Pubblichiamo oggi la recensione di Francesca Lazzarato a «Scene di una battaglia sotterranea», di Rodolfo Fogwill, comparsa sul «manifesto» il 16 novembre, ringraziando la testata e l’autrice. Ricordiamo che qui si può leggere un altro intervento della Lazzarato sullo stesso romanzo, scritto in occasione della sua riedizione in Argentina.
di Francesca Lazzarato
Si chiamava Rodolfo Enrique Fogwill (Quique, diminutivo infantile, per gli amici più stretti), ma a un certo punto della sua vita e precisamente nel 1985, quando pubblicò Pajaros de la cabeza, il settimo dei suoi ventidue libri, diventò Fogwill e basta. Da raffinatissimo editore qual era, aveva deciso che i suoi nomi di battesimo rovinavano l’equilibrio della copertina: e da quel momento il suo cognome diventò non solo una firma, ma un marchio di fabbrica. Nell’agosto del 2010, quando morì per un cancro al polmone alla soglia dei settant’anni, era Fogwill da almeno un quarto di secolo, e ai suoi lettori di lingua spagnola sembrerebbe senz’altro curiosa la copertina di Scene da una battaglia sotterranea (Sur, pag. 167, euro15) in cui appare il suo nome di battesimo.
Che lo si chiami in un modo o nell’altro, l’importante è che Fogwill si possa finalmente leggere in italiano (la traduzione, eccellente, è di Ilide Carmignani) e proprio a partire dal suo romanzo più famoso, forse il migliore e il più significativo tra quelli che riguardano il conflitto delle Malvine, scritto in pochissimi giorni dall’inizio della guerra.
Il titolo originale è Los pichiciegos, nome con cui si autodefinisce un gruppo di soldati argentini catapultati su un’isola gelida per combattere un nemico che non riescono a vedere, e che si nascondono come i minuscoli armadilli albini (per l’appunto i pichiciegos) che scavano lunghe tane sotterranee nelle pampas argentine. Preoccupati solo di sopravvivere, ammucchiare provviste, sfuggire al combattimento, i soldati si organizzano in una piccola, feroce comunità che sembra riprodurre le dinamiche e le gerarchie dell’esterno. E i pochi che torneranno a casa dopo la sconfitta resteranno segnati per sempre da quel crudelissimo “gioco a nascondere”, ma anche dall’aver condotto una guerra interna che miniaturizza ed esaspera quella imposta dalla dittatura. Una guerra, dice Carlos Gamerro (anche lui autore di un bel romanzo sulle Malvine, Las Islas), che da subito fu finzione, racconto: “Fogwill scrive durante i fatti; anzi, scrive prima dei fatti. Dopo, i fatti vennero a confermare quello che lui già aveva scritto”.
Libro che ha segnato un’epoca e che è impossibile ignorare, Los pichiciegos è una delle espressioni migliori della prosa energica, gridata eppure musicale, di Fogwill, che come Aira è stato fortemente influenzato da Lamborghini (il suo Help a el versione porno-infernale dell’Aleph borgesiano, ne è la testimonianza più evidente), e come lui personaggio estremo, eccessivo, capace di vivere più vite in una sola: un uomo di immensa cultura che era stato via via proprietario di una grande agenzia pubblicitaria, professore universitario, editore di straordinario livello, truffatore condannato e incarcerato, poeta fuori del comune, scrittore audace. In pubblico indossava l’abito di una irridente sgradevolezza, si burlava del mondo proclamandosi contrario all’aborto e al divorzio (lui, che si era separato tante volte), alla legalizzazione della droga (lui, che per diciassette anni aveva speso una fortuna in cocaina) e perfino negazionista: tutte idee, assicura chi lo conosceva bene, che in realtà non condivideva, e la cui enunciazione corrispondeva alla sfida rabbiosa di chi rovescia il tavolo con tutto quello che c’è sopra. E la sua maschera mefistofelica e ipersessuata, la sua furia iconoclasta, travasate in libri furenti e provocatorii, finiscono allora per sembrare il gioco cattivo di qualcuno che ha deciso di dilapidare sé stesso per diventare mito.
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