È in uscita Blackstar, il nuovo album di David Bowie. Pubblichiamo un personal essay di Lauren Friedlander sull’influenza formativa di Bowie, originariamente apparso su Full Stop. Ringraziamo l’autrice.
di Lauren Friedlander
traduzione di Sara Sedehi
Sento una straordinaria intimità con Bowie, anche se so che è tutta una mia fantasia. So anche che è una fantasia condivisa, comune a un gran numero di devotissimi fan che non vedono Bowie come una rock star qualsiasi o come una somma di cliché mediatici su bisessualità e baretti berlinesi. Bowie è colui che ha reso la mia vita un po’ meno ordinaria per un arco di tempo spaventosamente lungo. — Simon Critchley, Bowie
Leggendo Bowie, il saggio di Simon Critchley dove l’autore pontifica in lungo e in largo sulla rock star eponima, mi è capitato di riflettere sul concetto di «fanatismo» applicato alla musica pop. Il Merriam-Webster fa risalire il termine fandom al 1903, settant’anni prima che la madre di Critchley portasse a casa una copia in vinile di Aladdin Sane perché ammirava la chioma arancione acceso di Bowie; cent’anni prima che io mi scribacchiassi tutto il testo di «Future Legend» con l’inchiostro color argento sulla cover del mio raccoglitore durante l’ora di Studi Sociali.
Critchley aveva vissuto in prima persona gli anni dell’ascesa e del declino di Ziggy Stardust, insieme a tutti gli altri figli sbandati degli anni Sessanta, che passavano il tempo bighellonando nei «merdosi sobborghi di Bromley, Beckenham, Billericay, Basingstoke, Braintree o Biggleswade». Aggiungete a questa lista anche il quartiere di Blue Valley a Kansas City (Missouri) trent’anni dopo Ziggy; io avevo dodici anni e avevo già consumato la videocassetta di Labyrinth ancora prima che la mamma mi regalasse la compilation Best of Bowie in formato cd. Tutte le mie insicurezze, le crisi d’identità, le scenate da melodramma e le danze sfrenate consumate in cameretta, dietro la porta chiusa della mia esecrabile adolescenza, si erano canalizzate in un’unica e sconcertante ossessione. La mia stramberia (più precisamente: il mio essere sempre a corto di amici) aveva finalmente un nome. Una faccia. Dei versi: «Let’s turn on and be not alone! / Gimme your hands! ’Cos you’re wonderful!» [«Apriti con me e non sarai solo! / Dammi le tue mani perché sei meraviglioso!»] E un guardaroba da urlo. Laggiù tra le mega-chiese del Midwest e i lotti ancora in costruzione, la mia ossessione si era cristallizzata in una perla segreta.
Sull’autobus diretto a scuola sparavo «Teenage Wildlife» a volume altissimo nelle cuffie metalliche collegate al Discman della Sony. Il cd saltava sempre nello stesso punto: «So you train by sha– –xing / search for the truth» [«Così ti eserciti a lotta… …le ombre / cerchi la verità»], perché non potendomi permettere di comprare da Borders la versione rimasterizzata, l’avevo preso in prestito da un’enorme biblioteca lontanissima da casa.
Un giorno, in terza media, mi sono avvicinata a un gruppo di amiche accanto agli armadietti, e una di loro era giù di morale perché aveva appena rotto col fidanzatino di turno. Così ho ripetuto alcuni versi di «Time» da Aladdin Sane: «Breaking up is hard / but keeping dark is hateful» [«Lasciarsi è difficile / ma vivere nel buio è odioso»]. Le altre ragazzine sono rimaste lì a fissarmi con aria adorante, mentre io meritavo solo di essere presa a calci nel culo da tutti gli abitanti della mia contea. Bowie agiva come uno scudo di superiorità quando mi rendevo conto di aver detto una cretinata, quando mi tagliavo i capelli in modo cretino, o quando camminavo con un’andatura da cretina. Ero una ragazzina saggia, grazie a quella perla bizzarra che risplendeva dei colori di Bowie. Guardavo i compagni di classe intorno a me: «Quello lì non ci capisce niente. Quell’altra non l’ha mai vissuta sulla sua pelle. Nessuno sa quello che so io». Nessuno conosceva la Creatura. L’Oracolo.
Il nucleo tematico di Critchley in Bowie è l’inautenticità costruita e radicalmente impacciata del personaggio. Durante gli anni Settanta, Bowie aveva sfornato tredici dischi, tutti diversissimi tra loro. Era rimbalzato da un ruolo all’altro: da capellone hippie a forma di vita aliena a compositore ispirato all’apocalittico 1984 a soul man dagli occhi azzurri a fanatico neonazi strafatto di coca a recluso berlinese, cambiando pelle e indossando una maschera dopo l’altra, in un turbine di sfarzosità e gretto realismo. La valenza che Critchley conferisce al termine «inautenticità» non è negativa; scrive: «Il genio di Bowie risiede nell’invitarci a recidere quel legame superficiale che solo in apparenza unisce autenticità e verità». Secondo Critchley, l’autenticità è «la maledizione della musica, dalla quale noi tutti dobbiamo guarire. La falsità [di Bowie] non ha niente di fasullo, viene anzi posta al servizio di una verità tangibile e intensamente sentita». Una verità che, con tutta evidenza, ha fatto breccia nel cuore di milioni di fan in tutto il mondo, e che Philip Auslander spiega come una reazione alle «sistematiche e impacciate metamorfosi del personaggio» che Bowie attuava repentinamente per «adattarsi alla costante evoluzione delle definizioni dell’autenticità nel rock».
In un tempo in cui io per prima mi sentivo una nullità, una montatura, ho capito che avrei potuto reinventarmi alla stessa velocità di Bowie (ecco, magari senza la parte della fascinazione per Hitler) perché la mia identità era come quelle fontanelle sulla testa dei neonati: qualcosa che era in procinto di prendere forma.
Nei periodi migliori avevo al massimo tre amiche, e di certo quando ero con loro non ci si curava di glam rock e di tematiche legate all’identità di genere, ma al limite di cibo cinese da asporto e romanzetti rosa in stile Heather Graham, che riempivamo di ridicole note al margine in corrispondenza di espressioni del tipo «il suo turgido bastone», «la sua fessura palpitante» e via dicendo, come se fossimo una sorta di Club del libro per signorine molto volgari. Ogni tanto riuscivo a convincere la mia amica Ellen a mettere su la colonna sonora del Destino di un cavaliere, che conteneva «Golden Years», durante uno dei nostri giri senza meta a bordo della sua Chevrolet Suburban.
Di solito però mi rintanavo in camera mia e passavo le ore a disegnare l’impercettibile collinetta sul setto nasale di Bowie e le sue dita affusolate, sbirciando qua e là la sua fotografia scolorita, per via del toner in esaurimento, per poi lanciarmi nei miei primi (e fortunatamente anche unici) esperimenti di arte astratta, quando mi sporcavo le dita col kajal e scribacchiavo la frase «Zane ouvre le chien da «All the Madmen» sugli spazi vuoti dei fogli ruvidi schizzati al carboncino (era una CRITICA alla SOCIETÀ).
Avevo ancora molto da imparare sulla mia imperfezione, ma soprattutto avevo ancora molto da imparare sull’arte e sulla filosofia, nonché sulle feste organizzate da Shakey che «andavano avanti tutta la notte», sulle «tigri sulla vaselina», sulle «stazioni della Via Crucis» e i riferimenti ad Aleister Crowley e sulle tricoteuses di cui cantava Bowie. Le sue influenze diventarono le mie, e finirono con l’includere l’amore per Bolan, il butoh, Brecht, Brian Eno e Bryan Ferry, l’androginia, i montgomery con gli alamari e i capelli arancioni.
Per fortuna che già da qualche tempo esisteva internet. Vi si trovava un’infinità di foto rare e bootleg dei concerti, e presto ho iniziato a curiosare nei forum su Bowie di www.teenagewildlife.com, dapprima senza contribuire, poi azzardando qualche timido post che firmavo con l’elegante e provocatorio pseudonimo di «jareth13». TW, come veniva chiamato il sito dagli affezionati, ospitava pagine di fan fiction e approfondimenti, testi sempre aggiornati dei brani di Bowie e oscure B-sides, discussioni più tangenziali che spaziavano dai Placebo a Robyn Hitchcock, nonché una perenne ombra di ostilità gettata contro i nemici giurati di TW: quelli di Bowiewonderworld.com.
Visitando il forum di Teenage Wildlife per la prima volta dopo più di un decennio, mi accorgo che non è cambiato praticamente nulla. Adam, lo storico moderatore, è ancora lì, e con una manciata di altri username che riesco a riconoscere ha aperto una discussione sul tema dell’autoriflessività nell’opera di Bowie. Un tizio millanta di aver messo in vendita il Chupa Chups che era finito nell’occhio di Bowie durante un concerto del 2004. Entusiasmo generale di fronte alle voci trapelate riguardo a una possibile partecipazione di Bowie alla prossima stagione della serie Hannibal. Quel vecchio interfaccia, insieme ai caratteri in Arial e a quella combinazione di colori tanto familiare, mi fanno sentire subito a casa; dopotutto, è qui che tanto tempo fa avevo aperto una discussione ponendo la seguente domanda: «Ma il testo di “Station to Station” dice “Making sure, white stains”, con “sure” inteso come aggettivo, oppure dice “making sure white stains” senza la virgola, come se fosse assolutamente sicuro che quel bianco si macchierà?» Ai tempi avevo ottenuto 0 risposte.
La manipolazione e la premeditazione, i termini di cui si serve Critchley per definire l’indefinibile Bowie, sono le componenti che più di tutte mi avevano avvicinato a lui. Dalle riprese originali del famoso documentario di D.A. Pennebaker che mostra l’ultimo concerto di Ziggy Stardust, traspare una forte dose di premeditazione, nel make-up luccicante, nei vari strati di ombretto stesi intorno agli occhi infossati di Bowie, nonché nel suo incedere con eleganza sul palco, stretto in un kimono succinto, in quello stendere un braccio in avanti, ruotando la testa e infine inginocchiandosi con lo sguardo rivolto alle stelle. Nel dilettantesco videoclip di «Heroes» Bowie ha ancora un’aria impacciata nonostante i dieci anni di carriera alle spalle, esita davanti agli attacchi di strofa e sembra non sapere bene dove mettere le mani, il tutto mentre una luce intensa filtra dalla sua zona bikini.
Studiavo ogni movimento.
Anche ai tempi del college preferivo essere taciturna e camaleontica: «Non riesco a decifrarla» era per me un complimento di altissimo calibro. Volevo essere indecifrabile, ma anche che gli altri si interrogassero su di me: insomma, che il mio mutismo li spingesse a credermi una tipa misteriosa ai limiti dell’angosciante, ma non certo una ritardata. Questo per darvi la misura della mia vanità. Essere una fan accanita di Bowie mi aveva portato a ficcanasare in una vita che era molto più audace della mia, più perversa, più tosta e più irrequieta. Critchley afferma: «Esiste un mondo di persone che considerano Bowie come l’essere che gli ha permesso di stabilire una potente connessione emotiva, che ha nutrito il loro intelletto e li ha trasformati in qualcosa di diverso e più libero, più queer, più schietto, sensibile e stimolante». Il mio fidanzatino del college sosteneva che quando camminavo sembravo un musicista glam rock intrappolato in una felpa in pile della Old Navy. Una volta, nello sforzo di fargli capire chi ero, o almeno chi pensavo di essere, gli ho fatto ascoltare tutto Station to Station a mo’ di spiegazione, mentre ce ne stavamo in religioso silenzio nella mia stanzetta di dormitorio, sdraiati sui due lettini singoli uniti dalla mia vecchia trapunta con le decorazioni di Beatrix Potter. (Quando poi quello stesso ragazzo scoprì la cocaina, provò a convincermi di quanto la coca avesse giovato alla creatività di Bowie verso la fine dei Settanta, quando campava solo e unicamente con una dieta a base di latte, cocaina e peperoni, poiché era convinto che delle streghe cattive stessero cercando di rubargli il seme. Di sicuro io avrei capito!)
Poi finalmente, al terzo anno di università, ho letto il saggio di Susan Sontag Note sul camp durante un corso di Teatro d’avanguardia. E così ho cominciato a capire perché ero stata attratta da Bowie come una falena dalla luce artificiale. Sontag afferma: «L’essenza del camp consiste nell’amore per ciò che è innaturale, per l’artificio e l’esagerazione. E il camp è esoterico, è qualcosa di simile a un codice segreto, un “cartellino identificativo” valido all’interno di piccole cricche urbane [nel mio caso, internet]». Con Ziggy Stardust, Bowie prefabbricò un personaggio di finzione dalla forte aura esoterica che aveva già all’attivo un bel seguito di fan finzionali, ai quali si sarebbero poi aggiunti quelli in carne e ossa, una miriade di adepti strafatti di eroina che si aggiravano nei dintorni dell’Hammersmith Odeon con il mullet in testa e le zeppe ai piedi: il famoso «cartellino identificativo» di quella «piccola cricca urbana». Suzanne Rintoul ribadisce il concetto nel suo articolo intitolato «Loving the Alien», su Bowie e la sua scelta deliberata di costruirsi la propria potenza da rock star. Non c’è dubbio che lui fosse pienamente conscio della manipolazione che si trovava alla base della creazione del suo personaggio: il brano «Star» («So enticing to play the part / I could play the wild mutation as a rock ’n’ roll star» [«È così allettante interpretare un ruolo / Potrei fare una mutazione repentina da star del rock ’n’ roll»]) apre la strada a «Starman» («There’s a starman waiting in the sky / He’d like to come and meet us / But he thinks he’d blow our minds» [«In cielo c’è un uomo delle stelle che aspetta / Vorrebbe venire a trovarci / Ma pensa che potrebbe impressionarci»]). Era in atto un vero e proprio piano d’azione, che di lì a poco sarebbe esploso in un fenomeno di dimensioni planetarie.
Philip Auslander integra le osservazioni di Rintoul precisando che «con la sua strategia di mutare identità, Bowie ha precorso quella svalutazione dell’autenticità nel rock, che secondo molti teorici sarebbe diventata una caratteristica della musica pop degli anni Ottanta: l’epoca dei videoclip musicali». Slittando da un punto di vista all’altro, cambiando il timbro e modificando il taglio di capelli, Bowie ha saputo interpretare un vasto repertorio di personaggi, senza però immedesimarsi in nessuno di loro. «Ashes to Ashes», un brano del 1980, richiamava «Space Oddity», del 1969, mentre nel video di «Love Is Lost», del 2013, si vede Bowie che passa in rassegna una serie di burattini molto realistici con le fattezze di tutti i suoi vecchi alter ego. La schiera di personaggi si avvita su sé stessa in una progressione da capogiro.
Anche se Rintoul considera l’autoriflessività di Bowie una «doppiezza problematica», io l’ho sempre percepita come un’affannosa ricerca dell’identità. L’identità, pensavo, equivale al Significato, e cosa c’è di più importante del Significato? Dunque, questa storia dell’«identità»… come si fa a raggiungerla? Magari facendo un patchwork frettoloso di varie influenze della cultura pop, che riportano tutte allo stesso, vanesio simulatore? «David, what shall I do? They wait for me in the hallway» [«David, cosa dovrei fare? Quelli mi aspettano all’ingresso»].
E lui risponderebbe: «Don’t ask me, I don’t know any hallways» [«Non chiederlo a me, io non conosco nessun ingresso»].
Quindi? Dove mi ha condotto tutto questo?
Critchley ha vissuto in prima persona sia l’apice creativo di Bowie durante gli anni Settanta che il suo patetico picco a fine anni Ottanta, quando il resto della musica pop era finalmente riuscita a raggiungerlo e lui – disgrazia delle disgrazie! – era diventato tremendamente noioso. Per mia fortuna riesco a giudicare il pressoché inascoltabile Never Let Me Down con una sorta di ironico distacco, grazie al caro vecchio trucchetto per il quale «Tragedia + Tempo = Commedia». Comunque, quando Critchley si iscrisse all’università, fu costretto a reprimere il suo amore per Bowie, o perlomeno per il Bowie di un tempo, visto che gli anni Ottanta avevano trasformato quell’esteta ascetico e cerebrale in un cascamorto viscido e allampanato con una gran cofana di capelli ossigenati in testa. Inoltre, in America Bowie non era mai stato al centro della stampa scandalistica come in Inghilterra, dove Critchley e tutti i suoi connazionali erano continuamente bersagliati della perversa ossessione mediatica nei confronti di Bowie, con giornalacci come The Mirror e il NME che, una settimana sì e l’altra pure, lo tiravano fuori nelle vesti di nazista nostalgico intento a fare il saluto romano, di maniaco sessuale che trascurava la madre, e via dicendo.
No, per quanto riguarda me e la mia sfera, lui si era solo allontanato un po’ dai riflettori per ripiegare su una confortevole vita domestica, aveva messo su casa a Soho con Iman e conduceva una vita tranquilla nei panni del vecchio David Robert Jones, modesto e con i piedi per terra. Il Reality Tour e il cameo all’interno del film The Prestige erano piaceri rari, e io ne pregustavo l’attesa e il godimento con la lentezza con cui Charlie Bucket assaporava la sua tavoletta di cioccolato Wonka. Quando Bowie è stato colpito in un occhio da quel lecca lecca, e in seguito si è sottoposto a un intervento di angioplastica, io mi sono lasciata cadere con fare melodrammatico sulla mia vecchia trapunta con le decorazioni di Beatrix Potter e ho pianto tutte le mie lacrime.
Questo succedeva intorno al 2004, poco prima che si spalancassero quasi dieci anni di silenzio radiofonico. Mentre io crescevo, e la vita sotto i riflettori di Bowie si faceva un dolcissimo ricordo, ho imparato a farmi strada nel mondo senza sentirmi più come un fantoccio in preda a mille e mille influenze intercambiabili, forse persino a ricucire, piano piano, le mie debolezze, senza bisogno di quella provvisoria toppa costituita dall’individualità per interposta persona, senza bisogno di aggrapparmi a lui e soltanto a lui per trovare il senso delle cose. A un certo punto questo tizio di nome Bowie, questa perla multicolore, aveva perso d’intensità: anche se continuavo a portarla in giro con me, non mi definiva più come un tempo.
E poi arriva il 2013. E BOOM! Porca di quella vacca, il lancio in gran segreto di The Next Day, con tanto di video, bonus tracks, listone su internet. Quiz online del tipo: «Che Bowie sei?» Quel giorno, invece di immergermi con devozione nelle singole tracce, assaporandone i testi da dietro la porta della mia cameretta, ho ascoltato l’intero album su Spotify mentre ero al lavoro, tra una pubblicità del «VANS WARPED TOUR 2014» e l’altra. Dal nulla, sono spuntate fuori intere legioni di fan su tutti i social, articoli pieni di ammirazione su blog e riviste, c’era chi recensiva il nuovo album, chi rifletteva su quello vecchio, e chi raccontava il proprio percorso con Bowie, che il più delle volte non era poi così diverso dal mio. Mi sono sentita come se il mio migliore amico stesse condividendo i fatti nostri con dei perfetti sconosciuti. La mia stanza segreta, custodita in solitudine per tutti quegli anni, cominciava a brulicare di turisti.
Si scopre che lui non era mai stato mio, fin dall’inizio.
Per gli adolescenti di tutto il mondo che si sentivano ancora incompleti, conoscere Bowie era stata la chiave di volta. Per chi vi parla, una persona teoricamente adulta ma che tuttora si sente un po’ incompleta, la strada è ancora lunga, e va percorsa in solitudine. «Bowie, con la sua capacità di reinventarsi illimitatamente», dice Critchley, «ci ha insegnato che la nostra stessa capacità di cambiamento è illimitata». E questo vale per ciascuno di noi, dodecaedri sfaccettati che sorridiamo e teniamo il muso e ghigniamo compiaciuti, da Marte a Potsdamer Platz. Questa debolezza è ancora lì, e c’è da dire che io non sono molto portata per l’ago e il filo.
«Quindi… cosa dovrei fare?»
«Non chiederlo a me».
Magari potrei limitarmi a rammendare qualcosa qua e là, potrei «girarmi e affrontare il cambiamento». E tutti noi possiamo cambiare. E cambieremo sempre.
© Lauren Friedlander, 2015. Tutti i diritti riservati.
Condividi