John Coltrane

Se John Coltrane fosse ancora vivo

Ted Gioia BIGSUR, Musica, Ritratti

Jazz, spiritualità e politica nella musica dell’ultimo Coltrane. L’articolo è apparso originariamente sul Daily Beast, che ringraziamo.

di Ted Gioia
traduzione di Fabio Zantomio

Quando nel 1967 si arrese al cancro al fegato, John Coltrane era alla ribalta nel mondo del jazz. Nessun sassofonista era più rispettato dai colleghi o più amato dai fan. Coltrane aveva solo quarant’anni, ma era già un autentico mito del jazz che aveva concentrato un’intera carriera di innovazione e sperimentazione nel decennio precedente.

La morte di Coltrane mise fine alla sua carriera, ma non accennò a intaccare la sua popolarità e influenza. Ovunque andassi non potevi sfuggirle. Alla fine degli anni Settanta vissi per sei mesi in Toscana, e ogni mese compravo una copia di Musica Jazz, la rivista milanese che illustrava la scena jazz italiana. Ogni numero conteneva una classifica dei dischi jazz più venduti in Italia, e tutti i mesi senza eccezione l’album di Coltrane A Love Supreme era al primo posto – anche se era uscito da più di dieci anni e proveniva dall’altra parte del mondo.

Ricordo un altro fatto significativo, questo accaduto a fine anni Ottanta, quando passai una giornata a esaminare studenti di sassofono candidati a una borsa di studio, e notai con interesse che tutti quei ragazzi sembravano aver scelto John Coltrane come principale influenza. Eppure nessuno di loro era vecchio abbastanza per averlo visto suonare di persona. In quel periodo era difficile trovare un aspirante sassofonista, specialmente soprano o tenore, che non fosse un seguace di Coltrane.

La cosa non mi stupiva. La maggior parte di noi immersi nel jazz, incluso il sottoscritto, erano ancora impegnati a cercare di comprendere e assimilare ciò che Coltrane aveva lasciato. Non solo: eravamo così concentrati sulla sua eredità da passare poco tempo a chiederci cosa avrebbe potuto fare se fosse vissuto più a lungo. A volte, sembrava persino che quell’improvvisatore straordinario avesse detto tutto ciò che poteva dire col proprio strumento. Anche se avesse raggiunto un’età avanzata, come avrebbe potuto un musicista con una tale padronanza della sua arte fare altro che ripetersi?

Ma un live di recente pubblicazione, realizzato durante gli ultimi mesi di vita di Coltrane, mi obbliga a ripensare la questione e a riflettere su cosa questo artista rivoluzionario avrebbe potuto fare se non fosse caduto vittima del cancro. Questa musica stupefacente, registrata dal vivo alla Temple University di Philadelphia nel novembre 1966, è nota da tempo ai seguaci di Coltrane – perlopiù grazie al passaparola, sebbene siano circolati occasionalmente bootleg di pessima qualità. L’anno scorso la Resonance Records, in collaborazione con la Impulse (l’etichetta storica di Coltrane), ha pubblicato il concerto completo in un doppio cd dal titolo Offering: Live at Temple University. Finalmente gli amanti del jazz possono giudicare da sé questa musica inusuale.

Il concerto alla Temple University rappresentò una specie di ritorno a casa per Coltrane. Da adolescente si era trasferito a Philadelphia, e si era esibito a lungo in quella città prima di essere reclutato da Miles Davis per entrare a far parte del suo gruppo, nel 1955. Adesso, più di dieci anni dopo, Coltrane tornava a Philadelphia da stella mondiale del sassofono ed esponente più famoso del jazz d’avanguardia.

Ma il pubblico della Temple University non gli avrebbe concesso un bentornato da eroe locale. Alcuni spettatori iniziarono ad andarsene ancora prima della fine del primo pezzo. Altri «sembravano volersene andare ma sedevano rigidi per l’incredulità», secondo il critico jazz Francis Davis, che quella sera era presente.

La registrazione non ci lascia alcun dubbio sul motivo di questa reazione. Anche per gli standard di Coltrane, quella musica era anticonvenzionale e scioccante. A un punto ormai famoso del concerto, Coltrane posò addirittura il sassofono e si mise a cantare percuotendosi il petto con le mani, quasi avesse esaurito tutte le possibilità dello strumento e avesse bisogno di tornare al più primitivo degli strumenti musicali, il corpo umano.

Ascoltando quest’esibizione quasi mezzo secolo dopo che ha avuto luogo, il mondo del jazz ancora non mi fornisce coordinate utili a decifrarla. Mi vengono in mente invece i miei studi sullo sciamanesimo e sulla musica per indurre alla trance, argomento che è stato al cuore del mio interesse e delle mie ricerche negli ultimi anni. Alla Temple, Coltrane non si muove più da musicista jazz che improvvisa melodie, ma più come un mistico in cerca della visione.

Ricercatori come Andrew Neher e Barry Bittmann, tra gli altri, hanno confermato ciò che le società non industrializzate sapevano molto tempo fa: cioè che i riti musicali hanno un impatto tangibile sulle persone che vi partecipano. Le onde cerebrali si modificano, la chimica dell’organismo si trasforma, aumentano persino i globuli bianchi. Gli studi scientifici e antropologici concordano su due ingredienti-chiave: la musica deve contenere delle percussioni perché l’effetto sia avvertito in pieno, e la «canzone» deve durare almeno dieci minuti.

Non mi sorprende che questi elementi figurino in modo prominente nell’ultima parte della carriera di Coltrane. I brani diventarono sempre più lunghi. Durante questa fase culminante della sua evoluzione musicale, un pezzo durava di solito venti minuti o più. E molte delle sue esecuzioni più ispirate avvenivano in questi ultimi anni nel contesto di duetti batteria-sassofono. Adesso Coltrane si esibiva a volte con più percussionisti, come alla Temple University, anche se molti ascoltatori trovavano queste stratificazioni ritmiche eccessivamente complesse e fastidiose. Ma, come un vero sciamano, Coltrane credeva evidentemente che le percussioni servissero da trampolino verso un grado più alto di coinvolgimento.

Questa prospettiva mi aiuta a comprendere molti altri aspetti peculiari della sua opera nell’ultima fase della carriera. Molti fan si sono chiesti perché Coltrane fosse a quel punto tanto disposto a invitare con lui sul palco ospiti di vario grado di talento. O perché sembrasse scegliere gli accompagnatori in base ai rapporti personali che aveva con loro, piuttosto che per le loro capacità musicali. E perché nelle interviste passava così tanto tempo a parlare di spiritualità invece che dei suoi famosi cambi di accordi alternativi e altre questioni musicali? Per farla breve, perché sembrava così pronto ad abbandonare quegli stessi progressi armonici che gli erano serviti da trampolino verso la ribalta del mondo del jazz?

Se si vede Coltrane come il «grande genio del jazz», queste scelte hanno poco senso. Ma se lo si vede semplicemente come un «uomo di genio» forse si può comprendere tanto il suo percorso quanto ciò che avrebbe potuto realizzare se non fosse morto così presto. Sì, al giorno d’oggi siamo giustamente scettici riguardo agli eroi di qualsiasi genere, e qualsiasi persona ragionevole dovrebbe esitare prima di cercare guide spirituali su un palcoscenico. Ma John Coltrane potrebbe essere l’eccezione alla regola.

Ha trasformato l’intera forma d’arte, ma chiunque abbia parlato con lui per più di qualche istante sapeva che il suo vero obiettivo era la trascendenza personale. Il confine tra cambiamento individuale e progresso musicale era sempre stato sfocato per Coltrane, ma nei suoi ultimi anni di vita lo divenne ancor di più. È impossibile comprendere le sue decisioni sul palco o in studio di registrazione se le si vedono soltanto come reazioni estetiche a sfide musicali. Intervenivano altre, più ampie considerazioni – spirituali, interpersonali, sociopolitiche. E non posso fare a meno di immaginare che questi aspetti della sua eredità si sarebbero rafforzati se fosse vissuto fino alla mezza età e oltre.

Pertanto faccio fatica a concepire Coltrane salire sul carro della fusion che iniziò a imperversare nel mondo del jazz nei mesi successivi alla sua morte. Ma riesco benissimo a figurarmelo mentre suona al Concert for Bangladesh del 1971 o ad altri eventi musicali filantropici. No, non me lo immagino prendere parte al movimento jazz rétro degli anni Ottanta, che celebrava il ritorno al vocabolario anni Cinquanta nel cui sovvertimento lo stesso Coltrane aveva avuto un ruolo chiave. Ma me lo immagino fare da mentore ai musicisti più giovani, o dare una mano a promuovere lo sviluppo in Africa, Asia o altri luoghi dove i suoi istinti musicali, spirituali e politici avrebbero trovato terreno fertile per la crescita e il cambiamento.

Quando evoco un’immagine mentale di John Coltrane a cinquanta o sessant’anni – o anche ottantanove, l’età che avrebbe oggi se fosse ancora vivo – lo vedo ancora con un sassofono in mano. Ma solo qualche volta. Sospetto che avrebbe trovato il modo di fare la differenza nel mondo anche senza il suo strumento. E, soprattutto, vorrei pensare che alcuni dei suoi discepoli – e nel mondo del jazz la loro schiera è ancora numerosissima – lo avrebbero seguito su questa strada promettente.

© Ted Gioia, 2014. Tutti i diritti riservati.

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