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Le macerie di Haiti

redazione Reportage, SUR

Il 12 gennaio 2010 un terremoto di magnitudo 7 Mw con epicentro a soli 25 km dalla capitale Port-au-Prince devastava lo Stato caraibico di Haiti. A tre anni di distanza non si conosce ancora il numero delle vittime, valutate in oltre 200.000. Ed è ancora piena emergenza, soprattutto sul piano sanitario. Due giovani ricercatori italiani, Fabrizio Lorusso e Romina Vinci, sono stati sul posto e ne parlano in un libro uscito recentemente, Le macerie di Haiti (L’Erudita, 2012), i cui proventi saranno devoluti all’Aumhod.

di Fabrizio Lorusso e Romina Vinci

Piano di lavoro
(Fabrizio Lorusso)

Per un paio di sere consecutive il maestro Evel Fanfan, così lo chiamano, ha spiegato a me e a Diego la storia dell’Aumohd. Ci ha parlato dei successi ottenuti in questi anni nella difesa delle persone incarcerate ingiustamente dalle corrotte autorità giudiziarie e dalla famigerata polizia di Haiti. Dopo la fondazione dell’associazione nel 2002, con il passare del tempo gli avvocati di questo gruppo, attivo soprattutto nei quartieri periferici, si sono occupati sempre più di casi gravissimi di violazioni dei diritti umani. Abusi commessi da forze di polizia e paramilitari che hanno dominato il paese negli ultimi cinque o sei anni, anche a causa del favore e delle macchinazioni della CIA e delle famiglie dell’establishment contrarie al progetto nazionale dell’ex presidente Jean-Bertrand Aristide. La serie di massacri di Grand Ravine ad opera della polizia haitiana e di gruppi  armati, finanziati dalle forze d’opposizione, rispondevano ad un chiaro obiettivo di annichilamento politico dei seguaci di Aristide. Ciononostante venivano presentati come forme di lotta alla delinquenza, un ritornello che spesso sentiamo ripetere da governanti, mezzi d’informazione e gente poco informata un po’ in tutti i paesi. Allo stesso modo le cosiddette rivolte popolari, che nel 2003-2004 portarono alla crisi istituzionale e alla successiva deportazione dell’ex capo si Stato haitiano, cacciato via con un sequestro express, sono cominciate dalla frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana grazie al patrocinio e alle armi degli agenti segreti statunitensi.

L’Aumohd è riuscita a far condannare e incarcerare 15 poliziotti implicati in quei fatti di sangue a costo della sicurezza di alcuni dei suoi membri. È per questo che ogni giorno vediamo entrare un losco guardiano, che sembra vestito da soladto della legione straniera, negli uffici della sede di Delmas 49. Si tratta di un poliziotto sornione e depistato che è la scorta assegnata dallo stato haitiano a Evel per garantire la sua incolumità. Non si fa vivo quasi mai e non parla questo tutore della legge, ma ufficialmente esiste ed opera. Insomma c’è, e quando si presenta gli si dà anche un piatto di riso e fagioli per ricordarglielo.

Clinica tra le macerie

Nuovo giorno e mondo nuovo. Oggi si spala a dovere. Evel organizza un gruppo di abitanti del quartiere per ripulire un’area di circa trenta metri quadrati occupata dalle macerie di un paio di case in rovina. Tutta la zona è in realtà una maceria in movimento, col suo grigiume di macerie, terra e mattoni. La sua gente è però pronta ad ascoltare, a organizzarsi e a lavorare, se si riesce a proporre e far intravedere una buona idea. Questo pomeriggio Evel ne regala una agli abitanti di Delmas 40. Si riuniscono e si lasciano sedurre dal suo sogno, dalla sua visione: riabilitare uno spazio che si sta lentamente trasformando in una fogna a cielo aperto, dove pascolano un paio di suini tutto il giorno, in un centro d’assistenza medica provvisorio ma efficace. Infatti, il personale medico di una delle cliniche del quartiere distrutte dal sisma di gennaio è disposto a riprendere le attività anche gratuitamente, se si trovano gli strumenti necessari per il lavoro, gli spazi, le medicine, un tendone e i supporti logistici del caso. Sono tutte donne le dottoresse e non possono stare a guardare.

Da una parte stiamo lottando per ottenere degli aiuti materiali dalle agenzie internazionali, obiettivo difficile che ancora oggi lascia in stand by tutto il progetto, dall’altra servono braccia per creare lo spazio. I vicini di casa, le donne, i bambini e anche alcuni passanti si uniscono al nostro sforzo per ripulire la strada e lo spazio destinato alla clinica. Il terreno verrà poi coperto da teloni di plastica che abbiamo già provveduto a reperire. Mentre iniziamo a lavorare con le pale, con le mani e le carriole, alcuni rasta in bicicletta ci salutano calorosamente e altri personaggi del quartiere all’apparenza minacciosi ci ringraziano in un inglese maccheronico, in francese o in creolo a seconda dei casi. A volte basta un abbraccio. Alcuni non muovono un dito, si avvicinano, salutando e ringraziando anche loro come fossimo io e Diego gli unici responsabili e dirigenti di quell’opera collettiva e dinamica. È un’impresa nata, in realtà, spontaneamente dopo un discorso infervorato del nostro amico Evel. Presto ci accorgiamo che vogliono solo chiedere se per caso ci sarà lavoro dopo la riattivazione della clinica e offrono i loro servizi per il prossimo futuro, senza fare molto per il presente. Non apprezziamo molto e continuiamo a lavorare.

Piano piano verso la una del pomeriggio raggiungiamo la clamorosa cifra di venti persone coinvolte nello sgombero, tutti sudatissimi sotto un sole che sferza frustate di fuoco inverosimili. Nel frattempo si attiva la solidarietà degli osservatori compassionevoli, quelli che guardano la fatica dei più, ma non vogliono rimanere inerti e allora comprano bibite fresche ai poveri spalatori. Un bambino raccoglie delle carte da gioco, sparse disordinatamente tra le rovine, e riesce a ricomporre un mazzo da poker completo mentre io dispongo ordinatamente su un muretto tutti gli oggetti ben conservati che recuperiamo per mantenere in qualche modo la memoria degli antichi padroni di casa. Ad ogni mattone che lanciamo lontano l’impressione è che le persone buttino via anche un pezzo della paura e del vivo ricordo del terribile terremoto per mettere al loro posto un’opera nuova, un pezzo in più di questa catartica creazione di esistenze e futuri che dovrà essere la ricostruzione di Haiti. Chissà quando partirà, se ci sarà. Il bambino, ormai padrone orgoglioso del mazzo di carte, me le consegna una per una. Alla fine della faticaccia, sudati, bevendo un po’ del dolcissimo succo marca “Tampico”, ripartiamo le carte tra i compagni di lavoro, come ricordo. Chissà, forse un giorno qualcuno di loro si ritroverà una regina di cuori o un jack in tasca e si ricorderà di noi e del bambino che giocava scavando tra le macerie.

Aumohd
(Romina Vinci)

Finalmente giungiamo a destinazione, nella sede dell’associazione che avrebbe rappresentato il mio rifugio nei primi cinque giorni di “haitiana permanenza”. Una casa a due piani, in quello di sotto c’è una sala con delle postazioni internet: Evel le mette a disposizione gratuitamente per la gente del quartiere. La mia stanza invece era al piano di sopra, e si affacciava su un gran terrazzo le cui grate però erano ben serrate (solo il terzo giorno troverò le chiavi per aprirle). C’era un armadio rotto che occupava mezza parete, un piccolo tavolino rotondo, una sedia ed un doppio materasso a terra. Evel mi ha aiutato a fissare la zanzariera sopra il letto, e mi ha spiegato che di notte sarei rimasta sola, perché tutti loro vanno via. Non dovevo però aver paura, mi ha detto che era una zona molto sicura. Poi mi ha fatto vedere il bagno, proprio di fronte la porta della mia stanza, indicandomi un secchio posto al lato della vasca: non c’era acqua corrente, avrei dovuto attingere da lì per lavarmi.

Mi ha spiegato inoltre che la corrente era limitata, e per questo dovevo scegliere, di notte, se mantenere acceso il router per internet oppure la luce nella stanza. Non c’è stata gara: potevo stare al buio, di notte, da sola, ma non toglietemi il web.

Sono entrata in contatto con Evel e la sua associazione grazie a Fabrizio, un ragazzo che da dieci anni vive in Messico, e che ha trascorso un mese ad Haiti, subito dopo il terremoto del 12 Gennaio 2010, tra macerie e tendopoli. Per aiutarmi Fabrizio mi ha messo in contatto con una sua amica che vive nella bidonville di Delmas. L’ha chiamata dicendole che ero appena arrivata a Port-au-Prince e che, tramite me, lui voleva darle cinquanta dollari, per farle fare il passaporto, andato perso due anni fa durante il sisma. Dopo una mezzoretta lei è venuta a prendermi.

Si chiama Daphney, ha ventisette anni ed un bambino di cinque. È veramente bella. Era in compagnia di una sua amica e mi hanno portato a mangiare la pizza. Ne abbiamo presa una grossa per tutte. Io ho mangiato tre pezzi, loro uno a testa. Poi abbiamo salutato la sua amica, e Daphney mi ha detto che mi avrebbe portato a vedere casa sua, nella bidonville. Arrivate all’ingresso del campo di Delmas l’ho vista contrattare con un tizio in moto, ma pensavo che fosse un suo amico, e stessero parlando. A un certo punto mi dice: “Sali”. Io rimango un po’ perplessa, ma lei incalza così io monto sulla moto e lei dietro di me.

Bidonville di Delmas

È in questo modo che ho fatto il mio ingresso nella bidonville di Delmas, su una moto in tre, per sentieri che a confronto la Parigi-Dakar sembra un tappeto di velluto. Perché qui i taxi non ci sono, e si “affittano” le moto per spostarsi. Sarò stata lì sopra un quarto d’ora, forse anche più. In quei momenti ero completamente estraniata, dallo scenario che mi accoglieva e rigettava allo stesso tempo, e da questo “motociclista sui generis” che si inclinava, e poi sbandava, e poi metteva un piede a terra, e poi riprendeva l’equilibrio. Così ho avuto il mio battesimo di fuoco ad Haiti: all’interno di una bidonville senza mediazione di Ong, scorte o quanto altro.

Siamo arrivate a “casa” di Daphney, una mini costruzione in cemento, attaccata ad un’altra, priva di finestre: un tavolo all’ingresso, una stanza a destra e una a sinistra, con due letti matrimoniali. Due letti, sì, per otto persone. Dormono quattro su ogni letto. Suo figlio, un bambolotto con due occhioni così, sgattaiolava da tutte le parti, era tutto sporco ed aveva la ciabatte bucate. La famiglia era tutta riunita lì fuori: la mamma giocava con un’altra signora con i dadi. Un uomo lavorava carbone, un altro cuciva dei pezzi di stoffa. Una donna faceva le treccine ad un’altra. Poi c’era una bambina, avrà avuto sì e no otto anni, che in uno scatolone aveva saponi e deodoranti che spolverava ponendoli all’interno di un’altra scatola. “Sono i suoi affari”, mi ha detto Daphney accorgendosi che ero rimasta a fissarla. Nella famiglia di Daphney lavora solo un fratello. Le ho chiesto come passa lei le sue giornate, mi ha risposto “dormendo”.

Poi è arrivato Jhonny, un suo amico che parla bene inglese (già, perché avevo dimenticato un sottile dettaglio: Daphney sa dire due-tre parole in inglese, altrettante quelle che io riesco a spiccicare in francese… nonostante tutto siamo riuscite a capirci). Mi hanno fatto fare un giro a piedi, girando l’angolo, salendo su di una collinetta formata da macerie e immondizia. Era difficile mantenere l’equilibrio, tutto era molto instabile e non c’erano punti d’appoggio. Ma Jhonny mi ha aiutato sorreggendomi e, nei tratti più brutti, gli ho affidato la mia macchinetta. Davanti ai miei occhi sporcizia, baracche e capanne, ai limiti di ogni umanità. Più mi addentravo e più avvertivo qualcosa dentro che mi spingeva a prendere le distanze da quella realtà che avrei voluto rigettare. Però non avevo paura. È strano da spiegare…

Ero l’unica bianca di tutta la bidonville, avevo una macchinetta al collo, di certo non passavo inosservata. Eppure queste persone non sembravano infastidite dalla mia presenza, non percepivo ostilità nei miei confronti e neanche quando ho confidato di essere una giornalista ho sentito astio da parte loro. Insomma, tanta, tantissima, indescrivibile la povertà, ma altrettanta la dignità. Nessuno si è nascosto davanti a me oggi.

Al termine di questo “mini tour” siamo ritornati a casa di Daphney, e Jhonny è andato a comprarmi una bottiglia d’acqua. “Because you need to drink”, mi ha detto. Io ho bisogno di bere? E loro? Di cosa NON hanno bisogno loro?

È tosta da capire, ci provo, ma non ci riesco, sono troppo forti i contrasti. Daphney è curatissima, quando l’ho vista per la prima volta aveva dei jeans beige, una canotta elegante della stessa tonalità, ogni dettaglio era al suo posto. Ma come si fa? Come può mostrare una simile facciata e nascondere una così cruda realtà? Non ha cibo, non ha soldi, non ha acqua per lavarsi, eppure, dall’aspetto, sembra come me, sembra “normale”. Ho fatto questa domanda ad Evel poco fa, lui si è messo a ridere e mi ha detto che la realtà di Haiti non si può capire in un solo giorno.

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