In attesa che arrivi anche in Italia The End of the Tour, il film su David Foster Wallace tratto dal libro di David Lipsky Come diventare se stessi, pubblichiamo una recensione originariamente apparsa sulla Los Angeles Review of Books. Ringraziamo l’autrice.
di Anna Shechtman
traduzione di Assunta Martinese
In un articolo apparso nel 1959 sulla rivista The Nation, George Steiner coniò l’espressione «Industria Salinger»: un’improvvisa proliferazione di scrittori, giornalisti e accademici che dedicavano monografie, recensioni e pagine delle più prestigiose riviste americane al laconico autore e ai suoi scritti (che all’epoca ammontavano a poco più di 500 pagine). Il saggio di Steiner cavalcava il violento rigurgito anti-Salinger. All’inizio giustiziere dei «fasulli» e apostolo delle masse disincantate, poi santo nel canone letterario americano, Salinger era diventato l’emblema dello scrittore sopravvalutato, letteratura a buon mercato per chi voleva darsi un tono. Joan Didion giudicava Franny e Zooey un manuale di autoaiuto pseudointellettuale: «Pensiero positivo per la media borghesia […] Raddoppia le tue energie e liberati dalla stanchezza per le studentesse del Sarah Lawrence». Mary McCarthy definì le opere di Salinger un «circuito chiuso» che lega gli inclusi che si sentono esclusi in un ciclo autolubrificante di adulazione e disagio. Ma l’articolo di Steiner non era solo un attacco a Salinger, l’aprite il fuoco sul circuito chiuso dell’autore, era un attacco all’intera Industria Salinger: «La critica letteraria americana è diventata una macchina imponente con un bisogno costante di nuove materie prime […] Non c’è mai stata, né può esserci, buona letteratura in quantità sufficiente a far fronte a un’industria della critica così massiccia e seria». L’impennata degli studi umanistici della metà del Novecento, e il surplus di riviste accademiche, borse di studio e contratti editoriali che ne era derivato, avevano trasformato il campo della critica – che Steiner vedeva come una meritocrazia della mente – in un’azienda.
Ora che l’Industria Salinger è in declino da anni, l’enorme macchina della critica letteraria – che nell’era multimediale è meno circoscritta ma altrettanto insaziabile – ha trovato in David Foster Wallace una nuova materia prima. Dal suicidio di Wallace nel 2008, dodici monografie, un adattamento cinematografico e innumerevoli articoli sulle riviste accademiche e su quelle generaliste hanno gettato le fondamenta per l’esplosione dell’Industria Wallace. In effetti la scrittura di Wallace, come quella di Salinger prima di lui, ha sortito effetti extra-letterari. Non ne hanno fatto soltanto un canone, ne hanno fatto una sigla. Per un certo codazzo di lettori – per lo più bianchi, per lo più maschi – nella gerarchia degli autori le cui opere hanno dato origine a un nuovo sguardo sul mondo, D.F.W. si colloca perfino al di sopra di P.T.A. (Paul Thomas Anderson) e B.E.E. (Bret Easton Ellis).
Lo stile personale e letterario di Wallace incoraggiava un seguito di questo tipo. Autodefinendosi un «esibizionista egoista e incredibilmente timido», si scagliava contro i crimini dei suoi padri letterari, opponendo al sessismo dei «Grandi Maschi Narcisisti» (Updike, Mailer, Roth) una carnalità autodenigratoria, e contrastando la superficialità dei Grandi Maschi Postmoderni (Pynchon, DeLillo, Barth) con una «Nuova Sincerità» intessuta di ironia. Inoltre, Infinite Jest e l’incompiuto Re pallido sono imperscrutabili pur traboccando di informazioni, con le celebri note a piè pagina che fungono, al contempo, da mattoni gialli del sentiero di Oz e falsi indizi di un depistaggio, inseriti per far lavorare la testa del lettore. Wallace chiedeva ai lettori di partecipare e – a giudicare dalle ristampe e dalle librerie degli studentati – ci riusciva quasi sempre.
Tuttavia, a differenza del circuito chiuso tra lettore e scrittore creato da Salinger, i testi formalmente così ingombranti di Wallace (e la sua morte prematura) sembrano lasciare aperta la loro eredità (e quella dell’autore). Le opere di Wallace andrebbero lette come i vermi fossilizzati dettagliatamente descritti nell’incipit del Re pallido, i cui «minuti solchi evacuati a schiera e spire inserte […] non si richiudono perché la testa non tocca mai la coda». Ma l’Industria Wallace, il cui ultimo prodotto è il «biographical drama» The End of the Tour, ha chiuso quello che in teoria era il circuito aperto tra Wallace e i suoi lettori, facendo apparire la vita e le opere dell’autore più leggibili e lineari di quanto avrebbe mai fatto lui. E, cosa forse più importante, ha chiuso il circuito tra l’Industria Wallace e le industrie che hanno creato Wallace: l’accademia, il giornalismo, e ora il cinema indipendente.
Diretto da James Ponsoldt, The End of the Tour si basa fedelmente su Come diventare se stessi, il bestseller di David Lipsky uscito nel 2010. Il libro di Lipsky è essenzialmente una trascrizione delle interviste a Wallace registrate nel 1996, alla fine del tour promozionale di Infinite Jest. Lipsky all’epoca scriveva per Rolling Stone. Il film costituisce una traduzione cinematografica di quelle interviste, con Jason Segel nel ruolo di Wallace e Jesse Eisenberg in quello di Lipsky. Sono entrambi tremendamente convincenti, ma in fondo i ruoli non gli erano del tutto estranei: Segel interpreta un protagonista impacciato e bromantic, mentre Eisenberg è un ragazzo timido, un po’ sfigato e completamente devoto alla causa. Chi ha letto il libro di Lipsky saprà che l’esistenza di The End of the Tour era predestinata (perfino «meta») quanto la scelta degli attori che ci recitano. Nella prefazione al libro, Lipsky paragona i giorni trascorsi in viaggio con Wallace a un road movie, e il proprio libro a un dvd, nel quale le sue aggiunte sono «la traccia audio col commento» nel director’s cut. I fan di Wallace e di The End of The Tour si meritano una simile meta-produzione. Ironico, no?
Eppure il carburante dell’Industria Wallace e del suo ultimo prodotto non è l’ironia, ma la sincerità. La Nuova Sincerità. Questa è l’espressione – introdotta da Adam Kelly, un esperto dell’Industria Wallace – che è arrivata a definire i principi letterari di Wallace. Derivata da un saggio del 1993, «E unibus pluram», nel quale Wallace esprime la sua celebre invocazione a «principi privi di doppi sensi» nella narrativa, la Nuova Sincerità è un letterario Ritorno all’Ordine, che supera l’umanismo di metà secolo e la giocosità postmoderna per sintetizzarli in una dialettica di Realità americana. È un genere di sincerità che ha permesso a Wallace, nonostante conoscesse alla perfezione Althusser e Derrida, di dichiarare più e più volte che «la letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano». Si dice spesso che a raccogliere l’esortazione di Wallace alla sincerità letteraria siano stati scrittori come Jonathan Franzen, Dave Eggers, Jonathan Safran Foer e Jeffrey Eugenides, i cui testi flirtano con il letteralismo (e a volte con il realismo) mentre pungolano le corde più intime di laureati vagamente insoddisfatti.
L’industria cinematografica indipendente, che dal 2002 in poi è stata ridefinita dall’ascesa del mumblecore, ha anch’essa captato una versione dell’appello di Wallace, promuovendo un’estetica naturalistica, da tranche de vie, che preferisce il candore alla creatività narrativa, e le emozioni alle azioni. Sebbene Ponsoldt non si definisca un regista mumblecore, The Spectacular Now del 2013, il suo primo film ad avere una distribuzione mondiale, ne tradisce la fedeltà a quell’estetica. E anche The End of the Tour in fase di promozione non è stato presentato come un «biopic» di David Foster Wallace, bensì come qualcosa di simile a «uno spaccato di biopic», una definizione che fa molto mumblecore.
In effetti, quasi tutti i dialoghi del film scaturiscono dalle trascrizioni delle interviste di Lipsky: quella fetta della vita di Wallace di cui l’autore aveva fatto parte. Ma, adeguandosi al realismo minimalistico di un film mumblecore, Ponsoldt sacrifica le innovazioni formali presenti nel libro. Lipsky fornisce al lettore sia una prefazione che una postfazione – collocandole entrambe prima delle trascrizioni dei nastri – nelle quali raccomanda di saltare direttamente al contenuto delle interviste prima di sapere in che contesto siano state registrate. Il film, invece, è costruito secondo una cornice narrativa nella quale le interviste, le scene del road movie, sono delimitate all’inizio e alla fine da scene ambientate dodici anni dopo, quando Lipsky apprende del suicidio di Wallace. In questo modo, nell’andamento narrativo del film la postfazione scritta di Lipsky viene dopo, neutralizzando in partenza le molteplici modalità di lettura che il libro, e la stessa scrittura di Wallace, promuovevano.
Tuttavia il film e il libro hanno qualcosa in comune: l’idea che esista una connessione sincera tra gli esseri umani, resa possibile proprio da quella tecnologia che sembrerebbe impedirla. È questo l’aspetto della Nuova Sincerità che mette d’accordo Wallace, Lipsky e il cinema indie. Per esempio, all’inizio di The End of the Tour, subito dopo avere appreso la notizia della morte di Wallace Lipsky va a cercare i nastri delle interviste che aveva riposto in un armadio e li riascolta. Un primo piano sul mangianastri (analogico) – e la voce di Wallace che risuona dall’aldilà – innescano una dissolvenza digitale che riporta a dodici anni prima, quando Lipsky sente parlare per la prima volta di Infinite Jest in un’entusiastica recensione del New York Magazine. Il ruolo del registratore di Lipsky – il fatto che sia presente nelle cene con Wallace e assente nelle lezioni di scrittura creativa, durante le quali a Lipsky è consentito prendere appunti ma non registrare – è mettere in scena la precaria possibilità di un legame interpersonale a dispetto della mediazione tecnologica. Impossibile non pensare a Infinite Jest, nel quale il cinema indipendente e i nuovi media vengono utilizzati come strumenti sociali e narrativi comici ma letali. In realtà il titolo del libro non fa riferimento solo ad Amleto, la radice dell’interiorità umanistica, ma anche a un film sperimentale girato da uno dei numerosi personaggi del romanzo. Il potere di intrattenimento del film è tale che chi lo guarda perde interesse in qualsiasi altra cosa e alla fine, diventato dipendente da un film indipendente, muore.
La potenza emotiva della mediazione filmica – e delle relazioni intrattenute o dissolte tramite i mezzi tecnologici – costituisce anche l’instabile base sulla quale poggia buona parte del cinema indipendente. Potrebbe essere il motivo per cui le storie di molti film mumblecore parlano di aspiranti autori, registi o attori. Sono personaggi che, come direbbe Wallace di sé stesso, cercano di catturare il modo in cui sentiamo il mondo quando «la vita sembra una luce stroboscopica e ci bombarda di input». In sostanza, da John Cassavetes ai cosiddetti slack-avetes mumblecore, l’intento è quello di rappresentare non soltanto una fetta di vita, ma una fetta di vita reale vista attraverso l’occhio della cinepresa.
L’estetica della fetta di vita ha però in sé un problema ineludibile, ossia la fede nel potere universalizzante della sineddoche. Molti film mumblecore sono stati tacciati di non aver fatto caso, nei loro mormorii, al pericolo di incappare in discriminazioni di genere, razza e classe sociale, di aver rimpiazzato con la sincerità la sottigliezza e oscurato tutto lo spettro di differenze che una fetta di vita esclude dal suo universo. È la stessa critica che McCarthy indirizzava a Salinger e al suo mito: Salinger veniva considerato la voce della gioventù americana, ma la risonanza culturale originata dalla sua prosa non era tanto il boato sismico della Verità quanto il rimbombo delle voci di un gruppo di lettori e recensori maschi e bianchi che si parlano addosso. Critiche analoghe sono state mosse all’Industria Wallace, con Mark McGurl a guidare gli eserciti. Per McGurl, Wallace è un’icona di quella che lui chiama la «Program Era» [l’era dei master di scrittura, n.d.t.]. Figlio dell’accademia, studente e insegnante nei corsi di scrittura creativa, Wallace era un autore le cui opere affermavano con decisione le virtù umanistiche dell’Istituzione, a patto che se ne padroneggiasse la lingua, a patto di possedere tutti i requisiti per essere mediati con accuratezza e sincerità dal suo apparato tecnologico. In quest’ottica i «giustizieri di fasulli» di Salinger, gli slackers [fannulloni, n.d.t.] del mumblecore e gli americani inetti di Wallace possono essere visti come un’unica cosa. Hanno in comune il privilegio, maschio e bianco, del tentennamento, dell’esitazione e dell’assenza di responsabilità. Hanno in comune l’autorità, garantita dalle istituzioni, sul mormorio – un’autorità che sfila mascherata da autenticità.
The End of the Tour fa un rapido cenno all’omogeneità del pubblico di Wallace nella scena in cui Lipsky e Wallace sono sul ballatoio del Mall of America a Bloomington, Minnesota. Hanno appena guardato Broken Arrow, con John Travolta. Il film l’aveva scelto Wallace, che voleva vederne uno «con la roba che salta in aria». Osservando dall’alto il parco giochi del centro commerciale, lo «scrittore più discusso d’America» ammette di sapere chi sono i suoi lettori: «Una cosa che mi sembra di aver notato durante i reading è che quelli che sembrano più entusiasti e toccati dal romanzo sono i ragazzi maschi. E direi che lo capisco, a me sembra un libro abbastanza maschile, e abbastanza da nerd». Eppure la missione di Wallace, come quella del centro commerciale che lo circonda, è rappresentare l’America: «Considero preziosa la mia ordinarietà», dice Wallace a Lipsky, a dispetto della sua eccezionalità. Questo modo sincero di autoilludersi, dovremmo credere, è ciò che permette a Wallace di vivere e prosperare all’interno delle industrie che l’hanno creato.
Ma The End of the Tour trasforma l’impatto emotivo della sincerità di Wallace in un’affettazione del cinema indipendente contemporaneo. Debole e mormorante, un prodotto riciclato dal circuito editoriale di Wallace, fatto a fette e poi reimpacchettato, chiude il circuito tra Wallace, l’Industria Wallace e l’industria dei film indie. Come scrisse Wallace in una nota allegata al Re pallido: «David Wallace sparisce; diventa una creatura del sistema».
© Anna Shechtman, 2015. Tutti i diritti riservati.
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