblica. Romanzetti che crescono come mostri nei supermercati, nelle stazioni di servizio, nelle librerie, nelle grandi librerie, in qualsiasi libreria. Mostri che i critici tentano di cacciare, disperatamente, prima di accorgersi che sono troppi e che li stanno per assalire.
Stando così le cose, questo articolo ha il fine di smentire una delle caratteristiche che si attribuiscono a César Aira: essere uno scrittore. No. César Aira non è uno scrittore.
Naturalmente non sto dicendo che i mostri che Aira ogni tanto ci lascia non siano letteratura, opinione questa che ha smesso di essere attuale da duecento anni. Se lo siano o no, non me ne frega un cacchio. Sto dicendo che quell’ometto sorridente, dagli occhiali anni ’70, non è uno scrittore; il che non è lo stesso, in fin dei conti.
Una delle opinioni più diffuse è che Aira con la sua opera la faccia finita con una certa concezione borgesiana della letteratura. Per quanto riguarda il “lavoro” di scrittore, possiamo essere d’accordo: niente è più lontano dalle infinite correzioni borgesiane che la pubblicazione di un romanzo ogni tre mesi. Invece per certe tematiche che la letteratura di Borges presenta o rinnova, no. Il progetto di Pierre Menard (che scrive: “non v’è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile”) sembra essersi realizzato in César il Dispettoso: entrambi sono più in là o più in qua della letteratura, mai dentro di essa.
Un altro di quei meravigliosi deliranti, che ha creato Borges, che ha creato Pierre Menard, che ha creato César Aira, è Macedonio Fernández.
Nessuno pensa a quel vecchietto eccentrico come a uno scrittore, di quelli che scrivono eleganti volumi per ottenere il beneplacito degli amici e dei critici avidi di “opere complete”.
Aira scrive un romanzo, nel salotto di casa sua [a suo dire, però, li scrive al bar; ndr.]. Aira prende le bozze, le porta in casa editrice. La casa editrice gli pubblica il romanzo; Aira lo presenta in pubblico, ci sono bicchieri di vino e allegria. Il libro arriva sugli scaffali, da dove un critico lo prende con disperazione e impotenza, se lo porta a casa e scrive un altro articolo sulla letteratura di Aira, sull’argomento del libro e sulla sua composizione. Aira, a casa sua, apre il giornale e se la ride. Ancora una volta, prova il piacere di non essere capito.
Il fatto è che un critico per capirlo deve tirarsi fuori dalla letteratura, comprendendo quindi:
A) il “metodo” che questo giovanotto usa per la composizione del suo romanzo (metodo che non sempre ha a che fare con la letteratura).
B) il giovanotto che scrive nel salotto di casa sua, pubblica il suo romanzo e si presenta al pubblico, o apre il giornale seduto in casa, e se la ride. Nei suoi romanzi non c’è nessun segreto; i suoi romanzi non servono a niente. Dirò di più: valgono più come oggetti materiali (un insieme di fogli di carta raggruppati sotto un’illustrazione carina) che come romanzi nel senso classico del termine. Ciò che bisogna leggere in Aira è l’azione del pubblicare, che ha valore in se stessa. Aira non è uno scrittore: è un’artista concettuale. Non importa quello che pubblica, ma il metodo con cui l’ha fatto, e il dopo. Nel saggio intitolato “La nuova scrittura” Aira si fa una domanda che ogni scrittore di valore dovrebbe porsi: come è possibile continuare a scrivere dopo il romanzo realista (che si chiami Balzac, Flaubert, Zola), come non ripetere quei romanzi? Lui propone il lavoro dell’avanguardia come l’unica uscita possibile di fronte a A) la professionalizzazione dello scrittore e B) il mito del “talento”, del “dono” letterario riservato a pochi. A cominciare da qui, si configura un diverso luogo da dove produrre arte, il luogo del procedimento. Dice Aira: “lo strumento dell’avanguardia, sempre secondo questa mia personale visione, è il procedimento. Secondo una visione negativa il procedimento è un simulacro sleale del processo per il quale una cultura stabilisce il modus operandi dell’artista; per gli avanguardisti è l’unico modo che rimane per ricostruire la radicalità costitutiva dell’arte. In realtà il giudizio non importa. L’avanguardia, per sua stessa natura, comprende lo scherno, e lo rende un elemento in più del suo lavoro” (questo mi ricorda un’intervista con dei giornalisti spagnoli dove Manuela, una delle intervistatrici, dice ad Aira: “ho appena finito di leggere Il Mago e mi ha un po’ deluso… come se non avesse saputo come finirlo”. E Aira le risponde, magistralmente: “Condivido la delusione. I finali sono il mio punto debole. Sono preso dall’impazienza, lo sconforto, voglio finire il prima possibile”. Insomma: qualcuno che inviterei volentieri a mangiare un asado).
Per dare un esempio di quanto detto prima, Aira cita il caso di John Cage, il quale componeva le sue opere in base agli esagrammi dell’I Ching, vale a dire, in base a una sorta di metodologia del caos. Quelli che non hanno avuto il “dono” della letteratura o dell’arte, fabbricano procedimenti, non opere. L’opera è la cosa meno importante, non è neanche necessario che appaia. Arte concettuale, Johnny.
“Quasi immediatamente, la realtà ha ceduto in più punti. Quel che è certo è che anelava di cedere”, scrive Borges.
Con Aira si potrebbe dire: quasi immediatamente il sistema letterario ha ceduto in più punti. Con quei critici, così imprescindibili, che nella maggior parte dei casi non fanno altro che esibire le proprie letture (essere in vuol dire leggere i decostruttivisti e citarli nel bagno delle donne), con le sue orde di scrittori impacchettati, col suo ridicolo, il suo vecchio ridicolo, il Grande Ridicolo della Letteratura, il sistema letterario aspirava a cedere. La “macchina” Aira sputa allegramente sulla pacatezza che accompagna i soliti incontri (premi letterari, conferenze letterarie, supplementi letterari). Ci ritroviamo tutti, o almeno dovremmo, un po’ imbarazzati a causa di questo signore che, con umorismo, ci mostra quanto siamo ridicoli. E non sto parlando dell’umorismo dei suoi libri, ma dell’atto di Aira, incredibilmente umoristico, di stare seduto nel salotto di casa sua a scrivere un altro romanzo…
Potremmo dire di lui ciò che ha detto Ricardo Piglia: i grandi scrittori sono quelli che cambiano il modo di leggere. Se Aira non è uno scrittore, non esiste un altro scrittore come Aira, dove l’arte rompe i limiti dell’opera stessa e va a stare un po’ più in la o un po’ più in qua.
Aira si espande con la voracità di un tumore, e persiste.
Persisterà.
Ave César.
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